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Il teorico della négritude alle prese con la prima rivolta nera vittoriosa nella storia

Toussaint Louverture, “La rivoluzione francese e il problema coloniale di Aimé Césaire” (ed. Alegre, a cura di G. Sofo e M. Nessi, 20 €) è lo studio pionieristico di un autore e politico francofono sulla rivoluzione di Saint-Domingue che portò all’instaurazione della prima repubblica nera di Haiti, applicando alla liberazione degli schiavi i principi radicali della Grande Rivoluzione contro lo stesso potere francese, ormai degenerato

Sulla rivoluzione anticoloniale di San Domingo esiste oggi una cospicua letteratura storiografica, i cui capisaldi scientifici e militanti sono però I ben noti Giacobini neri di C.L.R. James (1938 e 1963; tr. it. 2006 per DeriveApprodi) e questo appena tradotto Toussaint Louverture di Aime Césaire (1960, 1962 e 1981) – le ripetute riedizioni d’autore documentano appunto l’ininterrotto aggiornamento agli sviluppi della rivoluzione anti-coloniale di cui gli eventi haitiani sono il capitolo inaugurale. Entrambi questi autori nascono nelle Indie Occidentali (James nella Trinidad anglofona e Césaire nella Martinica francofona), sono comunisti dissidenti nell’epoca della IIi Internazionale e rivendicano il ruolo della rivoluzione nera dentro e contro il corso della Rivoluzione francese come espressione del non detto e non risolto dell’emancipazione borghese. Toussaint Louverture è l’eroe di entrambi i libri, anche se in James viene dato uno spazio più adeguato agli altri capi rivoluzionari, ora sodali e subordinati ora concorrenti, Dessalines, ovviamente, Rigaud, Jean-François, Pétion. Maurepas. Moïse, Christophe, e in genere la descrizione delle varie fasi della rivolta è più dettagliata e illuminante e meno rilievo è dato ai complicati dibattiti delle assemblee rivoluzionarie francesi. Entrambi, segno dei tempi, tendono a metter in luce le analogie non solo con le idee e le forze della Rivoluzione francese ma anche con le vicende di quella d’Ottobre, in particolare con Lenin e la Nep.  

 

Saint-Domingue non era “una colonia” fra le altre ma “la colonia”, che da sola contribuiva per 2/3 al commercio internazionale francese, grazie alle ricche piantagioni di canna da zucchero, indaco, caffè e cacao. Razzialmente la parte francese dell’isola era stratificata in tre settori: i piantatori, burocrati e petits blancssottoproletari (poco più di 35.000 nel 1789), altrettanti mulatti e negri liberi, una specie di terzo stato locale perequato ai bianchi nei diritti civili e spesso coinvolto nel sistema delle piantagioni, ma privo di diritti politici, e mezzo milioni di schiavi, che coltivavano le fabbriche-piantagioni con un ciclo continuativo di lavorazione.  Una tensione di classe esisteva fra i coloni bianchi e i commercianti marittimi francesi, le cui roccaforti erano Nantes e Bordeaux, che avevano il monopolio della tratta degli schiavi e del rifornimento dei generi alimentari dall’Europa, nonché della vendita dei prodotti agricoli locali sul continente e all’estero – il che significava un prelievo mostruoso sui redditi dell’isola, cui era proibita ogni relazione diretta con Inghilterra e Stati Uniti. Ma naturalmente gli interessi di coloni e commercianti erano uniti nel mantenimento della schiavitù e nella concorrenza con il ceto istruito e imprenditoriale mulatto, che proprio per le affinità sociali erano discriminati con le più assurde classificazioni razziali e l’esclusione da tutti i privilegi che si erano progressivamente guadagnati, L’inasprirsi delle distinzioni per panico ricorda la controrivoluzione aristocratica che negli anni ‘80 del XVIII secolo aveva in Francia cercato di ritardare l’insurrezione del Terzo Stato.  

