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“Il teatro del desiderio” di Matteo Bonazzi
È da poco uscito per i tipo di Orthotes il libro di Matteo Bonazzi, “Il teatro del desiderio. Jacques Lacan, da Platone a Spinoza”, che invita a pensare l’etica, la filosofia e la politica a partire dalla psicoanalisi. Testimonianza o forma di contagio, la psicoanalisi permette di riflettere sull’opacità strutturale del significante e del soggetto al di là di ogni mossa naturalizzante.
L’ultimo libro di Matteo Bonazzi è una vertiginosa attraversata della vita psichica, condotta con intensità, fedeltà, sopportazione dell’ambiguità, fertile malinconia dello sguardo. Un viaggio impervio che, tuttavia, non ha niente di un godimento maledetto, del piacere del gouffre. Per quanto il cammino sia aspro, ci si sente presi per mano in una sorta di solidarietà che non fa comunione, di vicinanza che convive con la solitudine. Una visita guidata, insomma, da chi ci sta accanto lasciandoci il piacere e il tormento della scoperta.
Come si torna dal viaggio? Cosa resta dopo l’attraversamento? Il teatro del desiderio è il tentativo di rispondere a queste domande. Vedute impervie si sono aperte, i piani della doxa e dell’episteme, messi entrambi sotto tensione, hanno subito torsioni, capovolgimenti, riconfigurazioni, hanno patito gli effetti di uno sguardo che punta sulla mancanza, sull’irrappresentabile.
Se ne torna storditi, non c’è dubbio. Ma è uno stordimento che si fa immediatamente bisogno di trasmissione, di testimonianza, perché è chiaro che il paesaggio che si è aperto non riguarda solo chi lo ha visto, ma misura la sua intensità sulla urgenza di incidere sul piano del discorso pubblico, del legame sociale, in una parola del discorso politico. L’avventura a due o a tre (se si aggiunge la presenza bizzarra e calamitante dell’Oggetto) che si compie nella stanza dell’analisi, per quanto abbia bisogno di una bolla fuori dal tempo e dallo spazio del quotidiano, dischiude orizzonti che non possono non contagiare, non suggestionare la vita pubblica. È il paradosso di un’esperienza che mentre si dà in uno stato di eccezione, in una zona in fondo ad alto tasso di tecnicità, in uno spazio ritagliato, sente fin da subito il bisogno di tradursi in una riformulazione del legame sociale.
Dunque cosa ha da insegnare la psicoanalisi all’etica e alla filosofia? Potremmo dire, innanzitutto, che “insegnare” non è il verbo giusto. Meglio forse “trasmettere”, “trasferire”, “contagiare”, “testimoniare”. L’esitazione nella scelta del termine è segno di un rapporto per un verso impossibile tra psicoanalisi e filosofia, per l’altro, urgente e forse non più rinviabile. C’è qualcosa che lo favorisce senza, tuttavia, mitigarne le asperità. In ogni ordine etico, per la psicoanalisi come per la filosofia, c’è sempre un punto di opacità, di non leggibilità, un fondamento mistico. «A quel livello, non c’è una ragione per cui si deve rispettare quello che viene detto, ma una sorta di autoreferenzialità mistica» (p. 25). Pensiamo al fondamento mistico della legge che Freud riconduce all’istanza paterna. È proprio dall’ Uomo Mosè e la religione monoteistica che parte il viaggio di Bonazzi: l’identificazione al padre non si produce a partire da una trasmissione cosciente, bensì come una scrittura a livello inconscio, come una lastra fotografica che segna e incide il corpo, in discontinuità col continuum materno, e che, in quanto tale, spiega contemporaneamente il meccanismo dell’inconscio individuale e quello collettivo. È sulla base di questa rimozione originaria che si inscrive il carattere sacro del tabù, il quale è autoreferenziale, imponendo da se stesso l’interdizione, è ovvio e al contempo infondato. In questo consiste il suo mana: di per sé inviolabile, non ubbidisce al meccanismo della punizione, semmai si vendica da sé, attraverso una trasmissione diretta per cui l’individuo che trasgredisce, contagiato, diviene lui stesso tabù. Qui risiede la radice psicologica dell’imperativo categorico: il dovere per il dovere senza ancoraggi patologici di cui ci ha parlato Kant. «Questo riferirsi alla purezza vuota e formale della Legge ha dietro di sé, dice Freud, la storia inindagata del tabù, il quale non è qualcosa che si è depositato soltanto nella psiche dei primitivi, ma ‘un frammento inconscio di vita psichica’ che è operativo in tutti noi e che la psicoanalisi scopre ascoltando quegli uomini non più primitivi che sono i nevrotici. In altre parole, nell’inconscio c’è un elemento di sacralità che non può essere indagato e che, soprattutto, è portatore di quella forza misteriosa, il mana, che minaccia, protegge e si trasmette per contagio» (p. 30). Dunque, la forza inconscia dell’etica freudiana approda a qualcosa di molto simile all’etica formale kantiana, ma suggerisce di rimanere al di qua dell’ideale, per radicarsi nell’ambivalenza dell’inconscio.
