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Il rumore dei corpi feriti
Come l’Isochiminica ha avvelenato la provincia di Avellino con la “bonifica” dell’amianto ferroviario – lo documenta un libro di Antonello Petrillo.
È trascorso da poco più di un mese il trentacinquesimo anniversario del terremoto che il 23 novembre del 1980 colpì un pezzo importante dell’Italia meridionale, l’Irpinia, in particolare. Di quel tragico evento oggi si ricordano soprattutto gli innumerevoli sprechi pubblici e i tanti scandali politici legati ai soldi per la ricostruzione. Ma c’è di più. Molto, di più. Quella vasta porzione di Paese che fu colpita dal sisma ( Campania, Basilicata e parte della Puglia) ora ci parla di come il flusso di denaro che investì quei territori ne stravolse possibilità e vocazioni. Lasciando sul campo rapporti sociali lacerati e comunità distrutte. La provincia di Avellino, epicentrica rispetto all’intera area interessata ( 17000kmq, 687 comuni colpiti, 6 milioni di cittadini coinvolti) ne pagò il prezzo più alto. In termini di distruzione e morte. Ma anche di rapina del territorio e controllo della popolazione. Soprattutto a causa di ciò che avvenne dopo, quando la legge straordinaria n. 219/1980 impose una nuova mentalità in questa parte del territorio nazionale: “un nuovo ordine discorsivo emergenziale”. Tale per cui, aree che erano tradizionalmente arretrate sul piano dello sviluppo industriale si trasformarono così, già allora, in laboratori della moderna fabbrica nomade globalizzata, quella che si sposta in tutto il globo alla ricerca di costi di impresa più bassi e relazioni industriali sempre più favorevoli. È nel contesto dell’intervento statale straordinario, lì dove divenne possibile prescindere dalle leggi ordinarie, in materia di appalti, controllo della spesa pubblica, edificazione dei suoli e autorizzazioni ambientali ( e non solo) che matura la scelta di installare nella prima metà degli anni’80, ad Avellino, l’Isochimica. È la primavera del 1982, l’ente Ferrovie dello Stato (Fs) in seguito alla necessità di far fronte alle normative europee in materia di sicurezza dei rotabili, con particolare riferimento alla bonifica delle componenti in amianto, prevede la decoibentazione di tutto il parco motrici elettriche e di quattromila carrozze. La lavorazione viene esternalizzata aì un’impresa costituita all’uopo. L’Isochimica, appunto. In questo modo spetterà a una piccola e improvvisata impresa del Sud Italia di garantire il diritto alla sicurezza di tutti i viaggiatori italiani. Così, 1740 vagoni e 499 locomotori delle ferrovie italiane saranno “scoibentati” prima direttamente sul binario morto della piccola stazione locale, all’aria aperta, tra studenti e pendolari. Poi, successivamente, all’interno di un capannone, nel quartiere di Borgo Ferrovia, a duecento metri di distanza dalle sue case, dal campo sportivo, dalle scuole elementari e materne.
Avellino, una città di soli sessantamila abitanti. Una fabbrica che fa entrare i veleni direttamente nelle vite delle persone. Trecento operai addetti e quasi due milioni di chilogrammi di amianto da rimuovere. Materiali di scarto che dal 1982 al 1988 furono depositati all’interno del perimetro della fabbrica e in luoghi limitrofi, non del tutto ancora noti. Un solo padrone, Elio Graziano. Imprenditore vicino alla cosiddetta corrente della “sinistra ferroviaria” del Partito Socialista, tocca a lui, o meglio, ai suoi giovani e improvvisati operai, l’onere / onore di liberare dalle fibre di asbesto treni e vetture. Sono gli anni della Milano da bere e dell’Irpinia terremotata da affamare. Dunque pare non esserci luogo migliore per installarci la più pericolosa e mortale delle lavorazioni, la rimozione dell’amianto da tutto il parco ferroviario italiano. La tragica vicenda dell’Isochimica, ora, a trent’anni e passa di distanza chiama in causa una lunga sequenza di amministratori e politici, locali e nazionali; interi apparati dello Stato: organismi di controllo, enti previdenziali e istituzioni giudiziarie. Il sindacato, accusato di aver taciuto. Ma soprattutto, questa è una storia che tira in ballo un modello di sviluppo criminale – in larga parte sbagliato, non più proponibile – disegnato per gran parte dell’Italia meridionale, all’indomani del terremoto del 1980. Una cartografia del disastro, fatta di urbanizzazione selvaggia e rapina di preziose risorse: sociali, naturali e territoriali.
