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OPINIONI

Il rapporto Draghi e noi

Le ambizioni del piano Draghi non tengono abbastanza conto dei limiti posti della stretta dell’Europa fra debito comune e quadro fiscale che ne prevede la riduzione, fra austerità e innalzamento della spesa bellica. Nel più benevolo dei casi è utopistico

Cosa contiene il rapporto Draghi e perché ha assunto un ruolo così rilevante nell’attuale monento di crisi e confusione delle politiche e degli assetti dell’UE?

1. Il rapporto Draghi

Mario Draghi ha presentato il 9 settembre 2024 il suo rapporto Il futuro della competitività europea diviso in due parti. Nella Parte A troviamo esposta la Strategia di competitività per l’Europa mentre la parte B si concentra su specifiche politiche settoriali e orizzontali dell’UE. Il ragionamento di Draghi parte parlando della ridotta crescita dell’Europa a causa del rallentamento della produttività.

Negli ultimi anni questa tendenza ha aumentato il divario con gli USA mentre la Cina ha iniziato a recuperare il terreno rispetto all’Europa. Ciò ha portato ad una perdita del tenore di vita delle famiglie europee. Su base pro capite, il reddito disponibile reale è cresciuto quasi il doppio negli USA se messo a confronto con l’UE a partire dal 2000. Una simile situazione è stata aggravata, dice Draghi, da tre condizioni esterne favorevoli all’Europa che sono venute meno. Si tratta della rapida crescita del commercio mondiale, cosa che costringe le imprese europee a una maggiore concorrenza mentre hanno un minore accesso ai mercati esteri, la perdita del principale fornitore d’energia del continente, ovvero la Russia a causa della guerra in Ucraina, e infine la necessità di investire le proprie risorse per la difesa. Draghi, una volta delineato questo scenario, sostiene che le nostre priorità debbano essere aumentare la produttività e rafforzare la nostra sicurezza altrimenti non sarà possibile preservare i punti di forza del modello economico europeo e raggiungere obiettivi ambiziosi come alti livelli di inclusione sociale, neutralità per quanto riguarda le emissioni di CO2 e una maggiore rilevanza geopolitica.

Per rilanciare la crescita il rapporto di Draghi individua tre aree di intervento. In primo luogo occorre contrastare il rallentamento della crescita della produttività provando a colmare il divario di innovazione con USA e Cina. Draghi reputa che l’innovazione possa diventare il motore della crescita del continente e il modo in cui sviluppare nuove tecnologie e preservare la leadership manifatturiera europea. Altri due punti su cui dovrebbe concentrare gli sforzi l’Europa sono la riduzione dei prezzi elevati dell’energia e l’aumento della sicurezza del continente. Per quanto riguarda l’energia le imprese europee si scontrano con prezzi dell’energia elettrica anche di 2/3 volte superiori rispetto agli USA mentre i pezzi del gas naturale sono superiori di 4/5 volte. L’obiettivo è ridurre questi costi mentre si procede verso la decarbonizzazione e l’economia circolare. Draghi sostiene che l’UE possa giocare un ruolo di primo piano nelle nuove tecnologie pulite ma per raggiungere un simile scopo tutte le politiche europee devono agire in sintonia con gli obietti di decarbonizzazione. Il secondo punto invece parte dalla necessità, davanti ad un contesto geopolitico instabile e sull’impossibilità di fare affidamento come in passato sugli USA, di ridurre le dipendenze ormai diventate delle vulnerabilità. La conclusione a cui giunge Draghi è la necessità di elaborare una vera politica economica estera europea assieme ad una capacità industriale di difesa indipendente.