L’errore iniziale dei coloni bianchi – nell’illusione di modificare i rapporti di forza con la borghesia commerciale dei porti francesi e insulari e conseguire i benefici del libero commercio – fu la partecipazione agli Stati Generali del 1789, cioè di seguire la via dell’integrazione al processo rivoluzionario  piuttosto che la secessione come i coloni americani dall’Inghilterra, sottovalutando la contraddizione fra i principi rivoluzionari e la permanenza della schiavitù dei neri e dell’emarginazione dei mulatti. Malgrado gli sforzi per istituire assemblee sovrane provinciali, la logica della partecipazione alla Costituente apparve incoerente sin dall’inizio, nonostante il sostegno di molti rappresentanti della costa atlantica e dei moderati come Barnave. Gli altri deputati rifiutarono di accettare una rappresentanza su base della popolazione complessiva, laddove erano eletti solo da una sua piccola frazione (chiesero 20 posti e ne ottennero sei), per di più si aprì ima controversia sullo status giuridico di mulatti e neri, sull’incompatibilità della schiavitù con i diritti dell’uomo solennemente riconosciuti il 4 agosto 1789 e si manifestò una veemente opposizione pro-mulatti da parte della società degli Amici dei neri e dell’attivissimo abbé Grégoire. 

Da questo momento Césaire segue in parallelo (come aveva fatto Jones – ma i due si guardano bene dal citarsi a vicenda) le vicende parlamentari (e non solo) francesi, dalla Costituente alla Legislativa, dalla Convenzione alle assemblee della fase del Direttorio e del Consolato e le tappe dei molteplici conflitti interni di Santo Domingo: dalla sedizione indipendentista bianca sconfessata dalla Costituente, allo scontro fra bianchi e mulatti, avviato con la sommossa e il barbaro supplizio di Vincent Ogé nel 1790-1791, alla loro ricomposizione, benedetta dai Girondini cointeressati ai profitti coloniali,  davanti all’insurrezione nera, che si manifesta sia con l’appoggio alla sedizione mulatta sia con l’insorgenza messianica di Boukman nel 1791, e a tutti gli ulteriori sviluppi e interventi spagnolo e inglese. Marat fu il solo a dichiararsi coerentemente in quello stesso 1791 per l’abolizione della schiavitù e perfino per l’indipendenza dalla colonia. 

Il parallelismo (anche qui come già in Jones) mette in rilievo la grandezza e il limite di Toussaint quale leader giacobino nero integrato ai destini della Rivoluzione, capace di aggregare e poi di disaggregare un fronte composito politico e militare, fermandosi e venendo del pari travolto sull’orlo dello scioglimento di una contraddizione – l’esitazione nel portare sino in fondo il conflitto di classe in Francia, l’esitazione davanti al passo decisivo dell’indipendenza nella colonia caraibica.

Accanto alla grande capacità di leadership militare e politica nella complessa struttura sociale e razziale dell’isola e all’accorta gestione delle contraddizioni fra i bianchi, con i mulatti, con le frazioni rivoluzionarie francesi e le potenze estere in guerra con la Francia, Toussaint rivelerà alcuni aspetti problematici che spingono sia Jones che Césaire a un raffronto con l’esperienza sovietica del 1917-1922. 

Toussaint, dopo i primi successi e nell’impossibilità di un intervento militare della metropoli impegnata sullo scacchiere europeo, si preoccupa delle devastazioni compiute dai braccianti neri e promuove una politica di riconciliazione con quella parte dei bianchi che hanno rinunciato a imporre la schiavitù, impegnandosi a mantenere il sistema delle piantagioni, trasformando gli schiavi in salariati senza assegnare loro le terre in piccoli appezzamenti di sussistenza, facilitando nel contempo la permanenza e l’utilizzo dei bianchi nei ruoli in cui possedevano una superiore competenza, in analogia all’impiego dei tecnici militari e civili che farà Lenin dopo l’Ottobre e durante la guerra civile. Produttivismo e disciplina, nell’ambito della piantagione-fabbrica, sono sostenuti da Toussaint, contro le impazienze dei suoi stessi generali, per tenere in vita l’economia nazionale e trattenere i bianchi indispensabili; tuttavia questa linea si accompagnava in Lenin a una prospettiva socialista differita, che compensava le concessioni della Nep e giustificava i privilegi temporanei conferiti agli specialisti borghesi e alla piccola impresa. Toussaint usa mezzi analoghi ma in assenza di una prospettiva radicale (che avrebbe potuto essere l’indipendenza) e, anzi, approfitta di queste misure per consolidare un potere personale e abusa del tatticismo, ammantato di segretezza, anche quando ciò compromette il consenso di masse convinte e informate per resistere al ritorno della reazione coloniale. 

