OPINIONI
Il filo a piombo e il regolo lesbio. Tradurre, poetare, costruire
La traduzione esatta è impossibile (perfino per la non fiction) e perché mai auspicarla se dal fraintendimento sono venuti fuori nuovi stili di pensiero? Che gli errori trascrittivi siano benedetti!
«Voll verdienst, doch dichterisch, wohnet / der Mensch auf dieser Erde» – scrisse il rivoluzionario giacobino: a pieno merito eppure poeticamente abita l’uomo su questa terra, e il filosofo nazista commentò che l’operare poetico misura l’essenza umana in rapporto alla divinità in modo non quantitativo e scientifico, affetto da furia calcolante, bensì in modo tale da definire le doppia possibilità dell’abitare poetico e impoetico – la solita variante della verità che si vela o si svela e del parlante parlato dal linguaggio.
Del poetare-abitare-costruire fa parte il tradurre, anzi, ancora prima, il costruire (impoetico per definizione), il fabbricare la torre di Babele. Già durante l’edificazione alle prime difficoltà gli operosi costruttori cominciarono a litigare e a scambiarsi rozzi insulti, salvo accorgersi che le bestemmie e le argute offese diventavano sempre meno reciprocamente comprensibili, ma che cazzo sta dicendo quell’energumeno esagitato, non si accorge che sta versando la calce dal secchio e che un mattone su tre si sbriciola?
Alle fine fu peggio, la torre cominciò a franare (il meccanismo dei subappalti e l’impiego di lavoro nero alla cazzo di cane ebbero il loro peso) e i costruttori finirono per non capirsi più per niente.
Era iniziata la differenziazione linguistica e soltanto il povero Walter si ricordava dell’esistenza di una lingua pura anteriore e si mise in testa che fosse recuperabile solo mediante un lavoro ininterrotto di traduzione reciproca degli scarti linguistici.
Un lavoro comune in cui l’universale della lingua consisteva nell’infinito confronto delle differenze per opera di individui irriducibilmente differenti, ognuno dei quali imperfettamente si faceva carico di appropriarsi e rendere accessibile all’arrivo un termine indecifrabile di partenza, in cui il bisessuale parlava con la voce di una donna cis o di un maschione testosteronico, l’ebreo etero di Charlottenburg traduceva il frocione dandy e asmatico del XVI arrondissement, un baffuto siculo interpretava approssimativamente una poetessa lesbico-lesbiana.
Pierre Oliver Joseph Coomans, Saffo a Mitilene (da commons.wikimedia.org)
In mezzo alle macerie della torre non sembrava urgente domandarsi se a far conoscere oltre mare una storia di ossessioni puritane e marine dovesse essere un antifascista torinese o un gay abruzzese (viste le tendenze latenti dell’autore) o addirittura – superando il pregiudizio specista – una balena e discutiamo se normale o bianca.
E del resto la storia delle traduzioni, la storia dell’impossibilità di una traduzione fedele e magari della sua inutilità – avrebbe confermato le perplessità degli scornati innalzatori della torre.
I poeti neoteroi romani bilingui se ne sbattevano di tradurre i lirici ellenistici e li copiavano allegramente, spesso superandoli. Una traduzione sui generis e non direi che fonti e imitatori avessero grandi problemi con il sesso polimorfo – come del resto i grandi generali o filosofi coevi.
Il filosofo standard dell’epoca venne tradotto dal greco in latino con molti arbitri e il buffo è che non c’è un modo giusto di tradurlo e tramandarlo e tradirlo (secondo l’etimo dei verbi “trado” e “traduco”, il cui costituente caratteristico è il “trans” così avverso all’omogeneità delle sponde). Il divulgatore più fedele e performativo non fu il relativamente vicino Boezio, ma Averroè, 1500 anni dopo, del tutto ignaro di greco, che lo ricostruì assemblando e vagliando le versioni arabe delle versioni siriane dal greco e infine a sua volta ritradotto in latino da ebrei trilingui – immaginate voi con quanti errori di trascrizione testuale e di passaggi ideologici, dal politeismo al monofismo, dal cenacolo islamico di Baghdad alla scuola di Toledo e alla corte siciliana di Federico II – e nel ricostruirlo ne forzò alcuni concetti dando vita a una nuova e più moderna filosofia dell’impersonale.