Serve un piano per controllare e gestire queste dipendenze e rafforzare anche gli investimenti nella difesa. In tutte queste aree il rapporto Draghi spinge per un maggior coordinamento tra gli Stati membri per evitare duplicazioni, standard incompatibili e una mancata considerazione delle esternalità, tra gli strumenti finanziari e tra le politiche fiscali, commerciali ed economiche estere come accade negli USA e in Cina. Per raggiungere tutti questi ambiziosi obiettivi vanno trovate le risorse necessarie che Draghi quantifica in almeno 750/800 miliardi di euro di investimenti aggiuntivi annui, ovvero il 4,4/4,7% del PIL dell’UE nel 2023. Se facciamo un paragone con il Piano Marshall, nel periodo compreso tra il 1948 e il 1951 vennero fatti investimenti pari all’1/2% del PIL dell’UE. La quota di investimenti in Europa deve passare dal 22% del PIL a circa il 27%, andando in netta controtendenza rispetto ad un declino che dura da troppi decenni nella maggior parte delle grandi economie del continente. Non a caso il Piano Draghi ricorda che si è creato un divario tra gli investimenti produttivi privati nell’UE e negli USA che non è stato colmato da un parallelo aumento degli investimenti pubblici che sono calati dopo la crisi finanziaria del 2007-2008 e sono stati sempre più bassi nel nostro continente rispetto agli USA in termini di quota del PIL.

Per Draghi occorre sbloccare gli investimenti pubblici e privati tramite incentivi fiscali. Questo stimolo peserà sulle finanze pubbliche ma i costi di bilancio verranno ridotti dagli aumenti della produttività. Ad esempio un aumento del 2% del livello di produttività totale dei fattori dell’UE in dieci anni potrebbe già coprire fino a un terzo della spesa di bilancio necessaria per mettere in pratica il piano. Per il rapporto di Draghi uno dei limiti maggiori dell’Europa è il mercato dei capitali, ad oggi troppo frammentato, a cui bisogna rispondere con la costruzione di un’Unione dei mercati dei capitali e trasformando l’ESMA in un’autorità di regolamentazione unica e comune per tutti i mercati mobiliari dell’UE. Per quanto riguarda il settore bancario, occorre sostenere la cartolarizzazione e completare l’Unione bancaria. Il rapporto, inoltre, suggerisce di orientare l’UE verso l’emissione regolare di asset comuni sicuri per esempio emettendo strumenti di debito comuni sul modello del NGEU. Questo debito comune avrebbe lo scopo di finanziare i progetti di investimento congiunti. Infine il rapporto suggerisce di modificare i Trattati e di estendere la regola della maggioranza qualificata delle votazioni del Consiglio ad un maggior numero di settori.

2. Analisi critica

La miglior critica al rapporto Draghi finora scritta in Italia viene dall’economista Luca Lombardi che ha pubblicato a inizio dicembre una dettagliata analisi sul sito Machina dal titolo L’inesorabile declino dell’Europa nel rapporto Draghi. Per Lombardi il rapporto Draghi descrive un’Europa idealizzata, con un welfare efficiente e una bassa disuguaglianza in cui occorre rifondare il modello europeo a partire dalla competitività delle imprese in uno scenario internazionale contraddistinto da dazi, guerre commerciali e boicottaggio dello sviluppo tecnologico altrui. Tutte questioni su cui i paesi europei non hanno una linea comune perché sono tra loro molto diversi e pertanto è facile dividerli per metterli l’uno contro l’altro. Draghi inoltre non menziona un grosso problema dell’UE, ovvero la sua politica economica che vieta il debito pubblico ed è contro la spesa pubblica. Ancora vige la regola secondo cui il rapporto debito pubblico/PIL debba rimanere sotto la soglia del 60% nonostante venga violata da molti paesi europei e la media europea sia oggi intorno all’80%. Questo implica che nei prossimi anni gli stati membri dell’UE dovranno ridurre la spesa pubblica o aumentare le tasse per rientrare in questi parametri. A questo punto Lombardi introduce l’elefante nella stanza: le spese militari.

Dopo il 1989 i paesi europei hanno ridotto il loro budget militare e di conseguenza hanno ridotto le dimensioni del loro apparato bellico. A causa delle tensioni in Europa Orientale, questa situazione, su pressione degli USA, dovrà radicalmente cambiare e siccome contestualmente i paesi europei dovranno ridurre la spesa pubblica totale, rischiamo di vedere distrutto ciò che resta dello stato sociale europeo.