Il silenzio della polvere. Verità, capitale e morte in una storia meridionale di amianto, curato da Antonello Petrillo (Mimesis/Cartografie sociali, Milano 2015) è l’esito di una ricerca socio- etnografica condotta sul campo da URiT (l’Unità di Ricerca sulle Topografie sociali dell’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli). Per più di due anni l’equipe di giovani sociologi guidati da Antonello Petrillo è stata sul campo. Partecipando ad assemblee operaie e di quartiere, intervistando in profondità numerosi testimoni privilegiati, raccogliendo materiali biografici ed esaminando nel dettaglio le fonti di stampa locale. Ne è nato un lavoro scientifico acuto, ma che si legge come un romanzo. In cui si narra “dell’ultima fase evolutiva della questione meridionale e dei discorsi che l’hanno accompagnata”. Come scrive lo stesso Petrillo, nell’introduzione al volume: “ vi è rivelata, mostrandocela ai suoi albori, l’altra faccia della globalizzazione. Il saccheggio di territori e popolazione, il ricatto occupazionale, lo sfruttamento cieco del lavoro sotto la vernice dello sviluppo e del progresso, la morte raccontata come vita”.
La ricerca si muove, sotto il profilo teorico, in stretta continuità con il filone di ricerche di cui l’URiT si occupa già da anni. Ovvero lo studio delle forme e dei dispositivi “entro i quali si articola materialmente la governamentalità tardo-liberale di territori e popolazioni”. Sulla scorta delle suggestioni di Michel Foucault: “l’insieme delle tecniche e delle tattiche di governo, cioè, che permettono di definire di volta in volta quel che compete allo Stato e quello che non gli compete”. Non soltanto. URiT si dà il compito di “decostruire le narrazioni correnti”, intendendo la sociologia esattamente come la definiva Pierre Bourdieu. Ossia come sport da combattimento. Da praticare per mettere a nudo le contraddizioni e mistificazioni che giungono dai poteri e dall’organizzazione sociale. È lo stesso Petrillo a riconoscerlo: “da più di due anni ascoltiamo e raccogliamo la parola negata degli uomini e delle donne protagonisti di questa vicenda, partecipiamo alle loro assemblee e ne seguiamo l’impervio percorso verso il riconoscimento dei propri diritti. La verità è che le loro storie ci hanno preso nelle carne. Le porteremo sempre, gelosamente, con noi: come loro si portano addosso l’amianto”.
Sono i processi di costruzione delle verità, così come emergono dalle testimonianze e dai dati raccolti, a rendere la storia di Isochimica nel suo essere tragica, esemplare. Verità produttiva di due effetti, come è spiegato da Stefania Ferraro in uno dei saggi che compongono il volume, Una medicina sociale dell’amianto. Così scrive la ricercatrice: “il primo – in ordine temporale – è l’occultamento del pericolo connesso alla scoibentazione dell’amianto. Il secondo è il ridimensionamento del danno patologico provocato dall’esposizione”. E ancora: “il problema, in storie come queste, non è l’assenza di norme a tutela dei lavoratori, ma il fatto che occultare il pericolo serva a massimizzare i profitti, poiché consente di eludere i costi di gestione per la messa in sicurezza dei lavoratori”.