D’altra parte, un intero ramo del pensiero, la Scolastica, venne fuori dalla discutibile traduzione di “ousía” con “substantia”.
La traduzione esatta è impossibile (perfino per la non fiction) e perché mai auspicarla se dal fraintendimento sono venuti fuori il razionalismo feudale di Tommaso, il repubblicanesimo comunale di Tolomeo da Lucca e il general intellect sigieriano-averroista? Che gli errori trascrittivi siano benedetti!
Perplessi e ammaccati, fra le macerie, cercando vanamente di rinfacciarsi a vicenda perché la torre era venuta giù, quei poracci tanti problemi non se li ponevano. Avevano dato il loro assalto al cielo e avevano perso. Sarebbe toccato ai loro discendenti lambiccarsi con altri più futili problemi.
Le disgrazie di Averroè (da commons.wikimedia.org)
Non parliamo del riconoscimento e dei diritti che spettano a individui e comunità in società segnate rudemente dalla discriminazione per colore, genere e orientamento sessuale, ma del nesso fra identità e comunicazione nel campo della cultura dove le differenze materiali e la storia pregressa sono sublimate e nascoste sotto sembianze di eguaglianza e partecipazione paritaria alla sfera dello spirito e al consumo mediatico.
Partiamo dal dato più semplice: un autore, ancora nella propria lingua, ha un’identità e parla soltanto a chi condivide quella identità?
Come fa Saffo a entrare in risonanza con la passione di un uomo (lo fa, punto) e di chi è la voce di Molly Bloom a Gibilterra, parla James o Nora? Je est un autre. Figuriamoci poi se la fiction passa da una lingua all’altra. Come devono comportarsi i traducenti se l’identità degli autori è già vacillante e ognuno ha mille nomi?
A lungo discussero sulla traduzione i nostri avi fra gli ziggurat di Babilonia e nella piana di Ninive, molto ci si accapiglia oggi nei sottoscala della identitiy politics, e forse l’illimitata ed eterogenea pratica di versioni multiple individuali imperfette, bianchi che traducono neri, sessi mischiati in policromo queer, capacità espressive incomparabili finirà per costruire una macchina algoritmica, un translator google o deepL plausibile quale tutti noi usiamo, in prima battuta, per trasportare un testo nella nostra lingua o per scrivere un articolo in una lingua diversa, cancellando accuratamente le tracce dell’ignobile ricorso a quel sussidio.
Se per un verso i traducenti professionali rischiano il destino dell’indotto pausa-pranzo in tempi di smart working, per l’altro ci risparmieremo la riduzione di un serio dibattito a sinistra sull’identità a un cicaleccio su chi traduce chi e chi tradisce chi.
E allora lo ionico selanna sarà leggibile come dorico-attico selene e potrà valere per un greco moderno che dice fengari o come equivalente di luna o moon, se tramonta e io mi rigiro nel letto squassato dal turbine amoroso. Potrò sbattermi di chi lo traduce o se mi illudo di attingervi in originale come a un dato originario? Mi sto identificando o vivo a modo mio una differenza incolmabile e tuttavia comprensibile?
Emilio Vedova, Senza Titolo (da commons.wikimedia.org)
Non è, in ultima analisi, la stessa situazione per cui nelle relazioni il consenso è un problema più profondo e ambiguo della sua riduzione in termini giuridici e contrattuali o per cui il poetare-abitare è un “prendere le misure” non rapportabile al calcolo geometrico? Non si tratta forse di usare, come raccomandava Aristotele nelle situazioni concrete e quando è in ballo l’equità, il flessibile regolo lesbio invece del filo a piombo?
Immagine di copertina da commons.wikimedia.org