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Il libro delle giungle
Le foreste tropicali hanno acquisito nel nostro immaginario il ruolo di un luogo separato e lontano che non ha nulla a che fare con la vita di tutti i giorni, urbana e antropizzata. In “Giungle” Patrick Roberts smonta questo assunto e mostra come dalla comparsa delle prime piante sulla Terra, milioni di anni fa, le foreste tropicali hanno giocato un ruolo chiave nell’evoluzione dell’afmosfera, dei dinosauri, dei primi mammiferi e persino della nostra specie
Parafrasando Donna Haraway, si potrebbe dire che lo sguardo che il mondo occidentale rivolge alle foreste tropicali è orientalismo del mondo vegetale. Anzitutto, l’innesco di un immaginario specifico: il verde lussureggiante e umido, l’impenetrabile scenario pluviale, oltre la scena del quale brulicano forme di vita tanto affascinanti quanto altre e distanti (proprio, come in una riserva, toccate dallo status di inviolabilità, purezza, innocenza). Da cui segue l’edificazione del mondo, quello sì, naturale, lontano e separato dal mondo artificiale o umano o sociale o, ancora, urbano, perché, questo sì, edificato. Tutto un discorso biologico, geografico, geologico, ambientalista su questo luogo e corpo naturale si guarda per riflettervisi come entro uno specchio, idealtipo da cui misurare la propria distanza (quanto è ormai cresciuta la lontananza da questo eldorado immaginato e già perduto, luogo in cui la Natura, non ancora offesa, è madre generosa nel suo verdeggiare e fiorire, che è anche un offrire e un offrirsi) e, al contempo, la velocità della propria caduta e rovina che da quella s’è dipartita. Locus amoenus perché idealizzata, la giungla pluviale è anche monstrum nel suo far da monito, come accadeva già in Virgilio: mostruosa la fronda grondante sangue, divelta come per caso da un Enea ignaro e immediatamente ammonito al lutto delle nude spoglie di Polidoro. Rappresentazione sotto il segno dell’inconciliabilità: che sorge entro quel campo in cui osservatore e osservato sono separati – la «grande partizione», secondo Isabelle Stengers, è fra i primi pilastri del repertorio occidentale, della sua retorica del tramonto; l’osservatore s’è allontanato dall’osservato, compiendo quel che Descola chiama «passo indietro», il chiamarsi fuori dell’umano dal consorzio vivente. E questo suo resto ora ri/guarda e a questo suo resto ora dà il nome di Natura e a questo suo resto ora presta anche una voce – esercizio di ventriloquismo in cui l’Occidente sembra particolarmente versato.
«Tali presupposti», esordisce Patrick Roberts in Giungle, recentemente pubblicato da Aboca per la traduzione di Laura Calasso, «modellano non solo il modo in cui analizziamo la storia delle foreste tropicali, ma anche il modo in cui cerchiamo di proteggerle» (p. 13). La foresta tropicale, metonimia del mondo naturale tutto e ancora intonso e/o in quanto suo piccolo resto – reliquia d’una più antica vastità, estesa come lo era la sabbia del mare, che non si può misurare né contare – che solo sarà salvato, riceve su di sé, capitalizzata, quella doppia sollecitudine che tutto ciò che è naturale, naturalmente, comporta: per un verso, un riduzionismo di stampo coloniale e predatorio, che legge ciò che non è umano – ciò che non è urbano, cioè che è foris, fuori, foresta, fiera – come risorsa consumabile e da mettere a profitto. Per un altro, un rimpianto per quello stato di natura non più intatto e che versa in condizioni ormai misere – latte ormai versato, spilled e spillover. E quindi: invochiamo quella Natura, che ancora sembra così viva nella foresta pluviale, polmone verde del mondo, lei sì, capitale, la sua vitalità istintiva, la sua intrinseca capacità di riconquista degli spazi, di rigenerazione, di rinascita e di riscatto – l’abbiamo vista lei, dai nostri balconi, reclusi nel lockdown, riprendersi i propri spazi, quasi prendesse d’improvviso parola, e scegliesse, altrettanto d’improvviso, la parola del possesso e del possedimento: della proprietà.
