EUROPA
Il Donbass, tolto il velo dell’ipocrisia
L’aggressione del regime di Putin all’Ucraina ha tolto il velo anche sull’ipocrisia che regnava nel Donbass dal 2014 ad oggi. Quello che, secondo le autorità di Mosca, sarebbe il teatro di un genocidio condotto ai danni della popolazione russofona, altro non è che un buco nero mafioso
Lo scorso 21 febbraio la Russia ha riconosciuto l’indipendenza delle repubbliche separatiste di Doneck e Lugansk. Il giorno seguente l’esercito russo entrava nelle due repubbliche per una missione di peacekeeping che, da un lato, affermava la sovranità russa sui due territori e, dall’altro, preparava l’invasione del resto dell’Ucraina.
Dopo anni di ipocrisie e falsità, è finalmente caduto il velo dal Donbass. Ripercorrere la storia recente di questa regione significa addentrarsi nei meandri di un conflitto definito “a bassa intensità” ma che, dal 2014, non ha smesso di seminare morte associando alla destabilizzazione politica e al controllo militare, pratiche criminali comuni, traffici, regolamenti di conti e violenza.
Quello che, secondo le autorità di Mosca, sarebbe il teatro di un genocidio condotto ai danni della popolazione russofona, altro non è che un buco nero mafioso.
Il furto dello stato
All’indomani della dissoluzione sovietica molti vecchi esponenti della nomenklatura hanno saputo riciclarsi e trasformarsi in magnati e imprenditori grazie alla spoliazione dei beni pubblici in un processo di privatizzazione selvaggia che il politologo Steven L. Solnick ha chiamato «il furto dello stato».
Un fenomeno che ha avuto luogo in molte regioni dell’ex Urss ma che in Donbass ha visto l’emergere di clan oligarchici capaci di prendere il controllo politico e sociale della regione, limitando gravemente la formazione di una società civile.
Una regione industriale così ricca di risorse si è rivelata comprensibilmente attraente per le nuove generazioni di dirigenti mafiosi che cercavano di consolidare le proprie posizioni sociali ed economiche assumendo un controllo formale sul mondo della politica e del diritto.
Anni prima che Viktor Yanukovich diventasse presidente dell’Ucraina, lui e la sua famiglia stavano già esercitando il controllo sulla regione di Donetsk. Molti degli attori politici ed economici più influenti dell’Ucraina indipendente provengono da questa regione: gli ex presidenti Kuchma e Yanukovich ma anche Rinat Akhmetov, Oleksandr Yefremov, Borys Kolesnikov, nomi più o meno noti che hanno segnato le sorti della regione e del paese.
Grazie a loro il Donbass è divenuto il tempio della corruzione, un luogo in cui soprusi e vessazioni erano il pane quotidiano, e la lotta tra gruppi armati al soldo di opposti magnati insanguinava le strade. La speranza di vita era, poco prima della guerra, due anni inferiore al resto del paese mentre la regione registrava i più alti tassi europei nel consumo di oppiacei e nella diffusione dell’HIV .
E tutto questo malgrado la regione valesse un quarto di tutto l’export ucraino. Una ricchezza che però non andava nelle tasche della popolazione.
Regioni filorusse?
È in questo contesto che si svilupparono gli eventi che hanno portato alla nascita delle repubbliche separatiste. Nel momento in cui il presidente Yanukovich fuggì dal paese, cominciarono a emergere conflitti all’interno del mondo oligarchico che lo sosteneva.
Tra la popolazione si diffusero sentimenti contrastanti tra coloro che lo ritenevano un traditore e quelli che sentivano invece di aver perso un punto di riferimento a Kiev .
Lo possiamo capire da un sondaggio dell’IRI condotto proprio in quei mesi che testimonia il malessere dei residenti negli oblast di Doneck e Lugansk: in quelle regioni solo il 40% degli intervistati riteneva l’occupazione della Crimea “una minaccia per la sicurezza nazionale” contro al 90% dei residenti nelle regioni centro-occidentali.
Allo stesso modo, ben il 30% esprimeva la necessità di una “protezione per i cittadini russofoni”. Tuttavia il favore verso l’integrazione con la Russia non era elevato: 33% a Doneck, 24% a Lugansk e Odessa, 15% a Kharkiv, mostrando come anche nelle regioni orientali del paese sussistessero grandi differenze e non fosse affatto vero, come si è poi affermato e si continua a ripetere da più parti, che nell’est dell’Ucraina la popolazione fosse largamente favorevole all’integrazione con la Russia.
Anzi, uno studio del 2018 ha rilevato come la guerra non abbia modificato nella popolazione del Donbass la propria identità ucraina che, quindi, è qualcosa di più di una semplice appartenenza linguistica.
Una guerra civile?
Mentre a Kiev si andava consolidando il fronte rivoluzionario, nell’est del paese cominciarono i disordini. A marzo 2014 si registrarono scontri a Kharkov, Doneck e Lugansk, con l’occupazione dei municipi e delle istituzioni locali. Secondo gli osservatori OSCE le forze di polizia non intervennero o si mostrarono solidali con i manifestanti filorussi.
