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Il Neutro, forse
Il Neutro, o meglio, Il Desiderio di Neutro, è il titolo del Corso tenuto da Roland Barthes al Collège de France nel 1977-1978, ora pubblicato in Italia per Mimesis grazie alla traduzione e curatela di Augusto Ponzio.
«Loro mi diranno, “Come si chiama?”, e io cosa risponderò loro?», domanda concitato e affamato, Mosè sul monte Oreb al roveto in fiamme, che arde eppure non si consuma. Cosa risponderò loro – come estinguerò la loro domanda, che racchiude curiosità di sapere e volontà di conoscere, bisogno di garanzia, necessità di saldezza? La fiamma, in verità, nemmeno risponde: dice, e dunque non si estingue e non estingue (quella fame e quell’ansia, né quel roveto che pure arde), «‘Ehyèh ‘ashèr ‘ehyèh», nome che la vulgata oggi traduce con «Sono colui che sono» o «Sono l’essere», o «Sarò ciò che sarò» (o «Sarò ciò che vorrò essere?», con tono già più impertinente). «‘Ehyèh ‘ashèr ‘ehyèh»: Buber e Rosenzweig vi leggevano, con più imprecisa tenerezza, «Io sarò-ogni-volta-lì come colui che proprio-adesso-è-lì». Sono l’esistente neutro: e non rispondo né soddisfo, ma solo dico, e dico il mio dissenso e la mia dissonanza rispetto a qualsivoglia identificazione, dissenso e dissonanza che potranno farsi dolcezza (infatti, non temere, sarò sempre lì, quando occorrerà).
«Il Neutro», o meglio, «Il Desiderio di Neutro», è il titolo del Corso tenuto da Roland Barthes al Collège de France nel 1977-1978, ora pubblicato in Italia per i tipi di Mimesis e grazie alla traduzione e curatela di Augusto Ponzio. De/siderio, ricordiamolo, è vocabolo la cui etimologia, prima di dirci che cosa si brami, o di che genere questa brama sia, ci dice la distanza tra desideratə e desiderante; pertanto, il corso è, fin da subito, per/corso attorno al Neutro, che si svolge come vagabondaggio dentro un’estesa bibliografia che, però, è «né ragionata», «né esaustiva» (p. 84) e in cui l’ordine dei testi è scelto a caso (l’assetto è estratto dalle pagine di una rivista di statistica). Di più: i riferimenti provengono tutti dalla biblioteca «della mia casa vacanze, cioè luogo-tempo in cui la perdita di rigore metodologico è compensata dall’intensità del godimento della lettura libera» (p. 84). Insomma, sarà quel che sarà: rigetterò l’istituzione del corso ragionato e percorso in anticipo – il Neutro sarà ogni-volta-lì dove sarà nominato come tale, e niente di più. «Definisco il Neutro come ciò che elude il paradigma, o meglio chiamo Neutro tutto ciò che elude il paradigma. Perché non definisco una parola; nomino una cosa; riunisco sotto un nome, e questo nome è qui il Neutro» (p. 80).
Il Neutro non è il tenue tono che la lingua (e l’immagine) spesso ci suggerisce, non è né pallida né pavida sfumatura. Il Neutro non è neutrale né esige neutralità. Smarcandosi dalla determinazione, il Neutro, per definizione, è ciò che alla definizione resiste. Il Neutro di Barthes è tutto ciò che elude il paradigma che, a sua volta, è «la molla del senso» (p. 81). Che cosa dunque dirò loro? – «Che cos’è il paradigma? È l’opposizione di due termini virtuali di cui attualizzo uno, per parlare, per produrre senso» (p. 81). Un esempio, forse calzante, dalla fonologia: i suoni /l/ e /r/, in italiano come in francese, sono detti coppia minima, perché creano un’opposizione fonemica – lana e rana significano ed evocano due enti differenti (non così sarebbe in una lingua, come il giapponese o il coreano, in cui [l] e [r] sono varianti di uno stesso fonema), o creano e evocano due differenti sensi. La neutralizzazione fonologica avviene quando questa opposizione non è più pertinente, quando non vuole dire più niente, non è più feconda di significato, né pregnante. L’impertinenza del Neutro, allora, è schivare la prolificità comandata dalla grammatica del Maschile e dal Femminile, per moltiplicarsi in figure d’ogni genere. Che in questo caso (davvero, a caso) sono quattro letture a guisa di epigrafi (L’Inquisition di de Maistre, La Nuit d’Austerlitz dal tolstoiano Guerra e Pace, il Giovedì 24 Ottobre 1776 delle autobiografiche Fantasticherie di Rousseau e l’autoritratto di Lao Tzu) e ventitré incarnazioni: la Benevolenza, il Ritiro, il Silenzio, la Collera…