La distruzione del modello europeo, dice Lombardi, richiederebbe come via d’uscita un’Europa federale ma questo esito è osteggiato dagli USA. Tuttavia senza un’Europa politicamente unita uno degli obiettivi principali di Draghi, cioè la nascita di aziende europee capaci di competere con quelle americane e cinesi, non è possibile perché le imprese, per quanto operanti su scenari mondiali, mantengono dei legami nazionali. A venir meno è l’illusione mercantilista e liberista secondo cui l’unificazione politica europea sia una conseguenza del mercato unico europeo.

Su questo fronte Lombardi è molto critico perché ritiene l’Unione uno spazio in cui ogni Stato lotta per ottenere quanto più possibile contribuendovi il meno possibile. Le imprese europee non hanno interessi comuni e di conseguenza le istituzioni europee sono paralizzate. Ogni tentativo di rendere la governance europea più snella e rapida allontana qualche paese. Per esempio la Brexit nasce da un tentativo franco-tedesco di rimodellare la governance dell’UE per renderla più snella. L’Unione però non è un semplice dominio della Germania e dei suoi satelliti, non è una semplice estensione continentale degli interessi tedeschi ma allo stesso tempo non è possibile procedere oltre con l’integrazione senza proporre l’abolizione degli Stati nazionali. Per questo le proposte del Piano Draghi in questo ambito non sono che vaghe lamentale, senza contare che non dice nulla né della politica fiscale né della politica monetaria della BCE.

A questo punto ci si domanda: chi paga? Draghi propone 800 miliardi di euro di investimenti annui per inserire l’Europa nei settori economici chiave per il futuro. Se queste risorse fossero fondi aggiuntivi le alternative per reperire le risorse sono due: nuova tassazione o nuovo debito pubblico. Nel primo caso l’Europa dovrebbe inasprire la tassazione sui redditi medio-bassi visto che le aliquote sui redditi elevati sono in calo da decenni in Occidente mentre si assiste al dumping fiscale tra i paesi europei.

Il nuovo debito pubblico entrerebbe in contrasto con il quadro fiscale dell’UE che impone una sua riduzione. Inoltre il debito comune europeo vede una ferma opposizione della Germania.

Il rischio è che non potendo contare su risorse pubbliche, il piano potrebbe essere finanziato da risorse private garantite con soldi pubblici. Infine il rapporto afferma in maniera esplicita che i progetti europei dovranno passare per i mercati finanziari che dovranno essere ricompensati per questo aiuto. La mia prospettiva è dentro e contro il Piano Draghi. Le critiche di Lombardi vanno prese in considerazione ma come ricorda su “Internazionale” n. 1581 Thomas Piketty questo piano offre alla sinistra elementi per andare oltre il dogma dell’austerità europea. Accettiamo il principio che l’Europa ha il dovere di fare grandi investimenti ma poi è salutare che ci si scontri per quale modello di sviluppo debba essere perseguito.

Draghi, dice Piketty, segue l’impostazione di un tecnocrate favorevole al mercato e orientata al consumo. Dà molta enfasi sulle sovvenzioni pubbliche agli investimenti privati nei settori chiave dell’economia del futuro, come il digitale e l’intelligenza artificiale, suggerisce di investire nelle università e nella ricerca ma soli in pochi poli d’eccellenza delle grandi metropoli senza dire nulla sulla necessità di ridurre i divari territoriali tra zone più sviluppate e meno sviluppate del continente e senza spiegare come questa maggiore competitività del continente possa tradursi in maggiore ricchezza per gli europei e in un rafforzamento del nostro welfare.

Insomma, quello che non dobbiamo fare è rendere il Piano Draghi acriticamente l’agenda politica della sinistra ma non possiamo che stare dentro e contro la prospettiva di un rilancio degli investimenti pubblici a livello europeo proponendo un nostro modello di Europa alternativo a quello della tecnocrazia di Bruxelles.

Immagine di copertina: Mario Draghi su WikimediaCommons

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