OPINIONI
Il fantastico mondo di Enrico Letta
Non importa se sostenere il Ddl Zan o lo Ius Soli restringe la platea degli elettori, dice Letta, noi siamo il Pd e troveremo il coraggio di difenderli. Visto come siamo «progressisti nei valori», «riformisti nel metodo» e «radicali nei comportamenti»? E io che pensavo che, dopo l’abbandono dei diritti sociali, la difesa dei diritti civili fosse l’ultima bandiera rimasta all’odierno centrosinistra
Accendete una candela profumata, lasciatevi andare su un morbido divano, magari affacciato su una terrazza con vista in un qualsiasi centro città, e immergetevi nel fantastico mondo di Enrico Letta leggendo il suo libro L’anima e il cacciavite. Se siete giovani e non avete né una casa in centro né una terrazza, sappiate che Letta pensa a voi. Incessantemente. Lui la povertà l’ha guardata in faccia, sa quanto è dura la vita quando non riesci ad andare in Erasmus.
Per questo «è il momento di dimostrare l’attaccamento ai colori della maglia. E la mia maglia è quella del Pd, quella dell’Italia», scrive Letta o chi per lui all’inizio del libro, riecheggiando un antico sapore di «l’Italia è il Paese che amo». Ma come, come riscattare questo nostro Bel Paese così inceppato ma così pieno di giovani talenti dotati – ahi signora mia – di una gloriosa capacità di adattamento? Partendo dal senso di colpa, ovviamente: l’esser stato premier in modo non risolutivo lo fa soffrire e «da un simile senso di colpa all’obbligo alla ribellione il passo è comunque breve e anche naturale. […] Per me i volti di quei giovani sono stati l’unica vera molla per uscire da un comodo guscio».
Ecco trovato il primo strumento della ribellione: nel fantastico mondo di Letta il primo ingrediente per la lotta è un sentito atto di mea culpa della classe dirigente.
E c’è da dire che, con onestà, centra il punto quando Letta (o chi per lui) scrive che «una delle cause più profonde della crisi delle élites in Europa, in particolare dei partiti progressisti, sia stata la tendenza diffusa a disprezzare il disagio, derubricare il conflitto sociale a orpello novecentesco, vivere le disuguaglianze come il prezzo da pagare, apparentemente minimo, di fronte alle opportunità, apparentemente infinite, della globalizzazione e dell’apertura. È stato il nostro abbaglio storico».
Ma non basta. Per Letta ciò che ci vuole per iniziare col piede giusto (quello sinistro?) è proprio una buona dose collettiva di petti battuti. «La colpa, dicevo, non va rimossa» – ammonisce dall’altare – «abbiamo tutti, collettivamente, la responsabilità di aver costruito negli ultimi vent’anni un futuro fosco per i ragazzi».
Che fare, allora, di fronte questo primigenio peccato originario? La prima cosa per dissipare quest’atmosfera fosca (che Letta vorrebbe sostituire con l’incenso) è richiamare all’azione gli italiani e le italiane.
Oh, bene. Il problema è che non sono quelli che ci si aspetterebbe dal centrosinistra: «Penso ai grandi manager o banchieri, per esempio. La vostra bravura non si misura più sulle k dei compensi o dei bonus. Il valore è la reputazione, è l’impegno per le proprie comunità, è, se del caso, un sacrificio minimo rispetto a quelli insostenibili richiesti al resto della società». Manager di tutto il mondo unitevi (e pentitevi).
(da commons.wikimedia.org)
Soprattutto pentitevi e sacrificatevi. Per favore. Altrimenti dovremo procedere con l’anima e il cacciavite e non abbiamo paura di usarli. Prima però vi dobbiamo spiegare di cosa si tratta. L’anima e il cacciavite rappresentano il volto bifronte di Enrico Letta e di gran parte dell’attuale Pd, per metà cristiano, per metà riformista.
