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Il radicalismo nero di Cedric Robinson

Black Marxism di Cedric Robinson, caposaldo della letteratura sul radicalismo nero, con uno strano effetto di spiazzamento per l’accumularsi, nei 40 anni intercorsi fra l’edizione originaria e la traduzione italiana, di eventi e scritti che hanno reso popolari informazioni e concetti

Venerdì 7 giugno alle 18 sarà presentato a Esc Black Marxism di Cedric Robinson, un caposaldo della letteratura sul radicalismo nero, con uno strano effetto di spiazzamento per l’accumularsi, nei 40 anni intercorsi fra l’edizione originaria e la traduzione italiana, di eventi e scritti che hanno reso popolari informazioni e concetti lasciando in ombra chi per primo aveva cercato di studiare e organizzare queste forme di analisi e resistenza

 

Più che di Black Marxism, il libro omonimo di Cedric Robinson (1983 e 2000, tr. it. di E. Giammarco, prefazione e postfazione di M. Mellino, Edizioni Alegre, Roma 2023) parla in realtà – come recita il sottotitolo – di genealogia della tradizione radicale nera e lascia in parte inevasa la domanda, suggerita seduttivamente dal titolo, dell’impatto del capitalismo razzializzato e delle lotte anticapitaliste razzializzate sull’interpretazione del Moro – restituiamogli almeno il soprannome!

Il percorso del libro non è lineare e ciò ne rende complessa l’esposizione e non agevole un giudizio. L’effetto di “fuori sincrono”, dovuto alla distanza fra data di pubblicazione e di (prima, tardiva e benemerita) traduzione italiana e insieme lo scarto con la più recente fioritura di studi sulla razza, sul genere e sul marxismo eterodosso contribuisce ulteriormente al senso di spaesamento che accompagna la lettura di questo scritto pionieristico

Delle tre principali direttrici del libro, riesame della storia europea in quanto costruita sistemicamente su un “razzialismo” – fondato all’inizio su una mitologia del “sangue” più che del “colore” –, critica ai limiti del marxismo tradizionale che tende a trascurare l’unità organica di capitalismo e razzismo, tradizione radicale nera esente dei limiti eurocentrici, la seconda è stata quella di maggior successo postumo, ma in realtà è più un’efficace critica delle strategie e delle parole d’ordine dei partiti comunisti europei e statunitensi che l’autore, al pari di C.L.R. James, aveva attivamente attraversato, che non una messa in discussione della struttura teorica marxiana e della sua evoluzione interna. Anzi, a differenza da Althusser, Moulier-Boutang o Dussel, Robinson non considera o valorizza i passi di Marx maturo e tardo in cui smonta lo schema stadiale hegeliano-eurocentrico dell’evoluzione del capitalismo e delle linee dell’accumulazione originaria, con tutte le conseguenze sul rapporto struttura-sovrastruttura e sulle molteplici possibilità di transizione ad altro sistema.

Nel cosiddetto VI libro del Capitale Marx introduce in particolare una distinzione fra sussunzione formale e materiale che, se per un verso conferma la tendenza del capitale alla seconda soluzione, cioè all’intensificata estorsione del plusvalore relativo e dunque alle tecnologie produttive piò avanzate, dall’altro apre alla possibilità che vengano inserite nel circuito capitalistico forme anteriori di sfruttamento. L’ampliamento della sfera della sussunzione formale (ancora marginale e residuale ai tempi di Marx, che la esemplifica solo nel campo del lavoro a domicilio) avviene oggi mediante operazioni finanziarie, controllo dei flussi globali, pratiche di esternalizzazione e subappalto, che naturalmente comportano una sempre più spiccata razzializzazione (e sessizzazione) dello sfruttamento e la resurrezione perfino di forme di servitù.

Robinson non affronta tale questione teorica, in cambio descrive con grande efficacia come il capitalismo non si sia sviluppato secondo una logica omogeneizzante, che riesca davvero a cancellare le differenze di razza, genere e nazione, anzi si innesti sull’incentivazione di razzismo e nazionalismo, sin dalle prime fasi dell’accumulazione originaria – non solo nelle colonie ma anche dentro l’Occidente, per esempio con il colonialismo interno nei confronti degli irlandesi o dei popoli sud-ed est-europei.