Infatti, anche nella fase di predominio giacobino della Convenzione e di egemonia robespierrista l’assenso alla liberazione degli schiavi viene non dall’applicazione consequenziale dell’eguaglianza repubblicana ma dalla pressione dell’insurrezione nera e dalle necessità della guerra contro la Spagna e l’Inghilterra. All’inizio Toussaint, probabilmente uno schiavo liberato (cosa ignota a James e Césaire) si inserisce nella sollevazione di Boukman e, dopo l’uccisione del condottiero, riorganizza le forze ribelli con grande efficienza adottando una strategia politica opportunistica, che tiene conto delle incoerenze e sbandamenti della politica francese. Dapprima si proclama difensore del Re imprigionato dai rivoluzionari, in seguito ricorrerà ad alleanze tattiche con gli Spagnoli, che occupavano metà dell’isola di Santo Domingo, e con gli Inglesi e gli Americani, concorrenti dei bianchi locali e tramite di rifornimento di armi e vettovaglie ai ribelli. Sempre tuttavia con l’obiettivo di sopprimere la schiavitù e di affermare il potere nero. Soltanto dopo la disfatta delle forze realiste e moderate in Francia Toussaint si identifica con il regime giacobino, cui aderisce quando il commissario Santhonax proclamò l’abolizione della schiavitù e la Convenzione ratificò la misura. A quel punto Toussaint ruppe l’alleanza con gli Spagnoli, invase la loro porzione di isola e issò il tricolore repubblicano. 

Negli anni successivi, crollato il regime giacobino in Francia con il Termidoro, l’appoggio francese diventò precario e crebbero le tendenze alla restaurazione dello ordine schiavistico, facendo leva sul mai sopito contrasto fra mulatti e neri, così da costringere Toussaint a una defatigante tattica nel gioco triangolare fra questi due schieramenti e i bianchi, divisi e tenuti buoni con la politica di trasformazione salariale del sistema di piantagioni. Egli fu spinto, in questa situazione, a concentrare il potere nelle sue mani e ad agire di fatto in modo autonomo dalla sempre meno affidabile tutela francese, fino a stabilire rapporti diretti con inglesi e americani, preparandosi a un peggioramento dei rapporti con Parigi. Il Consolato e in particolare Bonaparte inviavano pessimi segnali, come il mantenimento della schiavitù nelle altre isole antillesi, Guadalupe e Martinica.  L’ordine napoleonico, che era un ordine borghese, «richiedeva la reintroduzione nell’isola dello zucchero […] secondo la logica del sistema» (Césaire, p. 291). Il passo logico successivo avrebbe dovuto essere – come richiedevano i generali di Toussaint, in primo luogo Dessalines – l’espulsione dei bianchi e la proclamazione de jure di quell’indipendenza che veniva praticata de facto senza diventare una parola d’ordine mobilitante di massa, mentre si faceva avanti, dall’altra parte, il decisionismo imperiale di Bonaparte. Césaire storico, al pari di Jones, ha ben chiaro l’errore del suo eroe, ma da militante (fu a lungo deputato della Martinica e sindaco del suo capoluogo) non si batté per l’indipendenza, preferendo l’integrazione della sua isola quale dipartimento francese…

Quando Napoleone nel 1802 spedì il cognato Leclerc con 20.000 soldati a riprendersi Saint-Domingue con istruzioni segrete di ristabilire la schiavitù e arrestare Toussaint, appena le condizioni lo consentissero, il leader nero si oppose fiaccamente all’inconcepibile tradimento della Francia e finì, sempre contro il parere di suoi generali, per accettare un’equivoca tregua, cadendo nella trappola di salire a bordo di una nave francese che lo sequestrerà e condurrà al tragico epilogo della sua vita in un castello-carcere sulle montagne del Giura. Il sacrificio personale di Toussaint Louverture non trascinò però la sua causa: Dessalines prende in mano la situazione con mezzi radicali, stermina i bianchi, conduce una feroce guerriglia favorita anche dall’imperversare della febbre gialla fra gli invasori napoleonici e nel 1803 proclama l’indipendenza della neonata Repubblica di Haiti, primo libero stato nero della storia. E qui comincia, malgrado le molte traversie protrattesi fino ai nostro giorni, un’altra storia.