Sarò ciò che sarò – mi riservo di non dire altro, di non fornire generalità: starete voi piuttosto a vedere (se sarete in grado). «Perché questa esposizione discontinua? Forse incapacità da parte mia di costruire uno sviluppo, un corso? Incapacità o disgusto?» (p. 86). Se l’opposizione binaria governa e produce senso (la costellazione creata da destra/sinistra e alto/basso è indispensabile per muoversi e collocare in essa tutto quel che si muove: così anche funzionano assenza/presenza, bello/brutto, maschile/femminile, buono/cattivo… duplice e assieme unica matrice che organizza il reale entro una cornice, e lo rende così, a sua immagine e somiglianza, comprensibile), il Neutro rifiuta il meccanismo della significazione e della sensatezza. Improduttivo, non può essere oggetto, né strumento, di alcuna pianificazione, financo quella di un corso: «Bisogna che il senso non attecchisca» (p. 88). E, quindi, gioca Barthes, dismettiamo la zappa e la vanga di quella cultura che è di per sé, o molto spesso, coloniale messa a coltura. Dismettiamo la produzione intensiva, gioca ancora Barthes – perché il Neutro è anche riposo, il Neutro è ritiro, il Neutro è stanchezza.
«Legato al lavoro (labor). Mi sembra che, nel campo sociale attuale, la parola “stanchezza” non sia facilmente ricollegabile al lavoro manuale o equiparata al lavoro dell’operaio […]. Stato di casta: legato miticamente al lavoro della testa, che si sgonfia, che si estenua. Ciò pone il problema del posto della fatica nella società» (p. 95). Anche la fatica, come il Neutro, non è codificata: non è intellegibile entro una società votata alla ri/produzione, non trova in se stessa legittimità né nome. Tensione pur viva nel corpo e nella mente, non viene rilevata dallo sguardo nosografico – non esiste congedo per fatica, né esiste il diritto alla stanchezza, nemmeno in quella forma labile in cui appare quello stato di eccezione che è lutto o che è festa. Per poggiare il capo, nessuna scusante. Stanchezza vorrebbe dire non aver intenzione di dir niente – e se stanchezza non vuol dir niente, non ha senso e non produce significato e non produce valore: e per questo non c’è posto. Il corpo che chiede spazio per sé, che chiede riposo sociale, è fuori luogo e un po’ delinquente. Sognava Blanchot, ricordato da Barthes: «Non chiedo che si sopprima la fatica. Chiedo di essere condotto in un posto in cui sia possibile essere stanco» (p. 96).
Il Neutro: diritto all’improduttività, diritto all’inoperosità, diritto anche all’incompetenza e all’ignoranza. Non padroneggia materia alcuna – l’opposizione binaria, lungi dal rispondere alla legge della tensione fra gli opposti, è il luogo in cui uno dei due termini governa (e annichila) l’altro; nelle lingue indoeuropee il “crollo del neutro” ha comportato, più spesso che non, il passaggio al maschile: «Impero indifferenziato della forma maschile, per cui è il femminile a risultare marcato […]. Benché ecumenico, il maschile conserva una dominanza» (p. 325). Il Neutro invece non governa e anzi, come vuole la politica, è chi non si è schierato parteggiando per i contendenti, chi non prende posizione nel conflitto per il potere e la padronanza. Posizione scomoda questa lungo tutta la storia dell’Occidente fino a questi ultimi giorni: pòlemos è padre di tutte le cose, e di tutte le cose re, diceva (forse) Eraclito, agli albori di una Storia in/scritta sui corpi da guerre e contese e dispute e leticazioni. E chi non prende le armi a favore di uno dei due partiti, non importa quale, perderà ogni diritto politico, diceva Solone – come l’animale e come lə schiavə, neutri perché non soggetti.
