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MONDO
Il limbo di Al-Hol e le ceneri dell’Isis
Reportage da Al-Hol, l’immenso campo-prigione dove sono confinati i familiari dello sconfitto Isis. Tra deserto e filo spinato, migliaia di persone vivono intrappolate in uno spazio di violenza e radicalizzazione. Nel frattempo, il rischio di una nuova ondata jihadista si fa sempre più concreto
Situato nella provincia di Al-Hasakah, nel nord-est della Siria, il campo di Al-Hol è uno dei luoghi più controversi dello scenario bellico in Siria. Nato nel 1991 per accogliere rifugiati e sfollati durante la guerra del Golfo, dopo la caduta dell’Isis nel 2019 si è trasformato in una prigione a cielo aperto per migliaia di persone sospettate di legami con lo Stato Islamico.
Gestito dalle autorità curde dell’Amministrazione autonoma democratica della Siria del nord-est (DAANES), il campo ospita sfollati siriani e iracheni, spesso senza una casa a cui fare ritorno, e familiari di combattenti dell’Isis, molti ancora legati all’ideologia jihadista. La presenza di detenuti ad alto rischio rende Al-Hol una minaccia costante per la sicurezza della regione, mentre le autorità curde continuano a chiedere un maggiore coinvolgimento della comunità internazionale per risolvere la questione dei rimpatri e del reinserimento di adulti, minori e bambini.
Durante la visita al campo, abbiamo avuto l’opportunità di incontrare la direttrice, Jihan Hanan, la quale ci ha illustrato il funzionamento della struttura e condiviso le preoccupazioni riguardo ai potenziali rischi connessi.
La “città chiusa” di Al-Hol
Il campo si estende su una vasta area riarsa, suddivisa in settori distinti: le sezioni 1, 2 e 3 ospitano i rifugiati iracheni, mentre le sezioni 4, 5 e 6 accolgono i siriani. Una sezione è riservata agli stranieri, con detenuti provenienti da 42 nazionalità diverse. I residenti di Al-Hol sono circa 40 mila, di cui, secondo le stime, il 95% sono donne e bambini, molti dei quali arrivati dopo la caduta dell’Isis, ritrovandosi incastrati in un sistema segnato da tensioni e incertezza sul proprio futuro.
La complessità della situazione ad Al-Hol emerge chiaramente dalle parole di Hanan. Il campo, sorvegliato da circa 600 membri delle forze di sicurezza interna curde (Asayish) e supportato da un contingente più ampio delle Forze Democratiche Siriane (SDF), si presenta come una “città chiusa,” una comunità isolata con proprie regole e dinamiche interne.
La quotidianità è scandita da un delicato equilibrio tra controllo e assistenza. Gli operatori umanitari, insieme alle autorità amministrative, cercano di soddisfare i bisogni primari della popolazione, in un contesto segnato da frequenti tensioni. In questo microcosmo, dove la normalità è sospesa in uno stato di attesa e d’illusione, ogni gesto assume un profondo peso politico e sociale. La gestione materiale del campo richiede uno sforzo costante per prevenire l’esplosione di nuove crisi, mentre il futuro dei suoi abitanti resta avvolto nell’incertezza.
Le condizioni sanitarie e l’accesso all’istruzione restano tra le principali sfide di Al-Hol. Sebbene alcune scuole funzionino regolarmente, una parte dei bambini non riceve alcuna istruzione, spesso perché le loro famiglie rifiutano il sistema educativo offerto dalle organizzazioni internazionali. «L’Unicef fornisce i centri educativi», spiega Hanan. «Ma molte famiglie vietano ai loro figli di frequentarli».
Anche il sistema sanitario è insufficiente rispetto alle necessità della popolazione del campo. «Abbiamo diversi centri sanitari, alcuni gestiti dall’Oms e dal Comitato Internazionale della Croce Rossa. Ma i servizi sono ancora troppo limitati per coprire l’intero fabbisogno».
