approfondimenti
OPINIONI
Il doppio volto delle Olimpiadi di Parigi: tra inclusione, esclusione e riflessi storici
Una riflessione sulle Olimpiadi di Parigi 2024, tra inclusione ed esclusione, storia e politica. Le controversie intorno all’evento riflettono un confronto su scala globale sui valori e le rappresentazioni della modernità
«Quando suoneranno
il mio inno nazionale, giuro
che non scorreranno
le mie lacrime da qui»[1]
Vincitori e vinti
La cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Parigi 2024 ha diviso fortemente l’opinione pubblica, suscitando elogi e critiche sia in Francia che all’estero. Da un lato, sostenitori come il presidente Emmanuel Macron e il ministro dell’Economia Bruno Le Maire hanno lodato l’evento come una celebrazione eccezionale della cultura francese, mentre il primo ministro Gabriel Attal ne ha esaltato la bellezza e la creatività. La deputata ambientalista Sandrine Rousseau ha visto nell’evento una risposta forte contro l’ascesa dei fascismi e dell’estrema destra.
Dall’altro lato, la cerimonia ha incontrato dure contestazioni, in particolare dalla destra francese e da leader internazionali come il premier ungherese Viktor Orbán. Critiche severe sono state mosse per la rappresentazione provocatoria di temi storici e religiosi, con Orbán che ha definito lo spettacolo una “vergogna” e un esempio di “politicamente corretto”, accusandolo di riflettere la “debolezza” dell’Occidente e di allontanarsi dai valori tradizionali.
Tra i momenti più significativi della cerimonia, uno in particolare ha fatto risaltare un’ombra sull’immagine di una grande Francia, libera e innovatrice, riaccendendo una luce sulla sua storia coloniale: la delegazione algerina ha lanciato rose rosse nella Senna per commemorare il massacro del 17 ottobre 1961. In quella data, la polizia francese, sotto la guida del prefetto Maurice Papon, represse con estrema violenza una manifestazione di algerini e franco-algerini a Parigi, che protestavano contro un coprifuoco discriminatorio. Questo tragico evento, parte del contesto della lotta per l’indipendenza dell’Algeria, fu segnato da brutalità inaudite: centinaia di manifestanti furono picchiati, uccisi e alcuni gettati nella Senna. Seguirono numerosi arresti e detenzioni e molte famiglie non riuscirono mai a ritrovare i corpi dei propri parenti.
Il dibattito sulla cerimonia evidenzia le divisioni politiche e culturali sia a livello nazionale che internazionale, con accuse di propaganda da un lato ed elogi per la celebrazione della diversità e della libertà dall’altro. Tuttavia, se guardiamo oltre lo spettacolo d’inaugurazione, l’evento ha messo in luce contraddizioni significative nella gestione dei diritti e delle esclusioni. La Russia è stata esclusa dalle competizioni a causa della guerra in Ucraina, mentre Israele, nonostante le continue violazioni dei diritti umani in Palestina e le accuse di genocidio, ha partecipato senza restrizioni. Dall’altro lato, gli atleti e le atlete palestinesi hanno affrontato enormi difficoltà a causa delle restrizioni israeliane che limitano la loro libertà di movimento e l’accesso alle risorse essenziali. Le infrastrutture sportive a Gaza sono state devastate dalla violenza militare israeliana e un gran numero di atlete e di atleti palestinesi hanno subito menomazioni o hanno perso la vita.
Inoltre, come sempre avviene in occasione di grandi eventi sportivi internazionali, in Francia sono state adottate e implementate politiche di pulizia ed esclusione sociale, sgomberi, sfratti e rincari immobiliari, che hanno comportato l’allontanamento e la marginalizzazione di migliaia di persone, tra cui migranti, studenti universitari, persone vulnerabili, con il fine di migliorare l’immagine della città agli occhi delle telecamere
Dall’altro lato, gli abitanti di Parigi, che nei mesi scorsi erano già scesi in piazza contro quella che è stata definita una “pulizia sociale”, proiettando sull’edificio del Ministero dell’Interno la frase “Giochi dell’esclusione” , hanno promosso in occasione della cerimonia d’apertura una contro-cerimonia di protesta per la deportazione di migliaia di senzatetto, che vivevano per strada, in tende o in edifici occupati, e contro gli sfratti degli studenti dalle loro abitazioni per far posto ai lavoratori delle Olimpiadi, disposti a pagare affitti più alti.
Molte le voci, le critiche e le rivendicazioni che dimostrano come sport e politica siano indissolubilmente legati.
Di fatti, lo sport riflette la storia politica, economica e sociale di un paese e spesso diventa una potente piattaforma per il cambiamento o per rivelare contraddizioni nascoste. In questi ultimi Giochi, il cambiamento è stato evidente nella promozione della parità di genere, con una rappresentanza equa di atleti uomini e donne e un numero uguale di eventi medagliati dedicati a ciascun genere.