Facciamo un passo indietro – un altro? Sì, un altro. «Che cos’è una foresta tropicale?», si chiede e ci chiede Roberts. Domanda memoriale se, come recita il sottotitolo, le foreste tropicali hanno dato forma al mondo e a noi. Una prima definizione essenzializza la parola in circonferenze di tronchi, temperature e umidità, tassi di biodiversità, di crescita, di luce e di ombra, di riposo. «Il secondo modo di definire le “foreste tropicali” […] è: “qualsiasi foresta situata tra il tropico del Capricorno e il tropico del Cancro”. Non insistendo su requisiti climatici, questa definizione ci permette di analizzare la grande varietà delle foreste tropicali con cui coesistiamo oggi» (p. 55), aprendo lo sguardo dalle umide foreste pluviali fino alle nere torbiere e agli alberi che svettano nei cieli freddi delle Ande. Un’altra risposta: «Sono una storia di cambiamenti» (p. 56). E questa lunga storia, che ci precede, che ci seguirà e che, certamente, ci fa segno, prima che ne facciamo segno e significante, è raccontata da Giungle. Una storia di cambiamenti e commistioni, che gioca perfino con il proprio nome e titolo («jungle, dalla parola hindi Jangal, era originariamente utilizzata per classificare qualcosa che si trovava al di fuori dell’insediamento umano e delle comodità domestiche, pp. 13-14), sconfessando così la sua stessa alterità, la sua inappropriabilità e inviolabilità, rinunciando a collocarla in un qualche altrove. Nessun esploratore prometeico torna da un luogo remoto per raccontare ciò che ha visto (tacendo, probabilmente, quel che in quel luogo ha compiuto e ciò che di quel luogo ha fatto, i delitti commessi), piuttosto lo spalancarsi di un mero procedimento diaristico. Giungle può essere letto come la nostra autobiografia, se si allarga, come suggerisce Annalisa Metta nel suo Il paesaggio è un mostro, questo “noi” a una pluralità molteplice ed estesa.
Estesa anzitutto nel tempo – tropicali chiameremmo senza dubbio le prime specie vegetali arrivate sulla terraferma, date le condizioni climatiche che la terraferma solcavano e che la terraferma scrivevano – oltre che nello spazio. E, più che estesa, diffusa. Diffusa tra i continenti, qualora se ne dia una definizione operativa, che si muove e performa attorno al cardine della variabilità degli ambienti e delle sfere: «Le foreste tropicali sono responsabili di un terzo dell’evapotraspirazione (l’evaporazione dell’acqua dalle foglie) in tutto il mondo e in qualsiasi periodo. Una volta nell’aria, il polline, le spore dei funghi e i composti sprigionati dalle foreste tropicali legano questa umidità per formare le nuvole e, quindi, la pioggia» (p. 388) che bagna le specie. La foresta è un concetto trasversale e frequentemente transitato, che ha conosciuto l’intrecciarsi di storie pre-istoriche, il molleggiare lento dei lemuri giganti, il nervoso ed elettrico chiacchiericcio dei funghi (la wood wide web è la rete di miceli che connette il 95% delle specie vegetali arboree e, neanche a dirlo, i funghi hanno aiutato le prime piante a traghettarsi sull’asciutta terra, dal brodo oceanico in cui da eoni vegetavano), la decimazione morbosa di imperi, le resistenze alla colonizzazione… Resistenze umane e non – allarghiamo la definizione, lo sguardo essenzialista ed essenzializzante: nell’arcipelago di Maynila forme di convivenza e di insediamenti sparsi, unitamente a un’immunità locale maggiore che altrove, hanno impedito il controllo economico e militare spagnolo; virus e batteri tropicali infestavano i conquistadores, decimando eserciti e limitando, invasivi, invasioni; «le termiti endemiche o “formiche bianche” avevano fatto sì che solo 30-40 specie di alberi potessero essere abbattute e utilizzate con profitto per costruire le fortezze, le navi e le case» (p. 325), arginando l’innesto del Vecchio Mondo sul Nuovo.
