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Il nuovo progetto di Eni in Congo

Il famoso piano Mattei “non predatorio” si rivela nient’altro che un passivo adeguamento governativo alle strategie Eni, con accompagnamento ufficiale in tutte le aree in cui il cane a sei zampe lavora per accrescere la nostra dipendenza dal gas

Il 27 febbraio 2024, Eni ha ultimato la prima spedizione di gas liquefatto dal Congo all’Italia. Per diverse ragioni, l’attività estrattiva di Eni in Congo esemplifica bene il modello di cooperazione tra Italia e Africa definito “non predatorio” dal governo Meloni e promosso dal fantomatico Piano Mattei.

Il “progetto Congo LNG” era stato annunciato poco più di un anno fa: si tratta di una collaborazione con la russa Lukoil che prevede due impianti per lo sfruttamento di due giacimenti a largo della costa del Congo, nelle sue acque territoriali. Il primo impianto, celebrato come pietra miliare dell’industria degli idrocarburi congolese, è stato inaugurato due mesi fa e prevede di liquefare inizialmente 1 mld di m³ all’anno di gas naturale, per arrivare a regime a una capacità di 4,5 mld di m³ annui. Un ulteriore impianto, con una capacità di 3,5 mld di m³ annui, dovrebbe entrare in funzione nel 2025. Il mese scorso, Eni ha annunciato che il carico, a bordo di una nave cargo, è arrivato a destinazione al contestato e “strategico” terminale di rigassificazione di Piombino (contro cui si opponeva, inizialmente, anche il partito di governo).

La presenza di Eni nel paese risale al 1968, e oggi detiene una condizione di quasi monopolio in cui la multinazionale di stato italiana è la sola azienda fornitrice di gas operante in Congo. Dal gas estratto e distribuito dall’Eni dipende la Centrale Elettrica del Congo, che produce il 70% dell’energia elettrica del paese centrafricano.

Frutto di una collaborazione iniziata nel 2019 con la russa Lukoil, in seguito all’invasione russa dell’Ucraina, le licenze di sfruttamento nelle acque territoriali del Congo sono state oggetto di sanzioni nel 2022 e, per rimanere in regola, le quote di Lukoil sono state ridotte a meno del 33% per diversi blocchi ancora sotto licenza esplorativa. Nel caso specifico dei giacimenti sopracitati, le quote per le licenze di esplorazione e sfruttamento sono del 65% di Eni, del 25% di New Age Limited (azienda britannica la cui quota è stata acquisita completamente da Lukoil nel 2019) e appena del 10% di SNPC (la compagnia petrolifera statale del Congo). I numeri di per sé pongono quantomeno dei dubbi sul modello “non predatorio” della Presidente del Consiglio italiana. A questo si aggiungano i dubbi sollevati da inchieste della stampa francese e italiana sulle manovre per ottenere il controllo dei giacimenti a prezzi decisamente inferiori al loro valore di mercato.

Il connubio tra la politica italiana e gli interessi di Eni

L’attività di Eni in Congo e il progetto Congo LNG si inseriscono organicamente nella politica estera italiana in Africa, ultimamente esemplificata dal piano Mattei, il piano di collaborazione col continente africano promosso da Giorgia Meloni, che, ad ora, è poco più che la riunione sotto un’unica etichetta di progetti e finanziamenti già avviati in precedenza.

Nel corso del 2023, durante svariate visite nel continente per costruire le relazioni necessarie all’inaugurazione del piano, Meloni è stata accompagnata dall’amministratore delegato Eni Claudio Descalzi: in particolare proprio in Congo, in Mozambico e in Libia. Oltre alla realizzazione degli impianti in Congo, le visite hanno fruttato importanti risultati materiali, come la firma di un contratto da € 7,3 miliardi tra Eni e la compagnia petrolifera libica nazionale (NOC, National Oil Company) all’indomani della visita della Presidente del Consiglio a Tripoli. Dato l’allineamento della politica estera italiana agli interessi di Eni, è quasi più opportuno dire che è Giorgia Meloni ad aver accompagnato Claudio Descalzi. D’altronde lo stato, tramite il Ministero delle Finanze e Cassa Depositi e Prestiti controlla il 32% di Eni, sufficiente ad esserne azionista di controllo. Il supporto del governo a Eni avviene anche sul piano retorico. Lo scorso 10 ottobre, in occasione dell’anniversario della Fondazione dell’Eni, Giorgia Meloni aveva affermato in modo cristallino che «celebrare i 70 anni dell’Eni vuol dire celebrare la nostra storia nazionale».

Proprio nelle ultime settimane, la Camera ha approvato la spesa per le missioni militari a tutela delle fonti fossili, che sono in costante crescita dal 2019 (con 840 milioni stimati per il 2024). Tra le aree interessate, spiccano Medio Oriente, Mediterraneo centrale e orientale, Golfo di Guinea e Mozambico. Secondo la delibera del Consiglio di ministri approvata dalla Camera, l’operazione Gabinia nel Golfo di Guinea ha come primo compito la protezione di petroliere e altre imbarcazioni nonché degli «asset estrattivi di ENI, operando in acque internazionali». L’operazione Mediterraneo Sicuro, oltre al supporto alla Marina libica nel pattugliamento del mare tra la Libia e l’Italia, svolge anche attività di «sorveglianza e protezione delle piattaforme dell’ENI ubicate nelle acque internazionali prospicienti la costa libica». Si tratta solo di due esempi di una spesa in crescita che il ministro della Difesa Guido Crosetto ha giustificato il 19 marzo citando un’aumentata instabilità, argomentazione ripresa qualche giorno dopo dal Capo di Stato Maggiore Giuseppe Cavo Dragone in un’audizione parlamentare.

