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ITALIA
Il diritto all’aborto: dagli anni ’70 a oggi
Dalla criminalizzazione delle donne dagli anni ’30 agli anni ’70, si è passati alla violenza e vittimizzazione delle donne oggi. Domani in tant3 saranno ad Ancona per rivendicare il diritto all’aborto, lo stesso conquistato formalmente negli anni ’70, ma a distanza di cinquant’anni ancora non riesce ad essere garantito. Ripercorriamo il telefono senza fili arrivato fino ad oggi che ci racconta dei problemi dell’aborto e delle lotte delle donne
In Italia esiste un telefono senza fili, che va avanti dagli anni ’70 fino ad oggi, che vede protagoniste migliaia di donne che si sono dette all’orecchio, oltre che urlarlo nelle piazze, tutti gli ostacoli costruiti come muri tra loro e il loro diritto di abortire.
Nei primi anni ’70, quando una legge non c’era ancora, sono centinaia le dimostrazioni che vengono fatte negli spazi pubblici per ottenere una tutela alla libera scelta in materia di aborto. Il 4 giugno 1973, con in braccio cartelli che citano «vogliamo decidere quando essere madri», sono diverse le donne che organizzano sit-in davanti al Tribunale a sostegno di Gigliola Pierobon, processata a Padova, che per il Codice Rocco aveva commesso un reato «contro l’integrità e la sanità della stirpe: l’aborto clandestino. Il caso giudiziario di Pierobon, grazie al sostegno e alla collettivizzazione della causa portata avanti da Lotta Femminista, diventa un fatto pubblico. Dall’interesse individuale a quello collettivo: la condanna a un anno di carcere di Pierobon scatena mobilitazioni di piazza. Sono i primi tasselli di una costante e insistente pressione verso le istituzioni per la depenalizzazione dell’aborto, che arriverà solo nel 1978 con la promulgazione della Legge 194/78.
«Quando nel maggio del ‘78 viene approvata la legge, da subito non viene attuata», racconta Graziella Basselli, una delle voci che ha costituito quel telefono senza fili che è la memoria collettiva delle rivendicazioni per l’aborto libero e gratuito. «Al Policlinico esisteva un collettivo di lavoratori e lavoratrici che, insieme alle femministe del quartiere di San Lorenzo, dopo un mese dalla promulgazione, occupa un reparto chiuso (..) con lo slogan “vogliamo l’aborto per non abortire più”. (..) È stata un’esperienza stupenda, perché molte di noi lavoravano già lì, smontavano dal turno di lavoro e iniziavano quello di volontariato nello spazio occupato». Graziella ha lavorato nell’ospedale di Roma per quarantadue anni, e oggi sono sei anni che è parte attiva del Coordinamento dell’Assemblea delle donne e delle libere soggettività dei Consultori del Lazio.
La pressione femminista in tema di aborto ha esattamente la sua stessa storia: la lotta per il diritto all’aborto trasformata da subito in lotta per la messa in atto di quel diritto. Dalla criminalizzazione delle donne dagli anni ’30 agli anni ’70, si è passati alla violenza e vittimizzazione delle donne oggi.
Un diritto che non viene garantito non è un diritto. «La stessa 194, che è una forma vergognosa di mediazione, prevede gli obiettori di coscienza», ci ricorda Graziella. «Già dal primo approccio, quello dei consultori, si criminalizza e si rende una corsa a ostacoli quello che è un diritto. (..) Oggi ci sono regioni, come le Marche, in cui c’è un 100% di obiezione, il che vuol dire che negli ospedali marchigiani non si pratica nessun intervento di IVG. Si comincerà quindi a fare quello che si faceva prima del ‘78, che non vorrà più dire andare a Londra per abortire, ma sicuramente intraprendere un viaggio fuori dalla propria regione, dove questo diritto è negato». Nonostante la legge 194 giuridicamente non permetta nemmeno l’obiezione di struttura, per cui in un ospedale è illegale che ci siano il 100% dei ginecologi obiettori, la realtà dei fatti è che esistono intere regioni in cui non vengono garantiti i numeri minimi per esercitare questo diritto.
Un problema centrale è quello che la tutela di questo diritto non sembra interessi alle istituzioni che dovrebbero esserne garanti. La Regione Lazio, ad esempio, non si è mai mobilitata per indagare le percentuali di obiezione all’interno delle strutture sanitarie del suo territorio. È solo grazie al lavoro del Coordinamento dell’Assemblea delle donne dei consultori che Graziella, e altre compagne, sono riuscite, attraverso auto-inchieste, a fare pressioni alle varie ASL di Roma per ottenere i dati circa la presenza di obiettori all’interno delle strutture pubbliche. «Quando abbiamo portato i dati alla regione della giunta precedente, facevano finta di non crederci».