Il risultato è un bel viso democristiano montato su una camicia bianca, che muove la bocca rianimando i grandi ideali (non sia mai le grandi ideologie) in grado di trainare l’azione riformista.
L’anima, appunto, significa «avere dei valori e un obiettivo di fondo», come «mettere la dignità del lavoro al centro di ogni nostra scelta, predicare e soprattutto praticare l’uguaglianza, stare dalla parte di chi è in difficoltà, ridurre i divari territoriali, generazionali, di genere, che affliggono l’Italia».
Non importa se sostenere il Ddl Zan o lo Ius Soli restringe la platea degli elettori, dice Letta, noi siamo il Pd e troveremo il coraggio di difenderli. Visto come siamo «progressisti nei valori», «riformisti nel metodo» e «radicali nei comportamenti»? E io che pensavo che, dopo l’abbandono dei diritti sociali, la difesa dei diritti civili fosse l’ultima bandiera rimasta all’odierno centrosinistra. Invece Enrico Letta (o chi per lui) mi ricorda che neanche quella è scontata, che anzi i nostri eroi ed eroine del Pd devono farsi coraggio persino per difendere una proposta di legge che prevede di concedere la cittadinanza a chi è nato sul territorio italiano.
Per concretizzare questi grandi valori di Bontà, Libertà e Uguaglianza, però, non basta solo il valoroso avanguardismo del Pd. È necessario anche un po’ di cacciavite.
Il cacciavite è un riformismo ben assestato, un sapiente colpo di mano al momento giusto in grado di aggiustare alcuni malfunzionamenti della “locomotiva Italia”, per farla ripartire più veloce di prima, sostenibile, moderna, rinnovata nella sua giustizia sociale e nelle sue regole democratiche.
Attendere il momento giusto per sferrare la stilettata di cacciavite è fondamentale per conservare quell’atteggiamento passive-aggressive tipico del Pd, fa proprio parte della ricetta: non si corre il rischio di ribaltare gli schemi, si attende che lo schema principale scelto da altri riveli una crepa nella quale infilare di sottecchi il fantomatico cacciavite. I nostri eroi. A questo punto Letta elenca i colpi di cacciavite necessari, in Italia e in Ue.
Nell’analizzare la crisi dei partiti stracciati tra propaganda rapida e lentezza strutturale della base, nell’analizzare le sproporzioni del sistema parlamentare italiano, la legge elettorale, la riforma costituzionale, va ammesso che Letta non ha paura di pronunciare i mali (come il Gruppo Misto), e quindi anche possibili soluzioni.
Il nostro eroe scende negli inferi del Parlamento italiano, inferi che lui conosce bene. Mi fa quasi pensare che l’inquietante pacatezza del Pd e questa sua strana esuberanza nel sottomettersi non siano mancanza di idee, ma impotenza.
(da commons.wikimedia.org)
Quando si parla di ambiti di competenza ancora in mano alla politica (e soprattutto a quella nazionale) mi sembra che ci sia un programma. L’impressione sembra rinnovata quando decide di parlare di salario minimo e di tassa di successione, di esigenza di un nuovo welfare in grado di competere con un mondo radicalmente mutato. Ma non dura molto, poi torna a parlare di un pot-pourri di sviluppo sostenibile, green economy, tecnologia, istruzione e politiche attive del lavoro.
Tutto giusto, ma su questo Letta resta più vago, forse perché aspetta ancora un Pnrr e delle leggi delega scolpite nel marmo, prima di poter esclamare: «Ve l’avevamo detto!». Perché, di nuovo, la missione è strappare una parola in più in un discorso dettato da altri, non dettare i termini del discorso.
Così ogni parola necessaria decade in questa sproporzione irrisolta tra Anima con maiuscole da catechismo (Giustizia, Bontà, Uguaglianza, Diritti, Difesa dei deboli) e riformismo timido da piccoli artigiani della qualità. Così il centrosinistra, quello che dovrebbe difenderci dall’ondata di neofascismo che sta per travolgerci, si lascia andare alla liturgia delle preghiere, delle suppliche nei confronti dei manager (politici ed economici), parla all’anima del buon cristiano e non alla classe sociale.