Uno dei nodi più complessi riguarda, infatti, il destino dei residenti del campo, in particolare delle donne e dei bambini stranieri legati all’Isis. Le autorità curde hanno ripetutamente sollecitato la comunità internazionale affinché i paesi d’origine si assumessero la responsabilità del rimpatrio e del reinserimento sociale di queste persone. Tuttavia, le risposte sono state frammentarie e insufficienti, lasciando migliaia di individui in un limbo giuridico e umanitario.
A tutto ciò si aggiunge la preoccupazione e il fermento legato alla possibilità che Hayat Tahrir al-Sham (HTS), ex Al-Nusra, assuma la gestione del campo. Il gruppo ha dichiarato di essere pronto a prenderne il controllo e a garantirne la sicurezza, ma le autorità curde respingono questa ipotesi, ribadendo la propria capacità di mantenere l’ordine senza interferenze esterne. «Abbiamo dimostrato in passato e continuiamo a dimostrare oggi di poter gestire le operazioni essenziali nei campi», hanno dichiarato i rappresentanti dell’amministrazione locale. «Abbiamo combattuto l’Isis e siamo ancora in grado di svolgere il nostro lavoro».
La pressione interna ed esterna
La sicurezza nel campo di Al-Hol rappresenta una sfida complessa e persistente. Ogni anno, le autorità portano alla luce armi occultate tra le tende, affrontano episodi di violenza e gestiscono situazioni di caos. Malgrado le continue operazioni di controllo, il problema rimane irrisolto: omicidi, incendi dolosi e il ritrovamento di tunnel clandestini scavati all’interno del campo testimoniano un clima di tensione latente, mai realmente sopito.
Gestire Al-Hol non è solo una sfida logistica, ma anche una questione di sopravvivenza per chi vi lavora. Non sono solo le forze di sicurezza a essere in pericolo, ma anche i membri dell’amministrazione. Gli attacchi contro il personale sono frequenti. «Solo tre mesi fa i membri dell’Isis hanno teso un’imboscata e tre nostri colleghi sono stati uccisi» racconta Hanan. Gli scontri tra detenuti e autorità sono all’ordine del giorno, con episodi di violenza che spesso sfociano in ferimenti o morti.
La situazione è resa ancora più complessa dall’instabilità regionale e dagli attacchi esterni. Le incursioni delle Forze Armate Turche e della Syrian National Army (SNA) hanno intensificato il rischio di fughe di massa, alimentando il timore che gruppi jihadisti possano approfittare del caos per riorganizzarsi. «Ogni attacco alla regione rende la situazione ancora più difficile», spiega la direttrice. «Non riguarda solo la sicurezza, ma anche la gestione dei servizi essenziali, che si fa sempre più critica». Infatti, uno dei problemi più gravi riguarda il deterioramento delle infrastrutture, colpite direttamente dai recenti scontri. «L’ultimo attacco alla rete logistica ha bloccato la distribuzione di carburante», ha spiegato un’operatrice del campo. «Senza gasolio, 40.000 persone sono rimaste senza riscaldamento e senza elettricità». La carenza di risorse fondamentali ha aggravato le tensioni tra i residenti, aumentando il rischio di episodi di violenza. «Ogni volta che c’è una crisi, la sicurezza diventa più difficile da gestire», continua. «Mancano i mezzi per controllare la situazione, mentre all’interno del campo alcuni gruppi continuano a organizzarsi, diffondendo propaganda jihadista e nascondendo armi».
La gravità della situazione appare evidente. Le autorità locali sono costrette a muoversi in un equilibrio precario, tra minacce interne, attacchi esterni e risorse sempre più scarse, unite al blocco dell’accesso alle organizzazioni umanitarie, che ha aggravato una situazione già al limite, lasciando migliaia di persone senza assistenza e contribuendo alle tensioni all’interno del campo. «Per sette giorni, nessuno è potuto entrare», ha confermato Hanan. «Tutti i servizi sono stati interrotti, peggiorando ulteriormente le condizioni di chi è già allo stremo».