Dal lavoro di inchiesta auto-prodotta, con l’invio di richieste di accesso civico tramite PEC a tutte le ASL della Regione, è emerso che il 57% dei ginecologi censiti si dichiarano obiettori, con picchi del 100% dei ginecologi all’Ospedale di Palestrina, dell’84% al Policlinico Umberto I o del 89% a quello di Tivoli (dati del 2021). «È stata una battaglia aperta e generalizzata che nel Lazio, attraverso le assemblee e la nostra presenza ogni mese, ha dato sicurezza e presenza territoriale», ma ci sono altre regioni d’Italia che versano in situazione decisamente peggiori. E non è un caso che la manifestazione del 6 maggio per l’aborto libero e gratuito, quest’anno, si terrà ad Ancona.
L’atteggiamente paternalistico e violento che pervade le istituzioni italiane, molto spesso portatrici dei valori cardine del cattolicesimo, prevede che la donna che decide di abortire venga considerata come una vittima di un evento tragico.
La narrazione intorno all’IVG è sempre emotivamente situata, e l’equazione appare da subito evidente: se l’evento è tragico, chi lo causa deve essere accompagnato dal senso di colpa. Non è un caso che questo dicembre, l’associazione Pro Vita & Famiglia abbia aderito al movimento internazionale “40 days for life”, organizzando sit-in di fronte all’ospedale di Treviglio, mostrando cartelli con scritto «meglio in braccio che sulla coscienza». O ancora l’esistenza dei “Giardini degli angeli” dove, fino a poco tempo fa, sulla superficie dove i feti abortiti venivano seppelliti dalle organizzazioni antiabortiste, venivano piantate delle croci con i nomi delle donne che avevano scelto di interromperne la gravidanza.
La cultura violenta e paternalistica degli obiettori dentro gli ospedali è la stessa dei pro-life fuori da questi. È per questo che Graziella sottolinea come il Coordinamento si concentri molto sulla formazione del personale sanitario perché «siano formati per fare effettivamente ascolto. Perché non si lavora con le donne che si presentano ai consultori ma per loro, partendo da quelle che sono le loro specificità, rompendo gli stereotipi, i pregiudizi e la loro criminalizzazione». Perché a tutti i livelli di professionalizzazione, dalla psicologa che approccia il primo colloquio, passando per il personale medico che prescrive l’RU486 fino all’intervento chirurgico vero e proprio dell’IVG, incontriamo persone non educate all’ascolto e alla differenza. «Anche quello che è successo a Roma di una madre che ha involontariamente ucciso il figlio ci fa vedere come ci sia un’ignoranza assoluta: al massimo si parla di depressione post partum, ma nessuno vede come sono effettivamente le sale parto, in cui spesso le donne sono lasciate partorire in situazioni disumane. (..) La sezione parto del Policlinico è da quando l’abbiamo occupata negli anni ’70 che aspetta ancora di essere ristrutturata. Ci sono una media di 30 barelle al giorno, di donne che molto spesso passano tutta la preparazione al parto su una di quelle, in corridoio».
La retorica intorno all’IVG, che si è costituita negli anni, come di un’azione drammatica e tragica di per sé, è tendenziosa. Sono i condizionamenti materiali che rendono l’aborto un fatto travagliato e tragico.
È contro questa stigmatizzazione dell’aborto, e di conseguenza della vittimizzazione della donna che abortisce, che si scontrano, ad esempio, il gruppo di donne e soggettività libere di “Ho abortito e sto benissimo”: un luogo in cui condividere la propria esperienza di autodeterminazione, fuori dai canoni retorici della sofferenza. Il lavorio intellettuale e politico che si fa è esattamente in questa direzione.
Al Festival del giornalismo di Perugia, durante l’incontro “L’Italia dei diritti negati”, Alice Merlo, attivista e testimonial nel 2021 della campagna di sensibilizzazione “Aborto farmacologico: una conquista da difendere”, ha dichiarato che, molto spesso, i giornali la contattano unicamente «per una cosa squallida: la richiesta di pornografia del dolore, per avere la storia più tragica dell’accesso all’aborto». Ma l’aborto è tragico di per sé solo quando non viene garantito. Era tragico prima del 1978 quando le donne erano costrette a recarsi dalle mammane e praticarlo clandestinamente, morendo molto spesso per infezioni gravi. È oggi doloroso perché si è costrette a uscire dalla propria regione alla ricerca di un ospedale in cui ci siano ginecologi non obiettori. È necessario quindi che questo diritto venga garantito, affinché smetta finalmente di essere tragico e doloroso.
Foto di copertina di Daniele Napolitano