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EUROPA

Il nuovo corridoio dell’idrogeno e la politica energetica della UE

Malgrado il ridimensionamento delle “politiche verdi”, l’idrogeno conserva una relativa importanza nelle ultime direttive europee. Analizziamo l’impatto ambientale di questa grande opera e come essa influisce sugli equilibri interni, ma anche esterni, alla UE

Lo scorso 30 luglio, il governo spagnolo ha dato l’OK alla costruzione dell’H2Med, il celebre corridoio dell’idrogeno che, attraverso la connessione con la Francia, mira a rifornire l’Europa centrale con questa nuova risorsa, potenzialmente verde, proveniente dalla penisola iberica.

Il progetto, inizialmente concepito nell’ambito del REPowerEU per ridurre la dipendenza energetica dalla Russia, ha assunto un ruolo di primo piano nelle linee guida della nuova presidenza Von Der Leyen, che delineano un passaggio da quello che un tempo era il Green New Deal a un ridimensionato Clean Industrial Deal.

Si tratta di un’iniziativa che segna probabilmente una svolta nel nuovo assetto produttivo del continente, con la Spagna che si candida a diventare l’hub europeo per le nuove fonti energetiche, aprendo però scenari controversi in termini di impatto ambientale, con cui i movimenti ecologisti dovranno confrontarsi. Ma procediamo con ordine.

Cos’è l’idrogeno?

L’idrogeno non è una fonte di energia nel senso tradizionale del termine, ma un vettore energetico. Può essere visto come una sorta di batteria naturale: un mezzo che consente di immagazzinare energia per utilizzarla in un secondo momento. Questo processo avviene grazie alla sua ricombinazione con l’ossigeno, una reazione che, oltre a produrre energia chimica, ha come scarto l’acqua.

Fin qui, possiamo dire che l’idrogeno è effettivamente una tecnologia libera da emissioni. Il problema risiede piuttosto nell’impatto dei processi necessari per conseguire tale elemento. Ovvero, possiamo affermare che l’energia prodotta tramite l’idrogeno è pulita nella misura in cui lo sono i metodi per ottenerlo.

A parte pochi casi ancora in fase di sperimentazione, l’idrogeno non si trova normalmente allo stato naturale; viene ottenuto agendo su diversi tipi di molecole attraverso processi che richiedono energia. È proprio tale energia che determina se l’idrogeno possa essere considerato una tecnologia davvero pulita.

Attualmente, oltre il 97% dell’idrogeno utilizzato proviene da fonti fossili (come derivati del petrolio, gas o carbone), mentre meno dell’3% proviene da fonti rinnovabili. Per questo, l’efficacia dell’idrogeno come strategia di decarbonizzazione resta un problema aperto, la cui soluzione non arriverà a breve.

Lo stress idrico

L’idrogeno ottenuto da fonti rinnovabili è definito “verde” e si produce tramite elettrolisi, un processo che utilizza energia elettrica per scindere una molecola d’acqua in due atomi di idrogeno e uno di ossigeno. Questo metodo implica una domanda significativa di energia elettrica, che idealmente proviene da fonti rinnovabili come il solare e l’eolico, ma soprattutto un’abbondante quantità di acqua.

A livello chimico, si stima che per produrre un chilo d’idrogeno ne siano necessari nove d’acqua. Nella pratica, tuttavia, il consumo d’acqua è nettamente maggiore, in quanto l’elettrolisi richiede acqua demineralizzata, un trattamento che induce ulteriori perdite. Per questo, le stime più realistiche parlano di un rapporto che va dai 60 ai 90 litri d’acqua pero ogni chilo d’idrogeno. C’è chi parla di utilizzare l’acqua marina, ma la desalinizzazione –oltre ad avere conseguenze nefaste sul medio ambiente – presenta dei costi che renderebbero il processo non più conveniente dal punto di vista economico.

La realtà è che la produzione di idrogeno verde a grande scala induce uno stress idrico incalcolabile. Secondo IRENA (International Renweable Energy Agency) le estrazioni di acqua dolce per la produzione mondiale di idrogeno verde potrebbero triplicarsi nel 2040 e moltiplicarsi per sei nel 2050. Che effetti avrà tutto questo in un territorio come la penisola iberica, perennemente a rischio di siccità (come buona parte dell’Italia) e con una chiara tendenza alla desertificazione?

Le contraddizioni dietro le rinnovabili

Oltre all’acqua, l’altro tassello cruciale nella filiera dell’idrogeno verde sono le energie rinnovabili. Secondo la Hydrogen Science Coalition, solo per decarbonizzare l’idrogeno utilizzato oggi – 120 milioni di tonnellate (il 99% proveniente da fonti fossili) – sarebbe necessaria quasi tre volte la quantità di elettricità eolica e solare prodotta a livello mondiale nel 2019.

Nel caso spagnolo, ma anche in Italia, l’implementazione massiva e poco rispettosa verso i territori, unita al limitato incentivo alla partecipazione cittadina, sta già causando numerose situazioni di tensione in alcune regioni, prefigurando un nuovo “estrattivismo verde” che contrappone zone rurali e centri urbani.

Ne risulta una segregazione geografica che riduce le campagne a mere colonie energetiche, spesso gestite da grandi colossi come Repsol o Enagas, in cui le attività produttive tradizionali sono messe a rischio. La crescita dell’estrema destra nelle aree rurali della Spagna si spiega anche a partire da tale fenomeno; il discorso di Vox si è nutrito molto di una critica a questo modello di transizione, al quale ribatte con una difesa a oltranza del fossile e la negazione della questione climatica.