Il paradigma del capitalismo razziale rende conto, perfino in età precapitalistica a partire dal IV-V secolo d.C., di una concezione gerarchica del genere umano che funziona da dispositivo identitario e di governo (cfr. postfazione di Mellino, p. 219), definendo così tutta la “civiltà occidentale” che in ogni momento ha costruito e sfruttato gruppi, classi e popoli di poveri al di sopra dei quali edificare una cultura, i cui monumenti lo sono nel contempo anche di barbarie – tanto per citare Benjamin.     

Meno convincente e più contestabile in molti dettagli è forse la ricostruzione dello sviluppo del capitalismo razzializzato in Europa, che “eurocentrizza” il fenomeno della schiavitù, già presente indipendentemente dalla colonizzazione in Asia, Africa e America Latina precolombiana e che dunque viene riqualificata dall’inserimento nell’accumulazione colonial-capitalistica. Altre perplessità nascono nel modo di intendere il capitalismo razzializzato, che oscilla fra un fenomeno strutturale in cui la variante razziale è ineliminabile e un fenomeno a dominanza sovrastrutturale che assorbe e offusca l’estorsione di plusvalore – con una ricaduta essenzialistica.

Il grande contributo di Robinson sta piuttosto nella messa in evidenza dell’universo del radicalismo nero fuori della sua sussunzione subalterna nelle prospettive “occidentali” di assoggettamento e di emancipazione

Ivi comprese, dunque, le formulazioni marxiste tradizionali della Seconda e Terza Internazionale (e Quarta, nel caso di James) e, ovviamente, le letture paternalistiche e vittimarie quali che ne fossero le buone intenzioni. Vengono invece messe in rilievo le componenti di ribellione e resistenza al colonialismo nelle sue varie fasi. Il radicalismo politico nero, così, «non può essere inteso come una semplice variante della tradizione radicale occidentale» (postfazione cit., p. 733), nascendo originariamente dalla negazione europea dell’Africa e dalla costruzione culturale degli africani come popolazioni sub-umane e in seguito dall’invenzione statunitense del “negro”, disumanizzato e animalizzato come sola forza-lavoro dal suprematismo bianco. Un modello inferiorizzante riapplicato ai danni degli arabi e di tutte le popolazioni del Maghreb e del Medio Oriente, e riattualizzato ai giorni nostri nel rapporto fra israeliani e palestinesi.

Se in molte pagine, specialmente sull’Africa, molte differenze interne vengono compresse resuscitando tentazioni di essenzialismo, ben netta è invece l’individuazione, soprattutto nelle “metropoli”, delle faglie che attraversano la piccola borghesia nera, formatasi quale strumento e complice del sistema coloniale ma allo stesso tempo afflitta dal razzismo bianco e dalla cattiva coscienza del tradimento delle proprie radici. Ciò ha comportato una scissione fra una parte integrata ai valori “occidentali” e una parte ribelle che ha condotto, fra le due guerre mondiali, una lotta importante come intellighenzia radicale, in alleanza sempre ambigua con il radicalismo bianco e con i partiti comunisti inquinati dal suprematismo bianco.

Il rilievo conferito alla presa di coscienza e quindi all’unità fra struttura e sovrastruttura è un passaggio importante del processo di superamento dello schematismo economicistico del marxismo occidentale e viene giocato molto bene nelle analisi dedicate ai maestri del pensiero radicale nero – Du Bois, James e Wright in prima battuta

Tuttavia le dinamiche di classe (evidenti soprattutto nell’integrazione di una borghesia nera nel sistema Usa di potere) risultano a volte sottovalutate e si affaccia spesso il rischio di una naturalizzazione delle forme di oppressione ed emancipazione razziale dei subalterni, ridotti alla figura dell’altro, inassimilabile per essenza alla logica gerarchica del capitalismo razziale.

A ragione Mellino, a chiusura dei suoi commenti, accosta e contrappone al Black Marxism di C. Robinson il Black Altantic di P. Gilroy, in cui la genealogia dell’identità nera riceve senso dai percorsi di ibridazione (routes) quanto dalle radici (roots) africane, riducendo i rischi di un afrocentrismo essenzializzante. Quanto succede nella diaspora è più interessante dell’origine e agisce più potentemente nella formazione della modernità, infrangendo la logica binaria dell’eurocentrismo bianco. Operazione del resto, cui il testo di Robinson aveva copiosamente contribuito, sebbene esso stesso forgiato con categorie fordiste capovolte ma non decostruite.

Immagine di copertina di Stephen Melkisethian

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