«Ogni classe che prenda il potere di un’altra che ha dominato prima è costretta, non fosse che per raggiungere il suo scopo, a rappresentare il suo interesse come interesse comune di tutti i membri della società, ossia, per esprimerci in forma idealistica, a dare alle proprie idee la forma di universalità», così Marx e Engels in L’ideologia tedesca. Accade così che due realtà (ciascuna con la propria visione del reale: con la propria biblioteca e con la propria bibliografia e con la propria biografia) si scontrino, e che una prenda il sopravvento sull’altra: la prima si presenterà allora come ragionevole, la più ragionevole delle due e anzi la sola a ben vedere legittima: ogni volta, l’unica violenza rimasta in campo diviene quella sovrana – fine (il o la?) della violenza, da cui scaturisce ogni (buon) diritto.
Siamo forse stanchə, sì, ma leviamo le orecchie (il Neutro è anche nel Silenzio, nella Delicatezza, nella Minuzia): astuzia del paradigma è, infatti, presupporsi come unico orizzonte di pensabilità e di possibilità (il Neutro riecheggia, forse, l’esausto deleuziano, l’esausto che «esaurisce tutto il possibile», in quanto «non può più possibilizzare»?) Notava del resto Ricoeur: in questo gioco, che in verità non è un gioco, le nozioni di razionalità e di validità sono presupposte come significative, prima ancora che l’astuzia e l’interesse e la legge del più forte se ne approprino. Un paradigma si sostituisce all’altro, forse, ma a regnare è comunque il paradigma, e ancora, e sempre, vige il senso. Le Roi est mort, vive le Roi! Eppure gli sopravvive, di volta in volta, il Neutro. «Avrei preferenza a non essere ragionevole», si ostina come si ostinava Bartleby lo scrivano, e come si ostina con pervicacia il mulo (per definizione animale mancante di senno): brucia senza estinguersi, come la pasolinana disperata vitalità a Barthes tanto cara.
Il Neutro è l’esaurimento dell’«ideosfera = un sistema di linguaggio che funziona, cioè che ha il potere di durare: la durata di un sistema non prova la sua “verità”, ma precisamente la sua “resistenza” […]. All’interno dell’ideosfera, il linguaggio instancabile, l’instancabile del linguaggio, la sua perpetuazione infinita diventano come la durata stessa del potere: è inesorabile […]. Non va dimenticato che in latino (anche se si tratta di una coincidenza etimologica che sfrutto forzando): dicto: ripetitivo = ripetere, dire con insistenza e prescrivere, ordinare -› dictator -› bella citazione di Blanchot sulla perpetuazione terrificante del linguaggio come prova propriamente fascista» (p. 195). A questo meccanismo autoperpetuantesi, che si serve volentieri di apparati polizieschi – l’Occidente è «specialista dell’arroganza» e del «machismo intellettuale» (p. 279), «tutta la nostra storia, il nostro racconto storico = sempre una storia guerriera e politica; mai una Storia […] del clandestino» (pp. 279-280) –, il Neutro oppone l’evasione. E, come ogni grande escapista, sfugge alle generalità e alle generalizzazioni. Dove il logos parla per verità universali, salde e certe a ogni latitudine, il Neutro brancola, teme il retto dire, e sotto il suo stesso peso si piega. «L’esigenza del Neutro» – ricorda Barthes attraverso Blanchot – «tende a sospendere la struttura attributiva del linguaggio (“È questo, è quello”), quel rapporto con l’essere, implicito o esplicito, che è, nelle nostre lingue, immediatamente posto, dal momento in cui qualcosa è detto» (p. 132). Sospira qui Gide: «Non scrivo più una frase affermativa senza essere tentato di aggiungervi “forse”» (p. 130). Il guaio della lingua è la sua prepotenza – prima che il reale si spieghi, ha già proprie ragioni da dichiarare: asserire è ad-serĕre, avvicinare a sé, annettere. Il guaio della lingua è il suo essere categorica: attraverso la predicazione (S è P, S è non-P) inchioda il soggetto al predicato e il predicato al soggetto. Il Neutro è umile e più letteralmente terreno (e terrestre), non permette quella visibilità e azione a distanza – droni e missili e radar e balistica – che la lingua consente: nominare ciò che è lontano, vedere dall’alto, comprendere sempre tutto assieme; il Neutro è impredicabile, perché sempre posizionato e sempre incarnato, perché non si predica d’altro, né predica alcun sapere, né crea proseliti. Il Neutro, diciamo ancora, non produce significato: «Il che è deviare la struttura stessa del senso: ogni vocabolo diverrebbe così non-pertinente, im-pertinente». (p. 133).