Le urla e il silenzio. La vicenda Isochimica oggi. Il 13 dicembre del 1988, su disposizione del Procuratore di Firenze Beniamino Deidda, vengono posti i sigilli ai capannoni A e B della fabbrica. Da lì comincerà un processo a carico di alcuni dirigenti delle Ferrovie dello Stato e del padrone dell’Isochimica Elio Graziano, nel frattempo caduto in disgrazia, con la quasi fine delle sue protezioni politiche. La società fallirà nel 1990. Nello stesso anno un’intervenuta amnistia salverà l’imprenditore dalla galera. Con Graziano cadde anche la squadra di calcio che presiedeva, l’Avellino Calcio, che passerà in poco tempo dalla serie A alle serie minori. In questa storia di “carne e di ossa”, di vita e di morte, il calcio agirà spesso come importante veicolo di consenso e fattore di normalizzazione sociale. È un articolo di stampa di qualche anno fa, ora rintracciabile anche on line: http://cerca.unita.it/ARCHIVE a suggerire questa ipotesi e a disegnare bene il quadro politico in cui si muoveva l’ingegner Graziano. Il passo è scritto da Enrico Fierro: “era sicuro di sé l’ex ferroviere diventato ingegnere chimico in Francia. Gli amici della sinistra ferroviaria, quella di Signorile e Rocco Trane… Era diventato o presidente della squadra di calcio e in tribuna d’onore sedeva con De Mita, con Mancino e con Salverino De Vito, il ministro del Mezzogiorno. Tutti insieme a gridare Forza Lupi. Intanto un lupo vorace, l’amianto, divorava la vita degli operai e della gente del quartiere”.
È un altro saggio contenuto nel libro di Petrillo, invece, a rivelare dettagli ancora più inquietanti. In I giornali e l’amianto, scritto da Giovanni Della Cerra, si legge così: “la delegittimazione del dissenso fa il paio con le minacce e le spedizione punitive degli sgherri che il padrone dell’Avellino tiene a libro paga. Da presidente della squadra di calcio distribuisce abbonamenti in tribuna e biglietti per la curva come doni per farsi amici potenti o per comprare il silenzio di potenziali contestatori”. Dunque, in un clima del genere non meraviglia che le prime denunce degli operai, cominciate già nel 1984, rimangano inascoltate. Così come le prime inchieste giornalistiche. Infatti, agli innumerevoli esposti presentati dai lavoratori, la Procura di Avellino ha dato voce esattamente dopo trent’anni. Il 30 maggio 2013, il nuovo procuratore capo di Avellino, Rosario Cantelmo, da poco insediatosi, dispone il sequestro dell’ex stabilimento Isochimica. Ipotizzando, a carico di 29 persone – amministratori pubblici e sindaci succedutisi nel tempo, dirigenti e curatori fallimentari dell’impresa, alti funzionari delle ferrovie e responsabili della Asl di Avellino – tra le altre cose, i reati di omicidio colposo e disastro doloso. Il processo è tuttora in corso. Ma al di là della verità giudiziaria che sarà scritta, restano dei dati inoppugnabili: i costi sociali e sanitari che una fabbrica lascia sul campo, numeri di morte messi in evidenza più volte dai medici della Valle del fiume Sabato, che in tutti questi anni hanno lavorato al fianco dei comitati di cittadini ed operai. Ma rimangono anche il rumore dei corpi e delle loro resistenze, la lotta disperata degli uomini dell’Isochimica e delle donne del quartiere Borgo Ferrovia. “Eroi tragici della democrazia” in un quartiere come tanti, alla periferia del mondo globalizzato: “con i polmoni carichi di amianto hanno trovato il coraggio di urlare”. Di contribuire alla scrittura di “una storia di carne e di ossa, delle difficoltà di dire il vero nel nostro tempo ipermediatizzato”.