Negli ultimi decenni, si è voluto mostrare il mondo dello sport come un terreno in cui le barriere di genere, classe ed etnia tendono a cadere più facilmente, promuovendo una competizione più equa e inclusiva, nonostante le profonde difficoltà nel realizzare una carriera atletica di alto livello. In termini più realistici, lo sport esorta inevitabilmente a una riflessione critica sulle norme sociali e culturali, offrendo una visione più complessa e inclusiva delle identità di genere e delle dinamiche di potere. Nella riflessione sulle articolazioni politiche e sociali del nostro tempo e il loro rapporto con la dimensione dello sport, la lotta per l’emancipazione femminile è un esempio lampante.
A ognuna la sua Hassiba Boulmerka
Nel 2010 decisi di praticare uno sport, ma non sapevo quale scegliere. Avevo già sperimentato diverse attività sportive in passato, ma senza mai dedicarmici con continuità. All’epoca, da studentessa universitaria con un budget limitato, era essenziale fare una scelta oculata.
Un giorno, mentre ascoltavo la canzone di Andrea Mirò dedicata a Hassiba Boulmerka, l’atleta algerina che aveva conquistato l’oro ai Campionati Mondiali di Atletica a Tokyo nel 1991 e alle Olimpiadi di Barcellona nel 1992, trovai l’ispirazione. Boulmerka, oltre a essere una campionessa di mezzofondo, rappresentava un simbolo di rivolta per le atlete africane ed era la prima di loro a vincere un titolo mondiale.
Il solo ascolto del brano, di per sé molto semplice, mi colpì con una forza ispiratrice inaspettata, spingendomi a prendere la decisione di dedicarmi alla corsa, o almeno di provarci. D’altronde era un’attività che potevo praticare ovunque e senza costi. Così, un anno dopo, mi trovai a partecipare alla mia prima maratona a Istanbul, con la canzone dedicata a Hassiba Boulmerka sempre presente nella playlist dei miei allenamenti.
Hassiba Boulmerka, invece, occuperà sempre un posto unico nella memoria collettiva del suo paese. Criticata per il suo abbigliamento sportivo, ritenuto troppo provocatorio in una società algerina conservatrice, le sue apparizioni in pantaloncini e canotta furono viste da alcuni come una sfida ai valori tradizionali islamici. Questo le attirò feroci attacchi dalle autorità religiose, che la consideravano una minaccia alla morale
In un periodo di crescente tensione politica e sociale in Algeria, la sua visibilità internazionale la catapultò al centro di un ampio dibattito sulla modernizzazione e sul ruolo delle donne nella società algerina. Nonostante le minacce e le pressioni, Boulmerka perseverò, diventando un faro di ispirazione per molte atlete, sia in Algeria che a livello globale.
Prima di lei, era stato il tempo di Nawal el Moutawakel, la prima donna musulmana a vincere una medaglia d’oro alle Olimpiadi, conquistando i 400 metri ostacoli a Los Angeles nel 1984. La sua vittoria rappresentò un messaggio potente, soprattutto in un periodo di crescente tensione tra il mondo occidentale e quello mediorientale. La sua vittoria non solo portò riconoscimenti e celebrazioni in Marocco, ma dimostrò anche che esisteva una visione più progressista nell’Islam rispetto ai pregiudizi occidentali. Nonostante ciò, le aspettative di El Moutawakel per un miglioramento sostanziale delle opportunità sportive per le donne musulmane non si realizzarono completamente. Le esperienze di El Moutawakel e Boulmerka evidenziano, infatti, come lo sport possa fungere da catalizzatore per il cambiamento sociale, ma anche come esso sia fitto di ostacoli, di barriere culturali, religiose e politiche che rappresentano delle sfide significative.
I “più” della storia
Gli ultimi Giochi Olimpici sono stati definiti come i più responsabili, inclusivi, equi e spettacolari della storia. Infatti, se volgiamo lo sguardo indietro e facciamo appello al passato storico, non è molto difficile pensare che effettivamente lo siano. La partecipazione femminile alle Olimpiadi è stata a lungo relegata al ruolo di semplice spettatrice dei successi maschili e per molto tempo le donne lottarono per conquistare il diritto di competere, mentre il Comitato Olimpico Internazionale (CIO), guidato da Pierre de Coubertin, si mostrava apertamente conservatore e maschilista. De Coubertin, infatti, riteneva lo sport femminile antiestetico e inadeguato.
Per avere le prime presenze ufficiali delle donne, si dovettero attendere i Giochi di Parigi del 1900, che, unitamente al rafforzarsi dei movimenti femministi in Europa, permisero una minima partecipazione femminile. Nonostante le resistenze del CIO, le prime competizioni femminili fissarono un precedente importante, avviando un lento ma progressivo riconoscimento.