La scelta di rinnovare queste missioni a protezione degli interessi privati di Eni non solo aggrava il disastro climatico, ma rivela anche il rapporto di subordinazione che lega il governo alla multinazionale italiana del fossile.

L’insicurezza energetica del governo Meloni

Secondo Descalzi, le operazioni estrattive nei paesi africani contribuiscono alla «sicurezza energetica europea». In realtà, è vero il contrario: una politica focalizzata sull’energia fossile mette a rischio questa sicurezza. Da un lato, si espone all’instabilità politica dei paesi in cui si trovano i giacimenti. Un esempio è proprio il caso libico: pochi mesi fa, delle proteste hanno bloccato il giacimento libico di Sharara e hanno minacciato di estendersi al complesso di Mellitah, snodo fondamentale per il gasdotto Greenstream che rifornisce l’Italia, rischiando di comprometterne le forniture. Dopo un blocco di quasi tre settimane, dovuto alle proteste nell’intera regione, la compagnia di stato libica ha annunciato una ripresa del flusso e la situazione è rientrata sotto controllo. Tuttavia, è innegabile che le infrastrutture energetiche in Libia siano oggetto di un continuo conflitto e negoziazioni da parte di attori politico-militari in un quadro tutt’altro che stabile: la possibilità che nei prossimi anni la capacità libica di esportare gas e petrolio sia compromessa da ulteriori proteste. Ed è proprio l’insistenza sul fossile a causare instabilità. Le stesse proteste in Libia chiedevano di limitare l’inquinamento e di creare posti di lavoro sul posto, quando invece gli impianti estrattivi richiedono manodopera specializzata che viene importata dall’estero. In altre parole, contrariamente alla retorica del modello “non predatorio”, non si tratta di attività che distribuiscono localmente la ricchezza prodotta.

Inoltre, alcuni giacimenti da cui dipendono le forniture per l’Italia, tra cui quelli libici, sono in via di esaurimento. Secondo l’Autorità di controllo libica, è proprio per questo motivo che la quantità di gas esportata verso l’Italia l’anno scorso ha subito un calo dell’8% rispetto al flusso normale. Secondo alcuni ricercatori, la Libia da paese esportatore potrebbe addirittura diventare paese importatore, in competizione diretta con l’Italia.

Non solo, ma l’intera Africa è una delle regioni più esposte al cambiamento climatico, con cicli delle piogge sconvolti, alluvioni, temperature elevatissime, e ancora alluvioni. Secondo un report della Banca Mondiale, il Congo potrebbe creare posti di lavoro e ridurre drasticamente la povertà tagliando le emissioni e trasformando le infrastrutture: lo sfruttamento e l’espropriazione delle sue risorse fossili non possono certamente favorire la prosperità e la stabilità della regione.

Queste sono tutte considerazioni secondarie nell’ottica del governo Meloni, intento a trasformare l’Italia in un hub europeo del gas, proprio mentre l’Europa dismette sempre più rapidamente la propria dipendenza energetica dal gas, che sin dal 2022 è stato superato da solare ed eolico nelle fonti energetiche dell’UE.

Come se tutto questo non bastasse, lo scorso 13 ottobre, durante la visita in Mozambico, Giorgia Meloni aveva dichiarato: «Non ci sarebbe nulla di nuovo se presentassimo un piano all’Africa. La cosa nuova è scriverlo insieme, stabilire le priorità e portare avanti una strategia». Eppure, quando il Piano è stato “svelato” al vertice Italia-Africa del 29 gennaio, il presidente dell’Unione Africana Moussa Faki ha smentito clamorosamente la Presidente del Consiglio, criticando non solo la modalità con cui era stato organizzato il vertice stesso, ma soprattutto il fatto che nessuno Stato africano fosse stato interpellato nella stesura ed elaborazione del piano. Una lettera, firmata da 80 associazioni africane, ha criticato apertamente il piano, chiedendo la fine delle operazioni neocoloniali in Africa, l’allontanamento dal fossile e l’accesso alla transizione energetica.

Insomma, se il Piano Mattei a oggi risulta solo una goffa operazione di rebranding del più classico schema di “cooperazione” economica neocoloniale, con tanto di “divisione dell’Africa in quadranti” come da vecchia tradizione coloniale, le operazioni che proteggono gli interessi di Eni e permettono di ottenere condizioni di monopolio sull’estrazione del gas e di evitare le sanzioni contro la Russia svelano il reale modello di investimento dell’Italia in Africa, incentrato su propaganda e affari con regimi autoritari per profitti, e dividendi altissimi per gli azionisti, anche e soprattutto politici.

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Immagine di copertina: XR su Facebook

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