Comincia così a delinearsi il profilo dell’etica psicoanalitica. Si tratta, innanzitutto, di un’etica che ama le parole, che corteggia i significanti, che gioca con i sembianti, perché ha definitivamente rinunciato all’ethos come “carattere”, in senso aristotelico, ovvero all’idea che nella natura umana sia inscritta un’indole in potenza che occorre nutrire e su cui occorre vigilare con padronanza e perizia per portarla a compimento. L’etica aristotelica è passata dall’utilitarismo segnico di Bentham (il segno ha ucciso la Cosa) per arrivare alla psicoanalisi, a Freud ma soprattutto a Lacan.
Ma che parola è quella psicoanalitica? È una parola, che mentre viene pronunciata viene fatta saltare perché il non-verbale appaia nel verbale. Lo dice bene Derrida, in questo consonante con l’esperienza analitica: «faccio funzionare le parole in maniera tale per cui in un certo momento non appartengano più al discorso, a ciò che regola il discorso – da qui gli omonimi, le parole frammentate, i nomi propri che non derivano essenzialmente dal linguaggio. Trattando le parole come nomi propri si interrompe l’ordine abituale del discorso, l’autorità della discorsività. E se amo le parole, è anche in ragione della loro capacità di evadere dalla forma che è loro propria, che sia l’interesse che porto loro in quanto cose visibili, lettere rappresentanti la visibilità spaziale della parola, o in quanto cose musicali o udibili»[1].
L’etica psicoanalitica è dunque l’etica di un segreto inscritto nel significante, di un irrappresentabile che giace sotto la parola, di una colpa strutturale che coincide con la rimozione originaria, essendo il soggetto non accidentalmente ma essenzialmente diviso.
Le vie che Matteo Bonazzi sceglie per farci sentire questo segreto sono molte e tutte saldamente intrecciate tra loro, nel tentativo di far emergere il centro radioattivo dell’insegnamento lacaniano. C’è però una questione che più delle altre sostiene e turba il suo discorso: quella del rapporto (im)possibile tra psicoanalisi e filosofia. Due discipline, due partiche meglio, che condividono un destino comune, almeno fino a un certo punto. Entrambe mirano a un al di là rispetto alla doxa e all’episteme, guardano nella direzione del vero, e tornano da questo viaggio, che è un’erotica della verità, profondamente modificate. Non si vede più come si vedeva prima. Lacan stesso, nel Seminario XIX, sottolinea la prossimità che l’idea platonica ha con l’oggetto della pratica analitica. «Platone era lacaniano e anche un po’ debile non essendo installato saldamente in un discorso», dice scherzando, ma non troppo. L’idea ci promette di cogliere ciò che produce una falla beante nel dire. Intesa così, l’idea non è più tanto ciò che si vede al di là della soglia, bensì quell’impossibile a dire e a vedere che coincide con l’oggetto a. Dell’idea non possiamo avere un’idea. Si aprono allora due possibilità: quella propriamente filosofica, che insiste nel cercare di dire quel che non si può dire, e quella psicoanalitica, che smette «di cercare di dire ciò che non si può dire, fine della filosofia, per farne la causa del proprio dire, inizio della psicoanalisi» (p. 70).
Il passaggio da ciò che inseguiamo a ciò che ci causa produce una vera sovversione. Se volessimo farne l’identikit diremmo così: la forma cede il posto all’erotica, l’universale al singolare. E questo movimento ha una potente ricaduta nella sfera pubblica e del diritto. L’universalità non è qualcosa da conquistare, non è dell’ordine dell’ideale, «non si tratta – scrive Matteo Bonazzi – di aggiungere all’uomo europeo l’uomo indiano, quello cinese, quello africano ecc., ma di cogliere piuttosto, che l’universalità concreta si dà in ogni momento di lotta ed è sempre in atto, proprio perché abbandonando la sua astratta e vuota universalità si scopre radicata nella singolarità che la fa ex-sistere nella sua battaglia» (pp. 132-133). Ecco allora che la lotta e l’azione politica si inscrivono nel lutto dell’ideale, e in questo lutto si scopre la posta in gioco nella questione del diritto.
Si tratta di un movimento che mima, potremmo dire, quanto accade nella direzione della cura e che coglie la risonanza politica dell’avventura psicoanalitica. Là dove fallisce il riconoscimento immaginario, scatta il desiderio di interpretazione e lo slittamento simbolico del senso. Ma col tempo, anche quest’ultimo si sfinisce nel fallimento reiterato della reciprocità e della comprensione. Si tratta allora di fare i conti con la parzialità del legame, con il non-rapporto insito in ogni relazione, facendo di questa beanza l’occasione di una generazione spontanea. Di una generazione, cioè, non preparata da un essere in potenza, non sostenuta dalla continuità con quanto c’era prima, un salto nell’essere in cui contingenza e necessità si stringono la mano. Si tratta di una nuova logica dell’azione, capace di lasciarsi infiltrare dalla negatività di cui siamo fatti, in modo che il tratto apocalittico del desiderio, anziché farsi prendere nella deriva tragica, si rovesci in una forma inedita di affermazione.
[1] J. Derrida, Pensare al non vedere. Scritti sulle arti del visibile (1979-2004), Jaka Book, Milano 2020, pp. 55-56.