approfondimenti

OPINIONI

Il silenzio della sinistra

La disfatta dei Dem statunitensi e la crisi epocale della sinistra italiana (Dem e movimenti) sollecitano un salutare pessimismo, che impone di azzerare molte cose affinché altri (presumibilmente) riprendano un percorso di liberazione e salvezza

Le cose non stanno malissimo in Italia. La sinistra parlamentare sembra aver interrotto la corsa dissennata all’autodistruzione elettorale, il mese di novembre registra un tessuto fitto di resistenze sociali e politiche e di contro-condotte quale non si vedeva da tempo. È dunque il momento giusto per prendere, senza eccessivo sconforto, le misure dell’abisso che si è spalancato davanti a noi e magari per trovare qualche contromisura per evitare che l’abisso scruti noi invece che noi l’abisso.

Si tratta anche – per circoscrivere il fenomeno – del fallimento di una generazione (la mia e pure un paio di quelle successive) che non necessariamente coinvolge chi oggi ha 15-20 anni. Figuriamoci, noi ci dichiaravamo perfino “comunisti” e, siccome sono una zecca rossa e non un infame, lo rivendico – con la medesima legittimità archeologica con cui possiamo affermare senza ombra di dubbio che le costruzioni di Efeso sono in buona parte ellenistiche.

Il collasso della sinistra in Italia e in un bel pezzo di Europa (tranne che in Francia) è saltato agli occhi con le elezioni Usa in modo ancora poco rumoroso ma altrettanto devastante della caduta del Muro nel 1989. In simultanea con il crollo dei Dem americani. Costoro hanno una storia ben diversa da quelli nostrani e fino all’ultima tornata elettorale addirittura rappresentavano il grande capitale Usa, ma a essi ci si era passo dopo passo avvicinati, attenuando le differenze nel corso degli anni (il riferimento al marxismo, la struttura stretta a partito, il contesto costituzionale di inserimento). Con l’aggiunta di una recente imitazione italiana delle Culture War, dell’Identity politics e altro. Perfino la destra trumpiana va abbastanza scimmiottando le destre sovraniste europee –­ beninteso con lo scarto fra il manifest destiny Usa e il wannabe di un’Europa divisa, fra il «Fight, fight fight!» di Trump e la nostra lamentosa Giorgia che non può prendersi una giornata di malattia.

I guai nostri

Non ho le competenze per spiegare le ragioni della catastrofe della candidatura Kamala Harris (ci sono già molte convincenti analisi a caldo ed è stato rilevato che Trump ha di poco incrementato i suoi elettori, mentre Harris ne ha persi sei milioni rispetto a Biden 2020), quindi mi limito a registrarne gli effetti sulla sinistra italiana ed europea, che hanno imposto un’accelerazione a processi già avviati (la parabola discendente di Zelenskij, l’agonia del governo semaforo in Germania, l’ascesa politica di formazioni fasciste di tipo nuovo e lo spostamento a destra dell’asse UE) ma hanno pure messo a nudo di colpo un’inconsistenza preesistente – l’abisso di cui sopra.

Il primo segno dell’assimilazione della stampa mainstream e della sinistra politica italiana alla campagna Harris si era manifestata nell’ottusa convinzione, corroborata da sondaggi inaffidabili, prima in una grande ripresa dopo la tardiva rinuncia di Biden e la discesa in campo, poi nell’assestamento su un lieve vantaggio, infine sulla contesa testa a testa, fino all’incredibile entusiasmo per la remontada  in Iowa, che invece era un palese invenzione last minute per disperazione. Lo dico non per infierire, ma per rimarcare la subordinazione del Pd alla stampa di regime e di entrambe alle notizie fake d’oltreoceano, in assenza di un impegno per il cambiamento in Italia e in Europa. E neppure menziono l’adesione acritica alle linee di politica estera Usa (Palestina compresa) e al ripiegamento centrista di Harris perfino rispetto al Biden sindacalista.

Ma veniamo agli affari propriamente nostri, a uno scenario che, come spesso, ha anticipato le linee di tendenza internazionali. Le forze progressiste non hanno subito un crollo elettorale paragonabile a quello Usa (chissà se è un segno di resilienza o di scarsa vitalità del Paese) ma hanno smarrito da lungo tempo l’egemonia culturale e, a causa delle endemiche divisioni interne, non realizzano il proprio potenziale elettorale, mentre le destre di presentano compatte, malgrado differenze interne significative, e pretendono con maggiore plausibilità di rappresentare Nazione e Popolo  – che se ne sbatte, ma vota fidelizzato e garantisce a Meloni, minoranza della minoranza del 50% che vota, un potere di comando per ora stabile.

L’egemonia di Meloni scandisce meno l’avvento di un nuovo potere carismatico che lo sfacelo accelerato dell’egemonia del vecchio cartello delle sinistre a guida Pci e, in termini più generali, la dissoluzione di una sinistra progressista – che data da lungo tempo e fa tutt’uno con l’accettazione del neoliberalismo ma è precipitata con il sopravvento di un regime di guerra e di austerità che ha posto fine al lungo terzo dopoguerra, cioè all’intervallo fra Seconda e Terza Guerra mondiale, quali che siano le forme che essa assumerà. Il fatto che in quel lungo dopoguerra, ora al crepuscolo, ci sia stata una forza, di regola non rivoluzionaria ma spesso conflittuale chiamata per inerzia “sinistra” risiede ormai solo nella memoria di alcuni sopravvissuti ma non è più un dato esperienziale comune. Per molta “gente” il Pd è stato addirittura la forza di governo che ha dominato per molti decenni, lo si confonde con la DC, anche per la continuità di una parte del personale politico. Questa sinistra in via di sparizione ha meritato il suo destino, si estingue con un rantolo, non con un grido.

