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CULT
Impero con vista
La letteratura su media e colonialismo italiano si arricchisce di un nuovo importante contributo, “Vedere l’impero. L’Istituto Luce e il colonialismo fascista” di Gianmarco Mancosu, uno studio sull’organizzazione della cultura visuale coloniale italiana
«Il pubblico è stanco di parate militari e cerimonie: vuole vedere l’impero», scrive un alto funzionario coloniale nel dicembre del 1936. Gianmarco Mancosu prende le mosse da questa constatazione per analizzare l’intreccio tra politica espansionistica, politiche culturali e la macchina propagandistica del regime attraverso la produzione cinematografica dell’Istituto Luce. Vedere l’impero. L’Istituto Luce e il colonialismo fascista(Mimesis, Milano 2022, pp. 464, € 32) è uno studio sull’organizzazione della cultura visuale coloniale italiana, condotto con encomiabile rigore e coerenza, che esplora una pagina finora nota soltanto per sommi capi. Il punto di forza maggiore del volume, in questo senso, risiede nella ricostruzione dettagliatissima dell’apparato creato per disseminare un’immagine dei territori d’oltremare subordinata alle necessità propagandistiche del regime, ambizione costantemente frustrata da ciò che l’autore definisce «le frizioni e la disorganizzazione proprie della fabbrica del consenso coloniale» (p. 161). Da questa prospettiva, il saggio restituisce un profilo del Luce molto più complesso di quello comunemente associato alla “pupilla del regime”: un organo disfunzionale in balia a rivalità, tensioni e conflitti, deriso e aspramente criticato dai vertici dello stato, spesso più attento alle ragioni commerciali che a quelle politiche, in larga misura incapace di adempiere alla propria missione. Protagonista assoluto di Vedere l’impero, il Reparto Foto-cinematografico “Africa Orientale” dell’Istituto Luce è la cartina di tornasole tramite cui leggere i capitoli finali del colonialismo italiano in relazione con le politiche culturali e sociali del fascismo. Le vicende del Reparto diventano così per Mancosu «il riflesso di un dominio fragile e disorganizzato» (p. 389), la storia cioè di un sostanziale fallimento che va a sommarsi a quelli ben più tragici causati dalla presenza italiana in Africa.
Le conseguenze di aver relegato l’impero ai margini della storia nazionale, magari motivata dalla rapidità con cui le velleità nazionali di conquista, “civilizzazione” e popolamento si dissolsero, sono oggi sotto gli occhi di tutti. Molto è stato scritto sulla persistenza degli immaginari coloniali nel discorso pubblico italiano e sulla loro capacità di orientare l’azione politica, dalla questione delle migrazioni a quella delle cittadinanze. Più difficile, invece, catturare la dimensione specifica dell’impero, tanto più che nelle intenzioni di Mussolini esso avrebbe dovuto costituire «il compimento di una rivoluzione culturale, politica e antropologica, nonché l’inizio di una nuova era marcatamente fascista» (p. 18). È da questa prospettiva che l’operato del Luce appare rilevante da molteplici prospettive. Innanzitutto, il titanico sforzo logistico, organizzativo e finanziario alla base della produzione cinematografica nelle colonie (e, sintomaticamente, nelle piazze italiane in occasione della giornata della fede e poi della proclamazione dell’impero) è una chiara testimonianza del valore dell’impresa per il regime, e non solo. Che l’Istituto Luce abbia in effetti detenuto una sorta di monopolio visuale della guerra d’Etiopia prima e dell’impero poi contribuisce ulteriormente a esaltarne la centralità nei processi di produzione di un immaginario specificamente imperiale, nonché a spiegare il complesso di rivalità e tensioni nel quale la dirigenza dell’ente si trovò invischiata. Queste le premesse, come già detto, sapientemente ricostruite nel volume. Gli esiti cinematografici, tuttavia, se ne discostano molto: non solo parate militari e cerimonie, certo, ma una serie di «immagini parziali e distorte» (p. 18) dalle quali sembra impossibile inferire la portata, o persino la natura stessa, dell’azione del regime nelle colonie. I cinegiornali, e in particolare quelli bellici, esemplificano questa contraddizione: da un lato, un commento tutto improntato all’esaltazione dell’azione militare fascista e dell’eroismo delle truppe; dall’altro, le immagini di spazi deserti in cui avanzano senza incontrare resistenza i soldati italiani o di battaglie appena intraviste sullo sfondo.
Ed è qui, nella dissonanza tra realtà e rappresentazione, che l’analisi di Mancosu si fa meno convincente. Da buon storico, l’autore è interessato alla produzione del Luce (senza troppe sottigliezze si parla di “filmati”) nella misura in cui questa abbia documentato o meno la realtà dell’oltremare, fedele all’assunto che vuole il «formato […] documentario [ambire a] rappresentare una data realtà costruendo significati storici sulla stessa» (p. 24). Considerata in blocco, senza nemmeno distinguere documentari e cinegiornali, questa produzione è tacciata, correttamente, di aver distorto la realtà: non vi si trovano tracce dei crimini di guerra fascisti, della resistenza anti-italiana, del fallimento dei progetti di popolamento, delle ampie zone controllate dalle popolazioni locali e così via. Si tratta insomma di propaganda e in quanto tale è compito dello storico decostruirne menzogne e omissioni. Che la propaganda sia una cifra cruciale di questa produzione è indiscutibile, così come lo è il fatto che il Luce nel complesso abbia fallito nel compito di documentare l’impero. Far vedere l’impero, tuttavia, non significa soltanto documentarne la vita, compito quest’ultimo proprio dei cinegiornali. Per il documentario, e in qualche misura per il cinema di finzione, quello africano è stato in larga parte uno spazio di sperimentazione nel quale si sono messi a punto stilemi e forme dalle matrici più disparate, ma non necessariamente legati al realismo. Il più celebre dei documentari imperiali, Il cammino degli eroi di Corrado D’Errico, è un’opera compiutamente modernista che rielabora la tradizione futurista alla luce delle influenze sovietiche e tedesche: una lettura documentale, cioè realista, non è in grado di cogliere granché. Allo stesso modo gran parte della produzione non cinegiornalistica del Luce, nella sua incompiutezza, obbedisce a una concezione modernista del documentario che risponde all’esigenza di coniugare modernità, tecnologia, guerra e impero: non è un caso che una parte consistente degli operatori del Reparto provenga dai Cineguf e dal Centro Sperimentale e che nel dopoguerra si reinventa nel cinema popolare (peplum, avventura, western). Il progetto di far vedere l’impero, con tutti i limiti che il lavoro di Mancosu individua egregiamente, è coinciso per un breve tratto con il progetto di modernità. È in relazione alla configurazione nazionale del progetto della modernità, e non soltanto alla dialettica tra identità nazionale e alterità, che «queste scorie di celluloide» (p. 431) contribuiscono all’archivio italiano della colonialità.
In copertina: Poste, Telegrafi e Telefoni a Dire Daua (Etiopia), cartolina, collezione privata