Offensiva estrattivista e coloniale

Il rischio estrattivista associato all’idrogeno va ben oltre l’installazione di impianti solari ed eolici. Non solo le infrastrutture rinnovabili, ma anche quelle specificamente dedicate all’idrogeno richiedono una grande quantità di materie prime, spesso non disponibili in Europa.

Per esempio, tra gli elettrolizzatori più comuni per la produzione di idrogeno verde ci sono quelli che utilizzano l’elettrolisi a membrana polimerica protonica (PEM). Questi necessitano di iridio e platino per l’anodo e il catodo, oltre ad altri metalli nobili come l’oro. L’iridio e il platino sono materiali molto costosi e rari, normalmente provenienti dal Sudafrica, la cui estrazione ha importanti conseguenze ambientali e sociali.

In generale, il cablaggio, i motori, gli inverter e le linee di trasmissione richiedono grandi quantità di ferro, rame, zinco, nichel, silicio, piombo, argento, molibdeno e altri materiali, estratti con un enorme costo ecologico e comportando violazioni sistematiche dei diritti umani, principalmente nelle aree del Sud globale.

Anche per questo, ma non solo, l’estrattivismo è un tratto chiave del nuovo piano von der Leyen, seppur mascherato dall’espressione “Associazioni per un commercio e investimento puliti”. La militarizzazione e il consolidamento del regime di guerra vanno letti anche in quest’ottica: rafforzare il controllo nelle zone ricche di materiali per la transizione verde e digitale, per esempio il Sahel e l’Africa settentrionale. 

L’Africa nel mirino

La relazione con il continente africano va analizzata nel più ampio quadro del Global Gateway. Si tratta di un macroprogramma di alleanze pubblico-private intrapreso dall’amministrazione von der Leyen per promuovere investimenti stranieri finalizzati, presumibilmente, allo sviluppo sostenibile. L’Africa è il bersaglio principale: dei 300 miliardi di euro inizialmente stanziati, la metà è destinata a progetti da realizzare sul suolo africano.

Possiamo dire che, così come i fondi Next Generation furono introdotti per guidare l’Unione nella ripresa post-covid, il Global Gateway è lo strumento in questa nuova fase “post-globalizzazione” aperta dalla guerra in Ucraina. Si tratta soprattutto di dare una risposta alla Cina, innanzitutto logistica creando un’alternativa alla Nuova via della seta, ma anche in termini di approvvigionamento di nuovi risorse e materiali strategici, una sfida in cui il gigante asiatico è al momento in testa.

L’H2Med è parte di questa strategia: si prevede che entro il 2040 esso sarà esteso fino al Marocco, creando così un ulteriore collegamento tra l’Europa e l’Africa settentrionale, quest’ultima candidata a diventare una delle principali riserve energetiche, non solo di idrogeno, per il vecchio continente. In questo contesto, la Spagna acquisisce un’importanza strategica senza precedenti, non solo come nodo produttivo, ma anche come raccordo fondamentale con le “nuove colonie”.

Un altro modello

È molto probabile che nei prossimi anni i movimenti ecologisti, di fronte al bivio tra capitalismo verde e “status quo fossile”, vengano ricattati con la logica del “male minore”. Personalmente non credo che si debba accettare questa lettura (falsamente) dicotomica, ma piuttosto costruire una progettualità autonoma, soprattutto in un periodo in cui esistono lotte attive in diverse parti d’Europa.

Sicuramente, l’idrogeno verde può giocare un ruolo chiave nella decarbonizzazione di alcuni settori, come ad esempio la siderurgia. Tuttavia, le difficoltà associate al trasporto a lunga distanza descritte su, suggeriscono una sua installazione a livello locale piuttosto che una pianificazione su larga scala.

In particolare, come evidenziato in un report di ReCommon, il trasporto a lunga distanza dell’idrogeno comporta un dispendio energetico considerevole: per trasportare idrogeno è necessaria una potenza di compressione circa tre volte superiore rispetto a quella dei normali gasdotti utilizzati per il gas fossile, pari a circa 20 TWh all’anno. A ciò si aggiungono i costi di stoccaggio: il mantenimento dell’idrogeno liquido avviene in cisterne criogeniche, che richiedono un consumo costante di energia e non riescono ad azzerare completamente la dispersione naturale del gas.

È fondamentale inoltre condurre un’analisi accurata della domanda attuale e a medio termine per ciascun settore, garantendo che i progetti siano allineati con le reali esigenze dei territori in cui si intende implementarli, così come con le loro capacità. Per questo motivo, lasciare lo sviluppo dell’idrogeno verde nelle mani di Enagás, una corporazione in cui lo Stato detiene solo il 5%, impedisce di fatto una regolazione e un controllo efficaci.

Un commento infine sugli aspetti geopolitici della questione. Molti degli accordi che si stanno dando con paesi africani nell’ambito del Global Gateway, prevedono un controllo dei flussi migratori. Le frontiere, insieme alla militarizzazione e l’estrattivismo coloniale discusso su, costituiscono tre dimensioni interconnesse intorno alle quali si sta riorganizzando l’Unione Europea. Il contesto generale in cui si sta pianificando la transizione verde di von der Leyen è questo. Pertanto, risulta imprescindibile provare a  ricomporre vertenze apparentemente separate e ritornare a immaginare una convergenza euro-mediterranea.

L’immagine di copertina: serbatoio di idrogeno liquido alla NASA, wikimedia commons

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