Rodere e corrodere dall’interno per rendere inutilizzabile o improduttivo il progetto di dominio planetario. Per Timothy Morton il peccato originale dell’Occidente è l’agrilogistica, episteme (orizzonte di senso che intercetta, ovvero da cui sorge, tutto quel che noi pensiamo, diciamo, siamo) il cui tarlo è l’ordine, la misura, il confine, l’essenza – agrilogistica intesa come durabilità: segno la terra e vi affido un seme, sapendo che questo solco mi restituirà, da qui a poco, i frutti del mio lavoro (e quindi: la proprietà privata è frutto del lavoro, che attesta l’identità del sé che ha lavorato nel tempo, dello spazio circoscritto a cui il lavoro è stato applicato… e via così, storia di soprusi lunga millenni). Roberts invita invece ad allargare lo sguardo, oltre misura e oltre definizione. «L’idea occidentale di come dovrebbe essere l’“agricoltura” – cioè caratterizzata da ampi campi coltivati a cereali, come grano e orzo, o attraversati da mandrie di bovini, pecore e capre – ha fatto sì che la ricerca in archeologia, archeobotanica (lo studio delle piante conservate nei siti archeologici) e zooarcheologica (lo studio degli animali conservati nei siti archeologici) si concentrasse sulle aride valli fluviali della Mezzaluna Fertile in Medio Oriente […]. Le foreste tropicali, al contrario, sono passate in secondo piano nelle discussioni in materia. Siamo così rigidi nella nostra visione occidentale di ciò che dovrebbe essere l’agricoltura – un’economia stanziale, completamente dipendente da piante e animali addomesticati, nonché da un ampio disboscamento e da monocolture – che ci sfuggono altre strade, altrettanto ingegnose […] per la produzione alimentare» (p. 200). Se il nomos della terra, nella sua schmittiana triplice valenza (la terra implica una misura interna e ricompensa con il raccolto l’operato umano; la terra accoglie e mostra le linee di demarcazione dei campi e dei terreni, del suolo a maggese, delle strade; la terra reca su di sé recinzioni, confini, mura ed edifici: palesa in tal modo famiglie, ceppi e stirpi) si fa strumento di ripartizione e strutturazione, la foresta ne elude il richiamo e il rimprovero. E forse, allora, non è tanto, o non è solo, vero, che «l’uomo è un essere terrestre, un essere che calca la terra» (ancora con Schmitt). «Un’origine forestale del bipedismo non è forse così sorprendente» (p. 149), se pensiamo che “il più bipede” delle grandi scimmie antropomorfe non è lo scimpanzé, che sulla terra vive e sulla terra caccia, ma l’orango, che si muove con agilità sui rami, per coglierne frutti e semi.
Ora, però, ancora, più a fondo – o più nel mezzo. Nel cuore della foresta, rinunciamo anche a questa ricerca del primato del primate – i paleoantropologi e gli archeologi hanno a lungo cercato resti più tangibili (più parlanti, logon echon) del DNA e «si è innescata un’ossessione per trovare l’esemplare “più antico” di qualsiasi cosa e per individuare una nuova regione da eleggere come sovrana nella storia delle origini umane» (p. 175); ma, stando al diario scritto con le foreste, «non siamo apparsi in un unico momento o in un unico gruppo. Millenni di contatto parziale tra le popolazioni hanno condotto a una vasta e variegata biodiversità umana» (p. 178). E proprio con le foreste abbiamo abitato, mettendo in atto strategie plurali e condivise, che però, con la lente agrilogistica, ci è difficile identificare. Un esempio: «Come per “agricoltura”, tendiamo a considerare il concetto di “città” osservando la realtà solo attraverso una lente occidentale, e spesso con i paraocchi. Basandoci sulle nostre esperienze, le immaginiamo come aree compatte e densamente popolate, sede delle élite amministrative e politiche […] sostenute, dal punto di vista alimentare, da vasti campi agricoli e da mandrie, che spesso si trovano a una certa distanza dai confini della città» (pp. 262-263). Ma grandi – enormi – gruppi umani hanno vissuto nelle foreste, escogitando messe a coltura episodiche, più simili al gioco del giardinaggio, allestendo nuclei sparsi, provvisori e non gerarchizzati di contro alla griglia urbana. Nelle città, anzi, gli spagnoli avevano cercato di ridurre le popolazioni assoggettate «per ottenere il massimo controllo politico ed economico» (p. 321). L’insediamento ordinato, la collocazione spaziale definita e univoca, come strumento di potere e di violenza (che si esercitano con maggiore facilità, se diretti da un centro a una periferia – della città, come del mondo). Lo si vede anche nell’allevamento – la stabulazione altro non è che fissare il vivente non umano al suolo, fissarlo a un solo ruolo, impedire il movimento, negare intenzioni e pensiero, procedere con il consumo. E non a caso è agli allevamenti che le foreste sono costrette a cedere il passo: «L’allevamento di bovini e pecore, così come di maiali, era forse diventata la pratica economica più importante in tutti i geotropici» (p. 309), con conseguenze disastrose (anche) per la fauna locale.