Tra i rischi maggiori, c’è quello dei tentativi di fuga, poiché ogni notte gruppi di detenuti cercano di forzare il perimetro del campo. Alcuni scavano tunnel, altri attaccano i posti di guardia, sperando di aprirsi una via di fuga. «Le evasioni non sono episodi isolati» – spiega la direttrice. «Dietro a molti tentativi ci sono piani ben organizzati».
A ciò si aggiunge l’ingresso incontrollato di denaro e armi, che rappresenta una delle maggiori minacce alla sicurezza della struttura. Se da un lato la corruzione e il mercato nero facilitano la circolazione di armi, dall’altro il costante afflusso di finanziamenti dall’esterno alimenta ulteriormente il problema. «Il denaro arriva da fuori e viene distribuito all’interno. I membri dell’Isis ancora attivi finanziano direttamente i detenuti, permettendo loro di acquistare armi o organizzare fughe». Questi fondi vengono spesso utilizzati per corrompere guardie, facilitare attività clandestine e mantenere in piedi una rete clandestina di comunicazione e logistica. La presenza di una vera e propria economia sommersa rende difficile per le autorità locali interrompere il flusso di risorse destinate a sostenere l’attività jihadista.
L’intreccio di traffici illeciti, flussi di finanziamento esterni e l’assenza di un’efficace sorveglianza tecnologica sta trasformando Al-Hol in un focolaio di riorganizzazione jihadista, mentre le autorità locali, prive di strumenti adeguati, faticano a contenere una minaccia in continua evoluzione.
Radicalizzazione, reinserimento e rimpatri
Nel campo, le famiglie sono numerose e in alcune aree le nascite proseguono senza sosta, mentre nella sezione riservata agli stranieri la procreazione è rigidamente vietata. «Le organizzazioni internazionali non dispongono di un piano efficace per contrastare la radicalizzazione dei minori», ha ammesso la direttrice. L’amministrazione locale ha tentato di arginare il fenomeno attraverso la creazione di quattro centri di riabilitazione, ma le risorse restano insufficienti. «Senza un intervento concreto, questi bambini cresceranno immersi in un ambiente segnato dall’ideologia jihadista».
La permanenza dei minori all’interno del campo è regolata da criteri specifici. Alcuni di loro, una volta raggiunta l’adolescenza, vengono trasferiti in strutture alternative, ma il processo è lungo e difficile. Nel settore riservato agli stranieri, i bambini dai 12 anni in su vengono trasferiti nei centri di riabilitazione. Tuttavia, non tutti riescono a seguirne il percorso: alcune famiglie li nascondono per evitare che vengano separati dal nucleo familiare.
L’incertezza riguarda anche il destino dei detenuti stranieri, il cui rimpatrio procede a rilento a causa della scarsa collaborazione dei governi d’origine. «Abbiamo persone di molte nazionalità», ha confermato la direttrice. «Ma i governi stranieri non si interessano ai loro cittadini detenuti qui». Nonostante alcuni rimpatri selettivi, il campo resta sovraffollato. Le autorità curde chiedono da tempo una soluzione internazionale, ma la risposta rimane insufficiente.
Il rimpatrio e il processo dei detenuti stranieri continuano a essere un tema controverso. Alcuni governi, come quello francese, insistono affinché i propri cittadini affiliati all’Isis vengano giudicati direttamente in Siria, mentre le autorità curde chiedono soluzioni condivise.
«Abbiamo chiesto al Ministero degli Esteri francese di prendere in carico i propri cittadini affiliati a Daesh», ha raccontato Hanan. «La loro risposta è stata chiara: devono essere giudicati qui». Questa posizione crea un’impasse diplomatica che impedisce soluzioni concrete, lasciando il campo e le sue autorità in una sospensione e incertezza gestionale. «Se ci permettessero di processarli, lo faremmo. Li porteremmo nei centri di riabilitazione, ma non abbiamo ancora avuto il via libera per farlo». Nel frattempo, il rischio che l’Isis possa riorganizzarsi è una minaccia concreta.