In fin dei conti, da quando almeno in Europa c’è stato un rapporto conclamato fra sinistra e classe sociale, le mutazioni della composizione di classe e le innovazioni tecnologiche che hanno favorito la crescente importanza della sussunzione formale rispetto alla sussunzione reale (quindi la frammentazione del proletariato e la sua esondazione in settori esterni alla concentrazione di fabbrica) hanno rimesso in questione la linearità di quel rapporto e comunque la sua adeguatezza  strategica a supportare un cambiamento radicale conferendo invece importanza alla “cultura” come segno distintivo e strumento di lotta.

Dal fordismo al post-fordismo

Nella cultura comprendiamo l’ideologia, la potenza dei miti, una promessa di salvezza e l’azione politica organizzata, in primo luogo il partito. Questo, già presente a fine Ottocento e nel Novecento, si caratterizza per il ruolo centrale che, nella parte più attiva del movimento socialista, i comunisti, assumono nel corso delle due esperienze storiche fondamentali di conquista del potere. La Rivoluzione d’Ottobre e la lunga marcia della Rivoluzione cinese (entrambe con forti componenti non operaie). Ancor più determinanti furono in seguito il partito-guida e lo Stato-guida – che fu l’Urss fino al 1956 e in misura più immaginaria la Cina fra il 1949 e l’esaurimento della Rivoluzione culturale con la morte di Mao nel 1976. Senza condensazione politica ed emotiva di questa cultura nessun militante avrebbe sopportato i sacrifici quotidiani del suo stato e il non remoto rischio di morte nello scontro con una borghesia feroce e vendicativa.

Per una fase transitoria, disattivato il mito della Rivoluzione, non riproponibile nell’Europa occidentale post-bellica, al centro subentrarono la lotta per la pace (nella prospettiva tragica di un olocausto nucleare), con un generico “campismo” correlato, e un programma più o meno incisivo di riforme sociali e strutturali. L’avvento tardivo e impetuoso in Italia del fordismo registrò un bell’innesto della battaglia culturale sulla percezione dei mutamenti organizzativi della fabbrica (per l’ultima volta centrale per la definizione di classe), con l’autunno caldo del 1969 e la battaglia per aumenti eguali per tutti e la destrutturazione del sistema delle qualifiche e gabbie salariali. Qui si manifestò uno strappo del movimento progressista dal tessuto del Pci, che fu la nostra piccola “rivoluzione culturale”.

La trasformazione post-fordista però non ha generato (con importanti eccezioni) un’eguale risposta culturale e dagli anni ’80 entrambe le culture parallele e in reciproca polemica di Pd e movimenti cominciano a perdere colpi. Un vischioso declino che al momento ha raggiunto lo stadio agonico – anzi, peggio: la fase in cui non gliene frega più niente a nessuno e i sussulti di ripresa programmatica si configurano, a essere pietosi, come dead cat bounces, rimbalzi del gatto morto.

Al contrario, la destra si è trovata a suo agio con la balcanizzazione del mercato del lavoro conseguente alla disarticolazione produttiva post-fordista, rilanciando le sue tradizionali ipotesi corporative riverniciate di neoliberalismo (non era difficile). Come supplemento d’anima – l’equivalente nero del mito proletario della rivoluzione – funzionano l’appello al patriottismo nutrito di xenofobia verso gli immigrati e ancor più la retorica del successo individuale. Tutti pronti ad abbracciare lo stile muscolare trumpiano, magari rivendicando il vitalismo squadrista. Ma soprattutto si tratta di una ricomposizione elettoralmente funzionale di pezzi e interessi scomposti che si oppone in maniera vincente e conservativa all’incapacità della sinistra (con eccezioni limitate nelle aree del femminismo, dell’ambientalismo e del capitalismo di piattaforma) di elaborare e consolidare una cultura alternativa e sovversiva dell’intersezionalità.

Non è la sola lacuna a sinistra. Una stabile tradizione era stata, in tutte le tappe del movimento operaio e poi progressista la denuncia della guerra imperialistica come strumento dell’egemonia borghese e della divisione proletaria. L’abbandono di quella linea – di una cultura del rifiuto della guerra fra le nazioni – ha paralizzato la sinistra in Europa, prima sulla Jugoslavia poi sull’Ucraina e ha favorito perfino la delega della causa palestinese a pulsioni fondamentalistiche e a equivoche istanze decoloniali.

Insomma, ce n’è per tutti: Pd, movimenti, campisti, militanti del Sud globale. Una desolata afasia ne è l’esito complessivo. La sinistra oggi non è in grado di promettere salvezza né un futuro.

Perché si ricostruisca una cultura di sinistra e passi all’offensiva ci vorranno due o tre generazioni – pochi o molti anni – e speriamo che non servano catastrofi ulteriori. Ma dobbiamo partire, oltre che dall’auspicabile scomparsa di alcuni suoi agenti soggettivi nefasti o irrimediabilmente sfigati, dall’azzeramento di molti pezzi di quel dissanguato patrimonio culturale e dal non nominarne invano altri. Qualcosa da salvare ci sarà senz’altro, ma non siamo noi, testimoni estremi e fallimentari, a deciderlo. Preferisco immaginarlo come un fiume che, alimentato da robuste piogge, riprende il corso naturale e rioccupa i suoi spazi. Almeno saremo in linea con la rovinosa evoluzione climatica piuttosto che con la scontata entropia di ogni fenomeno vitale. L’abisso ci scruta e c’è speranza, ma non per noi.


Immagine di copertina: WIkimedia Commons

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