Roberts riprende quindi, attraverso Janae Davis, la lezione di Haraway: Piantagionocene potrebbe essere un concetto più appropriato di Antropocene, quando si parla di impatto umano sull’ambiente o di impatto di globo – inteso come universo strutturato e ordinato, rappresentabile in una mappa in cui ogni elemento ha il suo posto. Globo che non è mondo, se il mondo intendiamo invece, più semplicemente, come commistione. O come diario. «Invece di vedere il vapore e le fabbriche dell’Europa occidentale come origini attive dell’attuale mondo globalizzato, dovremmo guardare a come i sistemi basati sulle piantagioni […] abbiano costretto persone, piante e microbi di tutti gli angoli del mondo a vivere insieme; a come abbiano contribuito alla mortalità degli indigeni e a sistemi razzisti di schiavitù, diretti dal capitale. In questo contesto, è stato il lavoro forzato di piante, territori e persone a fornire il “modello e il motore” dell’avido sistema di fabbrica occidentale» (pp. 407-408) – qui noi, umilmente, ci permettiamo di aggiungere “e di animali”.
Il gioco sarebbe, quindi, terminare la ripartizione e la spartizione predatoria; il che include la dismissione di quella visione del pianeta come insieme lottizzato, con proprie e già definite corrispondenze fra specie e territori. Il che include, ancora, la dismissione della foresta tropicale come Eden da restaurare – in nome di una responsabilità che però pare tanto distante da quella respons-abilità che è rendere tuttə lə compagnə di gioco capaci (a vicenda). Si potrebbe ricordare ancora Haraway: essere inappropriate/inappropriabili, come possono esserlo le foreste tropicali, non comporta reclusione e tutela sotto l’imperativo della conservazione paternalistica. Significa, piuttosto, rompere i canonici rapporti di dominazione, bloccare la tassonomia – oscurare, fra le frasche e le chiome e le barbe, la visibilità. Nelle foreste si procede a tentoni – una narrazione che si scrive assieme e che non è imposta dall’alto. Il verde, nota Annalisa Metta, è colore mimetico e militare, spesso nazionalista e isolazionista; le città, in nome della difesa del proprio verde, si spendono in progetti di riqualificazione sfarzosa e forzosa, che rendono landa inospitale quel che era terreno comune; e stilano liste di cittadinə (non-umanə, umanə) graditə e non, specie parassite da eliminare, piante autoctone e piante da rimuovere ed estirpare – «queste ultime dette alloctone o invasive, termine non a caso tratto dal lessico militare». Guardiamo allora alle selve, alle paludi, alle torbiere, agli interstizi cui si rivolgono questə fuggitivə che si danno alla macchia: non al verde ma al marronage. Che non è rivolgimento a stato intatto di natura, antecedente al patto sociale e/o alla caduta, al peccato e all’inestinguibile colpa, ma l’inoltrarsi in un luogo, ancora e sempre, incognito. Entrare con questo in relazione, conoscersi assieme (senza scoprirsi: rinunceremo a celebrazioni nostalgiche, Colombus Day e altri ignobili ringraziamenti). Non il verde, ma il marrone, è il selvatico. Il cimarrón uruguayo è l’incrocio meticcio e bastardo dei cani portati dai coloni portoghesi e spagnoli nelle Americhe del Sud, sfuggiti ai loro padroni. Cimarroni sono lə schiavə datəsi alla macchia – defilatəsi nelle fronde delle foreste, che schermano gli sguardi indiscreti degli inseguitori. Foresta è una definizione operativa – e così, citando ancora Metta, «marronage è un predicato operante, che continuamente cambia e rinnova i termini della questione e produce effetti» – che va da questo Tropico a quest’altro. Per foresta sarà necessario usare il plurale, perché diario composto a più voci, strato di compost spesso 350 milioni di anni, almeno. Sono una storia di cambiamenti.
Le immagini in copertina e all’interno dell’articolo sono prese da “Hele sa hiwagang hapis” di Lav Diaz