In questo contesto, Alice Milliat emerse come una figura cruciale nella storia dello sport femminile. Con la fondazione della Federazione Sportiva Femminile Internazionale (FSFI) e l’organizzazione dei Giochi Olimpici femminili, Milliat sfidò apertamente le strutture dominanti, dimostrando che le donne potevano competere a livelli elevati. La sua determinazione costrinse il CIO e la Federazione Internazionale di Atletica Leggera (IAAF) a riconoscere ufficialmente lo sport femminile, aprendo la strada alla sua graduale inclusione nei Giochi Olimpici. Milliat è quindi considerata una pioniera dell’emancipazione sportiva femminile e una figura fondamentale per l’espansione delle opportunità per le donne nel mondo dello sport.
Nel secondo dopoguerra, il ruolo delle donne nello sport olimpico cominciò a emergere, sebbene ancora ostacolato da molte limitazioni. Le Olimpiadi di Londra 1948 segnarono un’importante svolta con la partecipazione di atlete come Alice Coachman e Fanny Blankers-Koen. Coachman, la prima afroamericana a conquistare una medaglia d’oro, non ricevette il riconoscimento duraturo che avrebbe meritato. Blankers-Koen, con le sue quattro medaglie d’oro, rimase ingiustamente trascurata dai media, riflettendo il persistere di pregiudizi nei confronti dello sport femminile.
Con l’ingresso dell’Unione Sovietica ai Giochi di Helsinki 1952, la partecipazione delle donne guadagnò maggiore attenzione, grazie all’alto numero di atlete partecipanti. Questo fenomeno rifletteva la strategia del blocco comunista di compensare le debolezze negli sport maschili e di giocare la Guerra Fredda anche sul campo sportivo. A ciò è da aggiungere la profonda importanza dello sport in epoca sovietica come strumento di emancipazione femminile
Tuttavia, le donne continuavano a essere marginalizzate e sotto-rappresentate nei ruoli decisionali sportivi e, nonostante alcuni progressi dagli anni ’80 a oggi, il maschilismo rimase profondamente radicato, come dimostrano molteplici controversie e disparità: il salario e la visibilità minori, le scarse opportunità e le normative restrittive per le donne, oltre alla perpetuazione di stereotipi di genere e sessualizzazione da parte dei media. A ciò si aggiungono altre procedure discutibili e discriminanti di cui si è tornato a parlare molto in questi giorni, come i “gender test”.
Fu vera gloria?
Le Olimpiadi di Parigi 2024 segnano davvero un significativo progresso verso la parità di genere nello sport? In questa edizione sono state introdotte numerose iniziative sia simboliche che pratiche. Tra queste, si distingue la scelta di concludere i Giochi con le finali femminili di maratona e pallacanestro, una decisione che interrompe la tradizione di riservare agli eventi maschili l’onore della chiusura. In particolare, la maratona femminile ripercorrerà il tragitto storico della Marcia delle Donne su Versailles del 1789, evidenziando il contributo cruciale delle donne nella storia e nella società.
Un’altra innovazione degna di nota è l’introduzione di una nursery nel villaggio olimpico, un’iniziativa fortemente sostenuta dall’ex-velocista Allyson Felix, la quale aveva vissuto personalmente discriminazioni in seguito alla maternità, come la riduzione del suo contratto del 70% da parte di Nike. La nuova nursery, dedicata all’allattamento e alla cura dei bambini, rappresenta un importante passo verso una maggiore considerazione delle esigenze di chi gareggia con bebè al seguito.
Nonostante questi progressi, persistono molte disparità. Ad esempio, la percentuale di allenatrici, sebbene aumentata dal 13% dei tempi dei Giochi di Tokyo 2021 al 25% di Parigi 2024, resta insoddisfacente, riflettendo stereotipi di genere che limitano l’accesso delle donne a determinate posizioni nel mondo dello sport, sia nel ruolo di allenatrici sia ai vertici degli organismi sportivi.
A ciò si aggiungono i tristi retroscena che evidenziano le difficoltà e le ingiustizie affrontate da atlete provenienti da paesi meno privilegiati. Un esempio su tutti è l’umiliazione della squadra femminile di basket della Nigeria, con Ezinne Kalu come capitana, quando le è stato negato l’accesso a un battello durante la cerimonia di apertura.
Si potrebbero ancora sollevare questioni riguardanti le sfide affrontate dalle ginnaste italiane, che nonostante abbiano conquistato una medaglia dopo quasi un secolo, non hanno ottenuto il supporto di sponsorizzazioni adeguate a riconoscere i loro sacrifici. Prendiamo ad esempio Alice D’Amato, una ginnasta che a soli 12 anni ha lasciato Genova per trasferirsi a Brescia, dove si trovava la palestra più vicina per poter proseguire il suo allenamento.
