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Il dio sensibile mescolato con la materia del mondo

“Il dio sensibile. Saggio sul panteismo” di Emanuele Dattilo (Neri Pozza, Vicenza 2021) è un libro contro corrente sul panteismo e i cattivi effetti collaterali dell’idea di creazione che tesse l’unità di mente e materia dagli Antichi a David di Dinant, Giordano Bruno e Baruch Spinoza

A volte un libro, che incontri per caso, ti assale come un brigante nel bosco – dichiaro il mio debito a Walter Benjamin! Puoi essere in disaccordo su alcune cose, ma ne ritieni il contenuto valido e utile da trasmettere, anche fuori da una cerchia specializzata. È questo il caso di un libro tutt’altro che accademico malgrado l’argomento, ovvero Il dio sensibile. Saggio sul panteismo, di Emanuele Dattilo (Neri Pozza, Vicenza 2021). Di cosa vi si parla?

Un eresiarca dichiarato tale e postumo dissepolto, Amalric di Bène, e un oscuro teologo scolastico di cui restano pochi frammenti, David di Dinant – non hanno certo mai occupato i pensieri dei lettori di “Dinamo”. Eppure, vale la pena di dedicare loro qualche riflessione. Essi sono stati i testimoni medievali di una linea di pensiero che, partendo da posizioni minoritarie nell’antichità classica, conduce, attraverso Alessandro di Afrodisia e Avicebron, fino a Bruno e Spinoza: il panteismo o ateismo, per cui Dio e il mondo sono un’unica cosa, senza trascendenza del primo e senza un processo di creazione del secondo. Dunque, una tesi non teologica bensì cosmologica, «non un’idea su Dio ma sulla natura delle cose e del mondo» (p. 10).

In uno dei Quaternuli di David di Dinant, di prevalente argomento medico e biologico, scoperti nel 1933 e pubblicati trent’anni dopo, spicca un frammento metafisico intitolato Mens Hyle Deus, che costituisce l’unica testimonianza di un pensiero altrimenti noto solo attraverso le confutazioni di Alberto Magno e Tommaso d’Aquino. In quel breve testo si riprende la teoria aristotelica del rapporto anima-corpo attraverso una lettura averroista, affermando che l’anima è la parte del corpo ricettiva, cioè capace di patire, di subire affezioni mediante i sensi (non un “io” personale). L’anima non opera senza un corpo ma – nella sua parte noetica, impassibile e impersonale – è in grado non soltanto di conoscere i singoli oggetti con cui veniamo a contatto, ma anche di esperire la materia stessa al di qua di ogni forma contingente che assume, la materia prima o hyle. Poiché conoscere è assimilarsi al conosciuto, quando l’intelletto pensa se stesso, intelletto e materia coincidono e Dio è questa conoscenza simultanea: per essere eterni bisogna avere un corpo. 

«La materia del mondo – sta scritto nel frammento di David – è Dio stesso, e la forma che avviene alla materia non è altro che Dio che rende sensibile se stesso (forma vero adveniens yle nil aliud quam id, quod facit Deus sensibile se ipsum) […] È dunque manifesto che c’è una sola e unica sostanza, non solamente di tutti i corpi, ma anche di tutte le anime, e che questa sostanza non è altro che Dio stesso (aliud esse, quam ipsum Deum). La sostanza da cui esistono tutti i corpi è detta materia; la sostanza da cui esistono tutte le anime è detta mente». E proprio in quest’ultima cogliamo come la materia prende eternamente forma nel mondo. Più tardi un marrano di Amsterdam dirà che esiste un’unica Sostanza, Deus sive Natura, e che dei suoi infiniti attributi conosciamo solo Extensio e Cogitatio, di cui corpi e menti sono modi.

In questo audacissimo passaggio non solo si assimilano Dio e Mondo, materia e mente, ma grazie all’attività intellettuale cogliamo le cose nella loro eternità – il cortocircuito estatico averroista fra intelletto materiale unico per tutta la specie e l’Intelletto Agente o il processo per cui noi riusciamo a pensare sub specie aeternitatis, anzi, come dice il marrano di cui sopra, sentimus, experimurque nos aeternos esse. Per Dattilo lo spunto è tratto da Alessandro di Afrodisia (commenti al De anima) e dallo pseudo-Alessandro (Mantissa), e in genere il panteismo criptico di David è inserito in una genealogia neoplatonica e in una modulazione del concetto di materia non segnata e in potenza (da Plotino ad Avicebron) che infine va a parare nella cosmologia di Giordano Bruno. Qui recensore e recensito – entrambi “panteisti” – divergono, essendo io averroista e lui alessandrista, una frattura irrimediabile che, tanto per farci capire dai non specialisti del ramo, è molto più acuta di quella che passa fra un romanista e uno juventino. E che si riflette anche nell’interpretazione dei susseguenti, cioè di Bruno e Spinoza, per non parlare di quella che potremmo definire, nell’accezione musicale, una “coda” schellinghiana.