Il Neutro è impreciso. E io dunque cosa dirò loro? «Per me, la sola forma di “franco” accettabile: “Francamente, non lo so”» (p. 105). La domanda, l’interrogativo, l’interrogatorio, non lasciano spazio al tentennamento, esigono risposta precisa e mirata, come precisi e mirati sono loro stessi. Il Neutro dissimula: davanti all’inquisizione si fa più oscuro o ellittico, diventa balbuziente o stravagante. Il Neutro forse (forse!) conosce il pericolo che si corre a esser presi nelle briglie del paradigma, e conosce il pericolo che corre dietro e davanti e ovunque lungo l’asse del binomio oppositivo – se la differenza è più spesso diseguaglianza che diversità. E conosce soprattutto il pericolo della neutralizzazione, in cui il differenziale di potere non si ridistribuisce equamente tra i due poli, ma solo cresce, aumenta a dismisura, e consente a uno dei due, che già governava, di assorbire l’altro, e tollerarlo. «Mirabeau (22 agosto 1789): “Non vengo a predicare la tolleranza […]. L’esistenza dell’autorità, che ha il potere di tollerare, si aspetta la libertà di pensiero per il fatto stesso che tollera – e quindi potrebbe anche non tollerare” (dichiarazione completamente di sinistra)» (p. 286). Tolleranza, è, ancora, la vittoria del paradigma: tanto potente, tanto assoluto, da poter consentire al proprio interno, paternalisticamente, una dissidenza, la cui dirompenza è immediatamente indebolita, neutralizzata, sotto la bandiera dell’eguaglianza, senza mettere se stesso in questione. Il Neutro teme le domande che non pensano e non concepiscono il desiderio dell’altrə.
«Certamente, più si procede meno ci soddisferanno categorie grossolane che rappresentano i “generi”. È necessaria dunque, per finire, la sottigliezza come quella insuperabile del suggerimento di Blanchot: «Il Neutro: ciò che porta la differenza fin dentro all’indifferenza; più propriamente, che non lascia l’indifferenza alla sua uguaglianza definitiva» (p. 188). Non è (forse) necessario per finire, ma dobbiamo anche farne una questione di genere. Non necessario (forse) perché non ha termine il gioco del Neutro – come l’identità di genere, non è che un atto di ripetizione, la ricombinazione e la sperimentazione di un insieme di gesti, linguaggi, significati che storicamente ha preceduto la performance dell’individuo, e non lə lasciano solə. Non si gioca quindi in autonomia, né solo individualmente, questa dipendenza ed esposizione relazionale: sarò-ogni-volta-lì come coləi che proprio-adesso-è-lì. Il Neutro è il complesso e «il non semplificabile: non è l’annullamento dei sessi, ma quello che li combina» (p. 329). Il Neutro non è l’androgino cantato dai padri dell’Occidente, in cui possa ripristinarsi una purezza primigenia, archetipica e genitale. Il Neutro non è un’idealità trascorsa, né perfezionamento e compimento di maschile e femminile. Il Neutro è trasformativo e, se la produzione della differenza è sinora dipesa non tanto dal conflitto, quanto piuttosto dalla padronanza di uno dei termini sull’altro (e sullə altrə), non desidererà la neutralizzazione della polarità: agirà alla radice, disattivandone la possibilità, e aprendo così, in/esausto, il campo di altri possibili, di possibili altrə. Aprendo, senza tregua e senza riposo, la possibilità della tregua e del riposo. Neutro (senza più il, dunque), roveto rovente, alla radice arde, e brucia, e non trascorre. E “io”, dunque, cosa risponderò loro? Che sarò quel che (mi) andrà – sempre lì dove ve ne sarà bisogno. Neutro non è un’amigdala da re-integrare (con le parole di Chrisopther Lane lettore della transessualità di Mieli), non trascende il paradigma sessuale nell’indifferenza e nell’insensibilità. Non edifica un essere pieno di sé e di sé sazio, non placa per sempre il bisogno e la brama, non disattiva il desiderio, né rende innocuə: di queste cose, non risponde. Ma esprime la sua forza sovversiva, esplosiva, diversificante, in un surplus, nell’estasi: il Neutro è Fuori. «Al gesto del paradigma, del conflitto, del senso arrogante, che sarebbe il riso castrante, risponderebbe il gesto del Neutro: il sorriso. Exit Il Neutro» (p. 335).