In aprile vennero occupate le amministrazioni di Kramatorsk, Sloviansk e Mariupol’, questa volta con il supporto di uomini armati. Si trattava perlopiù di paramilitari che arrivavano dalla Russia .
La provenienza russa dei miliziani e di larga parte dei dimostranti che occuparono le varie municipalità è la prova che non si è mai trattato, fin dall’inizio, di una guerra civile ma di uno “scenario crimeano” fatto di agitatori e truppe irregolari inviate da Mosca per destabilizzare e infine occupare le regioni orientali dell’Ucraina.
Si arrivò così alla proclamazione di indipendenza delle Repubbliche popolari di Doneck e Lugansk, rispettivamente il 7 e il 27 aprile 2014. Nel mese di maggio un referendum confermativo venne tenuto nelle due repubbliche registrando il 90% dei consensi. Un dato che contrasta fortemente con quello raccolto appena un mese prima dal sondaggio dell’IRI e che appare del tutto inverosimile.
Intanto i combattimenti si intensificarono con l’arrivo di mezzi blindati, artiglieria pesante, lanciarazzi e sistemi antimissile di provenienza russa. Nel mese di luglio il volo MH17 della Malaysian Airlines venne abbattuto uccidendo 298 persone. Un’indagine internazionale concluse che l’aereo era stato colpito da un missile terra-aria partito dalla base della 53esima brigata antiaerea di Kursk, in Russia.
A quel punto il velo sulla crisi ucraina era già stato squarciato, ma per molto tempo non si è voluto vedere in faccia il responsabile.
Gli sforzi della diplomazia condussero, in settembre, al Protocollo di Minsk, conosciuto come “Minsk I”: venne stabilita la linea di contatto tra l’Ucraina e le due repubbliche separatiste; si stabilì l’immunità per “tutti i partecipanti agli eventi nelle regioni di Donetsk e Lugansk” senza distinzione tra crimini comuni e crimini di guerra; vennero stabilite elezioni locali in presenza di osservatori OSCE (che si tennero infine il 2 novembre senza rispettare nessuna delle condizioni di trasparenza previste).
Iniziava così una nuova fase di negoziati che, nel febbraio 2015, approdò agli Accordi di Minsk (noti come “Minsk II”).
L’economia dei separatisti
Dopo la stipula degli accordi di Minsk (febbraio 2015) si è avviata una fase di relativa stabilità anche se tra il 2017 e il 2020 si sono registrate più di 900 vittime civili.
La situazione economica nelle due repubbliche separatiste era tuttavia resa difficile proprio dagli Accordi di Minsk che impedivano relazioni economiche con Mosca. L’assenza di collegamenti bancari con la Russia impediva alle fabbriche e alle aziende delle “repubbliche popolari” di avere la liquidità necessaria per mantenere la produzione.
In questa situazione, l’Ossezia del Sud è diventata l’estrema risorsa: dopo aver stabilito rapporti ufficiali con Mosca, Donetsk e Lugansk, la piccola repubblica separatista georgiana è diventata l’intermediario attraverso cui la Russia versava fondi e pagamenti al Donbass.
Tra il 2014 e il 2018, gli investimenti diretti esteri sono stati inferiori all’uno per cento del PIL del Donbass. Le aziende esitano a investire risorse in un’area in cui si verificano quotidianamente scambi di artiglieria. Per questo motivo, l’economia fatica a svilupparsi ed è stata particolarmente colpita dalla pandemia di Covid-19 diffondendo ulteriore malcontento tra la popolazione.
L’economia è stata monopolizzata da imprese di proprietà dei separatisti. I leader locali che si sono succeduti nel tempo hanno avviato una vera e propria economia di rapina, nazionalizzando e controllando le industrie locali. Gli stipendi sono crollati ai minimi storici. Chi ha potuto lasciare le due regioni, l’ha già fatto.
Sono quasi due milioni coloro che sono emigrati nel territorio sotto controllo ucraino. Di fronte al crollo dell’economia locale, alla distruzione delle infrastrutture civili e industriali, i leader separatisti hanno agito come veri e propri boss mafiosi , imponendo la propria legge con la violenza.
Tra i più noti vale la pena citare Aleksandr Borodai, primo capo della repubblica di Doneck, che oggi siede alla Duma russa, e Aleksandr Zacharčenko, capace di costruirsi un piccolo impero estorcendo denaro a ristoranti e supermarket, prima di essere ucciso nel 2018 da un’autobomba piazzata da qualche rivale interno.
Le due repubbliche separatiste sono arrivate a costare miliardi di dollari alla Russia, costretta a versare soldi nelle casse dei separatisti, i quali non hanno esitato a farne un uso personale.
Il regime semi-coloniale russo nel Donbass sarebbe stato insostenibile sul lungo periodo. Forse anche per questo Mosca ha deciso per il riconoscimento delle due repubbliche, uscendo dagli accordi di Minsk e prendendo il controllo diretto della regione. Ai piccoli boss locali si sostituisce così l’unico vero signore della guerra, Vladimir Putin.
Articolo pubblicato originariamente su Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa
Immagine di copertina da Wikicommons