Le ombre non finiscono qui. Tra gli episodi più discussi e prontamente denunciati da Amnesty International, c’è il divieto imposto dalla Francia alle proprie atlete di indossare l’hijab, una decisione che rappresenta una violazione dei diritti umani e della Carta Olimpica, poiché obbliga le atlete musulmane a scegliere tra la competizione olimpica e il mantenimento della propria identità religiosa. Anche l’accesso alle competizioni per le atlete transgender rimane limitato in molte discipline, con argomentazioni spesso non supportate da studi scientifici approfonditi
Infine, permangono questioni di doppio standard nei giudizi sui comportamenti degli atleti: mentre la ginnasta giapponese Shoko Miyata è stata esclusa dai Giochi per aver infranto il divieto di fumare, l’olandese van de Velde, condannato per stupro, è stato incluso nella squadra olimpica di beach volley.
Questi esempi evidenziano che, nonostante i passi avanti, lo sport continua a essere un campo dominato dagli uomini e che anche la questione della parità di genere e la rappresentazione delle atlete rimane un campo di battaglia con nuove e vecchie sfide da affrontare.
Un caso italiano. Il diritto di perdere
Ho sempre odiato la parola “vincente” e penso che una riflessione sul concetto di “vittoria” sia sempre necessario e sempre attualizzabile.
Il recente episodio che ha visto Benedetta Pilato, giovane promessa del nuoto italiano, giungere quarta alle Olimpiadi, ha acceso il dibattito sui valori e le prospettive delle nuove generazioni rispetto a quelle precedenti. Pilato, visibilmente emozionata e felice nonostante la mancata medaglia, ha dichiarato: «Ho quasi vinto e sono felice lo stesso», una reazione che ha sorpreso molti, inclusa la cronista Rai che, incredula, ha chiesto conferma.
Questa dichiarazione ha subito attirato le critiche di Elisa Di Francisca, campionessa di scherma, che ha ironicamente deriso l’atteggiamento della giovane atleta, per poi scusarsi in un secondo momento. Il video di questa interazione è rapidamente diventato virale, esemplificando il conflitto tra due visioni opposte: quella delle nuove generazioni, che spesso dimostrano una consapevolezza e un equilibrio emotivo più marcati, e quella delle generazioni precedenti, più ancorate alla retorica della performance e del sacrificio. L’episodio mette in luce una tensione crescente tra l’ideale di successo totalizzante, che ha caratterizzato le esperienze sportive e professionali delle generazioni passate, e un approccio più riflessivo e meno ossessionato dal risultato assoluto, che più si adatterebbe alle nuove generazioni. Questo contrasto non è solo una questione di punti di vista, ma riflette un cambiamento culturale profondo, dove la definizione di successo e felicità sta diventando sempre più personale e meno legata a parametri esterni di riconoscimento e vittoria.
L’episodio è inseribile nel dibattito molto caro all’Italia sul tema del merito, del “se vuoi, puoi”, del “sogno italiano”. Tutto cambia nome, da diritto a merito, e a sua volta ci chiude in una pericolosa e claustrofobica trappola ideologica, servendosi di una retorica che spesso giustifica le disuguaglianze sociali e colpevolizza coloro che non riescono a raggiungere determinati obiettivi
Un discorso che si inserisce in una riflessione più ampia sul ruolo e sul significato del lavoro nella nostra epoca, esplorando come le sue modalità e finalità stiano cambiando e come questi cambiamenti influenzino il senso di realizzazione personale e collettiva. La retorica meritocratica non solo ignora le differenze reali nell’ambito delle opportunità, ma favorisce anche una cultura del disprezzo verso chi non riesce, verso i cosiddetti “perdenti”, ampliando tutti i disagi di ordine psicologico e il senso d’inadeguatezza. La meritocrazia, quindi, rischia di diventare un meccanismo di legittimazione e di amplificazione delle disuguaglianze, piuttosto che uno strumento di equità e giustizia. Questo meccanismo crea una dicotomia tra chi “merita” e chi “non merita”, portando a una forma di svalutazione e marginalizzazione di coloro che non riescono o non vogliono conformarsi agli standard di successo imposti.
Nel suo piccolo, una frase come «ho quasi vinto e sono felice lo stesso» non è solo una strategia di sopravvivenza a una delusione, ma un cortocircuito innescato in un sistema di valori dominato dal successo a tutti i costi, dalla narrazione tradizionale del trionfo e del merito assoluto.
[1] Citazione tratta dal brano di Andrea Mirò, Hassiba Boulmerka
L’immagine di copertina è presa da rawpixel.com
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