Il bilico post-Assad
La notizia della caduta del regime siriano ha scosso profondamente il campo di Al-Hol, alimentando incertezze e speranze contrastanti tra i residenti. Per molti siriani, che in passato erano costretti a rimanere nel campo per timore di persecuzioni da parte del governo, il cambiamento politico ha aperto nuove possibilità. «Prima non potevano lasciare il campo perché erano ricercati dal regime», ha spiegato la direttrice. «Ora, invece, vogliono andarsene. Non vedono più Al-Hol come un rifugio, ma come una prigione».
Se tra i siriani si è diffuso il desiderio di partire, tra gli stranieri si è creata un’attesa febbrile, alimentata da voci e illusioni. Molti erano convinti che Hayat Tahrir al-Sham, guidato da Abu Mohammad al-Jolani, sarebbe intervenuto per liberarli. «Parlavano tra loro dicendo che Jolani sarebbe arrivato in una settimana», ha raccontato Hanan. «Si preparavano alla fuga, impacchettavano le loro cose e aspettavano notizie».
Le reazioni degli iracheni sono state più sfumate, divise tra chi si opponeva all’eventuale arrivo di Hayat Tahrir al-Sham e chi, invece, lo sosteneva apertamente. «Alcuni erano contrari all’arrivo di Jolani, mentre altri lo consideravano un alleato». L’atmosfera nel campo, già tesa, è diventata ancora più instabile, con gruppi diversi che guardano al futuro con speranze opposte. Mentre alcuni vedono la possibilità di un ritorno alla libertà, altri scommettono su nuovi equilibri di potere, rendendo il controllo della situazione sempre più complesso.
La possibilità per i siriani di lasciare Al-Hol ha aperto un nuovo capitolo nella gestione del campo, ma il processo si rivela più complesso del previsto. Sebbene l’85% dei residenti abbia espresso il desiderio di andarsene, le difficoltà logistiche, politiche e di sicurezza restano un ostacolo. «Molti vogliono uscire, ma il reinserimento è un’incognita», ha spiegato la direttrice. «Alcuni non hanno una casa a cui tornare, altri temono ritorsioni o non sanno come ricostruirsi una vita».
La questione più spinosa riguarda coloro che potrebbero aver commesso crimini di guerra o atti di violenza. Non è chiaro se il diritto di lasciare il campo venga esteso indistintamente o se ci saranno restrizioni per chi è stato coinvolto in attività terroristiche. «Non possiamo distinguere con certezza chi è un ex-combattente e chi è semplicemente un rifugiato. Molti sono arrivati dopo la battaglia di Baghuz, ma non abbiamo informazioni affidabili sul loro passato».
La mancanza di dati concreti solleva dubbi sulle modalità con cui verranno gestite le uscite dal campo. Senza un sistema efficace di verifica, il rischio è che tra coloro che lasceranno Al-Hol ci siano individui legati a reti jihadiste ancora attive. Questa fase di transizione rischia di trasformarsi in una nuova impasse, con migliaia di persone bloccate in un limbo giuridico, mentre la Siria rimane una terra segnata da instabilità e frammentazione.
Tutte le foto sono di Alessia Manzi
Un Ponte Per opera nel nord-est della Siria dal 2015, riabilitando numerosi ospedali, aprendo cliniche e ambulatori, fornendo assistenza a sfollati e profughi nei principali campi, tra cui Al-Hol. Oggi, la sospensione dei finanziamenti USA alle organizzazioni umanitarie minaccia la continuità di molti progetti, anche nella Siria del nord-est. Puoi sostenere UPP cliccando qui e selezionando “intervento in Siria”