Così quello stesso centrosinistra non riesce ancora a riconoscere la natura dei problemi italiani, crede che «il motore inceppato dell’Italia» – la giornaliera lesione dei diritti sociali, civili, umani – sia frutto di un vizio morale, tutt’al più di un errore di calcolo delle élites, e non di problemi strutturali e sistemici. Si lascia persuadere – in qualche strana forma di “riformismo manageriale fantozziano” – che basti qualche colpo di cacciavite ai vertici mentre tutti sono distratti. Letteralmente.
A un certo punto Letta ricorda uno dei momenti di grande comprensione politica che hanno segnato la sua carriera, un momento, ovviamente, mediato dall’insegnamento di un Padre, di un Maestro: «Inspiegabile, per esempio, è stato ascoltare il racconto del negoziato, a latere di un Consiglio europeo, nel quale Delors in cambio di una concessione di bandiera ottenne il via libera di Margaret Thatcher su una scelta apparentemente di poco conto».
Quanta magia può sprigionare un cacciavite «usato al momento giusto per realizzare un grande sogno». Ma qual era questo grande sogno europeo strappato dalle grinfie della Thatcher con astuto riformismo e sintomatico mistero? Lo scambio tra studenti, il futuro Erasmus. D’altronde, in un mondo in cui pandemia e disuguaglianze legate al capitalismo sono percepite in egual misura come cataclismi naturali da cui difendersi con i mezzi a disposizione, è normale fare ricorso a strumenti discreti come il cacciavite.
È normale affidarsi ai grandi maestri, meno normale è trovare tra di loro Romano Prodi che non temeva di «sporcarsi le mani di olio» e che prendeva «il cacciavite per avvitare il bullone giusto in modo da sistemare il motore inceppato del Paese». Insomma, quando l’ideologia decade, restano o la tecnica o il cristianesimo. Letta nel dubbio li invoca entrambi.
In questo senso, in questa mancanza di coraggio politico si trasfigurano quelli che Letta (o chi per lui) chiama l’anima e il cacciavite: e si trasformano in sbiadito spiritualismo e prudente aziendalismo.
In entrambi i casi a esser fatta fuori è la collettività, sostituita da una politica individualista che spera di contare sulla buona volontà dei manager e sul senso di colpa dei politici, sull’illuminazione delle élites (parola usata da Letta) e su un’astuta pratica di riformismo delle classi dirigenti dei partiti.
(da commons.wikimedia.org)
Ed effettivamente alla fine del libro, tra le tante domande che mi restano, una spicca tra le altre: a chi si rivolge il libro di Letta? Arrivata alla fine mi è chiaro: Letta parla alla classe dirigente per supplicarla e ai cittadini per informarli della supplica. Allora è normale che i vecchi falce e martello vengano sostituiti da anima e cacciavite: falce e martello erano simboli del lavoro dei contadini e degli operai, di una collettività generatrice di rivendicazioni politiche; anima e cacciavite sono simboli di singolarità che vanno a comporre la classe dirigente e che, riunite in confessionale, decidono di fare il bene degli altri.
Non stupisce, allora, che il linguaggio del Pd si avvicini sempre più a una preghiera che non nomina i nemici e tanto meno le soluzioni, che evoca a parole le buone intenzioni e rimastica il solito rosario in cui la sinistra deve ritrovare sé stessa, ritrovare il rapporto con la base, con gli elettori, con le periferie, con gli operai, mea culpa, mea culpa, mea grandissima culpa.
Non stupisce allora che il dibattito politico sia ridotto a una dimensione liturgica, fatta di colpa e bontà dei singoli, pronte a esser rinnovate nell’ennesimo: «Preghiamo».
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