Il secondo decisivo corollario è che cade, in ogni caso e sotto qualsiasi genealogia, il concetto di creazione e tutti i dualismi, volontarismi e trascendenze che le si agganciano. Infatti, la «promiscuità ontologica tra mente e materia» (Il dio sensibile, p. 67) e il rapporto molto speciale fra Dio e luogo (analizzata con grande finezza nel cap. II attraverso molti autori, a partire dall’enigmatica chora platonica) conducono all’identità e internità del Dio-causa con i suoi effetti e all’impossibilità di distinguere ontologicamente un progetto dalle azioni che lo realizzano. ­ 

Il III capitolo dedicato alla confutazione dei concetti di causa esterna e creazione, insiste sul fatto che che la causa non trasmette solo il movimento ma anche l’essere da un principio superiore a uno stato inferiore (dal Creatore al creato), secondo la tradizione scolastica cristiana (peraltro ispirata dallo sciita Avicenna) di Tommaso e Suárez: per essi la causa non è alterazione o generazione, ma produzione, dove il prodotto resta sempre dipendente dal producente (cioè l’uomo da Dio). La causa è sovrana sul causato e lo è grazie a un meccanismo tutto politico, quello della rappresentazione dall’alto o dal basso. L’incolmabile differenza ontologica sarà resa accettabile solo con l’ingegnoso espediente tomistico dell’analogia dell’essere.

Con svariate conseguenze che segnano gran parte della civiltà occidentale: «la creazione è una dottrina metafisica e morale, in cui viene sancita la libertà d’azione e la sovranità del soggetto che ha luogo nel pensiero» (ivi, p. 145), per imitazione umana e statuale dell’onnipotenza di chi ha tratto il mondo dal nulla, potendo scegliere se agire o non agire. Il panteismo, s’intende, è l’opposto, il ritorno dalla causa efficiente sublimata alla causa materiale, la non separazione dell’essere dall’agire, un universo in cui le cose stanno come devono stare e Dio è – nella formula di Ethica I, 18 – «causa immanente e non transitiva».

L’idea panteistica disattiva ogni forma di teologia – come rapporto a un trascendente e come proiezione della trascendenza nella teologia politica (Schmitt ha mostrato quanto sia agevole passare da una cattolico-romana a una secolarizzata sempre schiacciandone i sudditi). In termini paradossali, la religione feticista incarna il non aliud cusaniano ed è più vicina a un’autentica esperienza del divino nel mondo di quanto non lo sia l’interiorità dell’anima – che, aggiungiamo noi, è il correlato compensativo del trionfo del feticismo delle merci, il supplemento spirituale del denaro.

La materia – afferma Dattilo nei due capitoli conclusivi – è divina in quanto potenza, è «sostanza sempre attuale che si esprime e si apre in alcune potenze», mai separandosi dalle forme e dagli atti. È l’actuosa potentia spinoziana? Un po’ sì, ma anche una materia smaterializzata, così come Dio si fa misticamente «la fodera notturna di ogni luce» (p. 187). Peraltro, la conoscenza panteistica non è visiva, dominata dalla forma-eîdos, ma tattile ed erotica, percezione di quella forma ma unita alla materia. Si compie mediante metamorfosi per continuità con il proprio fondamento materiale e non per homóiosis o copulatio fra soggetti separati. Anche l’amor dei intellectualis spinoziano è correttamente interpretato quale conoscenza immediata di cose singolari. La felicità che ne deriva (come in tutte le modalità di estasi razionale e felicità mentale che l’hanno preceduta) «ha a che fare con il riconoscimento della vita che vive, e quindi con una potenza attuale e inseparata delle cose» (p. 355), analoga all’ordine messianico di un celebre passo di Benjamin o a un tiqqun senza riparazione dei vasi infranti.

Siamo partiti da lontano e abbiamo traversato lande poco frequentate dalla scienza politica e dal senso comune corrente ma, non senza dissensi e salti, siamo arrivati a qualcosa che può essere usato per le forme di vita di oggi. E sono pochi i testi, come questo di Dattilo, che ci offrono strumenti insoliti ma efficaci di lettura delle categorie del pensiero.

L'immagine di copertina è un dettaglio del mosaico Four Seasons di Marc Chagall e si trova in cc su Wikimedia Commons