ITALIA

Il modello Albania 2.0 e la nuova frontiera della deportabilità

Il governo rilancia il “modello Albania”, estendendo i trasferimenti forzati anche ai migranti considerati irregolari presenti in Italia. Questa escalation non è solo formale: si inserisce in un quadro europeo in cui la deportabilità diventa sempre più flessibile, mentre l’autoritarismo globale ridefinisce i confini democratici

Con uno scarno decreto, il governo rilancia il cosiddetto modello Albania. Nei centri di Shëngjin e Gjader sono stati finora trasferiti i migranti salvati nel Mediterraneo centrale. Queste strutture erano state concepite per esaminare in modo accelerato – ovvero con minori garanzie – e in condizione di trattenimento le domande di asilo presentate dai migranti provenienti da Paesi considerati “sicuri”. Tuttavia, finora il progetto si è rivelato inefficace: dopo ogni trasferimento forzato, l’esecutivo ha dovuto riportare i richiedenti asilo in Italia, a seguito della mancata convalida del trattenimento da parte dell’autorità giudiziaria.

Ora, però, il governo alza la posta. Con il decreto approvato il 27 marzo, potranno essere trasferiti in Albania anche i migranti presenti irregolarmente sul territorio italiano. Il salto di qualità non è soltanto formale: non si tratta più solo di richiedenti asilo salvati in mare, ma anche di persone già presenti in Italia, prive di permesso di soggiorno e dunque considerate irregolari.

Di fronte allo stallo del piano iniziale, il governo alza l’asticella. Questa iniziativa si iscrive in uno scenario favorevole all’azione dell’esecutivo. L’idea di una deportabilità creativa e flessibile delle persone dei migranti verso paesi diversi da quello di origine si è affermata nel dibattito pubblico europeo, anche istituzionale, ben al di là del recinto – pur molto ampio – delle destre radicali. In parallelo, l’autoritarismo globale ha mostrato nell’ultimo anno una capacità inedita – e spaventosa – di erodere confini democratici che ritenevamo invalicabili.

Il salto di qualità del modello Albania suggerisce la necessità di aggiornare la tipologia di sguardi con i quali osserviamo, anche da un punto di vista critico, il funzionamento dei confini e, nel loro insieme, le politiche migratorie. Non hanno solo un profilo ideologico.

La precarizzazione progressiva degli status, le politiche di trattenimento diffuso e le politiche audaci di deportazione hanno una forza non (solo) discorsiva o di immaginario. Producono effetti materiali molto diretti: contribuiscono alla razzializzazione diffusa e al disciplinamento della forza lavoro.

L’azione del governo produce effetti diretti ancora più ampi. È l’assetto complessivo della società a subire profonde torsioni, sotto la scure di un attacco così radicale alla libertà personale delle persone migranti.

Le critiche di ordine giuridico avranno probabilmente un respiro diverso rispetto alla fase precedente, anche in ragione dell’entrata in gioco dei giudici e delle giudici di pace, tradizionalmente meno attenti alle violazioni dei diritti – anche molto eclatanti. In ogni caso, il nuovo impianto è, ancora una volta, al di fuori del perimetro del diritto italiano ed europeo. È probabile che, nuovamente, la strada del contenzioso giudiziale possa ostacolare i piani del governo.

Anche prima che prendano corpo i ricorsi, è fondamentale opporsi con ogni mezzo utile alla nuova iniziativa del governo. Non è soltanto in gioco la libertà delle persone migranti, né solo l’agibilità dell’attivismo solidale. Le politiche migratorie rappresentano oggi un enorme cantiere di trasformazione sociale, che imprime una direzione disciplinante all’intera società – non solo a chi subisce processi di razzializzazione. Se la posta in gioco è così alta, allora è indispensabile ribaltare la terribile creatività del governo.


Immagine di copertina di Tomascastelazo
, Wikicommon


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