cult
CULT
“Il colore del nome”, viaggio nelle identità non univoche
Vittorio Longhi racconta il percorso attraverso le proprie origini e appartenenze, e allo stesso tempo ci porta in un viaggio che unisce il colonialismo italiano nel Corno d’Africa con il presente in cui viviamo: le migrazioni e le stragi del mare, le cittadinanze negate, le “primavere arabe” e il G8 di Genova
«Già faccio fatica a definire la mia identità di italiano nel mondo, ci mancherebbe confondermi le idee con l’appartenenza africana o afroeuropea”.
Sarà una mail di una parente dal Corno d’Africa a far cambiare idea a Vittorio Longhi, giornalista con un’ascendenza eritrea a lungo non rivendicata, spingendolo verso la riscoperta della storia della sua famiglia all’interno di quella del colonialismo italiano e verso il riconoscimento della propria appartenenza italoafricana. Ma sarà anche uno dei numerosi naufragi al largo della Sicilia, quello in cui il 3 ottobre del 2013 persero la vita 368 eritrei imbarcati in Libia e diretti in Europa, a convincerlo definitivamente che «l’Eritrea non è altro da me». Con Il colore del nome (Solferino, 2021) Longhi racconta del percorso attraverso le proprie origini e appartenenze; e allo stesso tempo propone a chi legge un viaggio che unisce il colonialismo italiano nel Corno d’Africa con il presente in cui viviamo, con le migrazioni e le stragi del mare, con le cittadinanze negate.
La letteratura in italiano che si occupa, in diversi modi, di temi coloniali è in crescita ormai da oltre venti anni, con un aumento di libri pubblicati e una diffusione presso un pubblico sempre meno di nicchia. Eppure, sarà per la forma scelta, il memoir, che non è fiction ma neanche autobiografia; sarà per il sistematico intreccio tra storia e attualità; sarà per la stratificazione delle questioni affrontate – c’è piazza Tahrir del 2012, c’è il G8 del 2001 –, il lavoro di Longhi si presenta come un unicum all’interno di questo panorama.
Piazza Tahrir, 2011. Fotografia di Mona sosh, da Flickr
Innanzitutto per la prospettiva che adotta. Di solito, nelle narrazioni che in qualche modo hanno a che fare con la storia del colonialismo, è facile collocare immediatamente la posizione da cui parla chi scrive: italiano, italoafricana, colonizzatore, colonizzata. Il libro di Longhi assume invece, come punto di partenza, il fatto che le identità, oltre a non essere granitiche e univoche, non sono neanche “date” una volta per tutte: invece sono frutto di scelte, rimozioni, riaffermazioni, reazioni diverse agli eventi, riconquiste. E a volte bisogna fare i conti non solo con la difficoltà di essere riconosciuti dall’esterno, ma anche con quella di riconoscersi.
Tra tutti i fili sapientemente intrecciati nella narrazione, quello della condivisa difficoltà di collocarsi nel mondo coloniale e postcoloniale rappresenta certamente il principale. Chi legge Il colore del nome se ne rende conto man mano che affronta il percorso insieme all’autore, man mano che entra nell’Eritrea occupata dagli italiani dall’Ottocento sino al secondo conflitto mondiale, e legge di quella parte di società coloniale di cui si parla di rado: quella delle persone afroitaliane, italoeritree in questo caso.
Se ne parla di rado, eppure è l’esempio più cristallino della essenza e allo stesso tempo delle contraddizioni del sistema coloniale. Dell’essenza, perché il colonialismo includeva sempre la possibilità per i colonizzatori, maschi, di avere relazioni sessuali con le donne locali. Il sistema di potere creato dal colonialismo non solo facilitava tali rapporti, che erano doppiamente diseguali perché sommavano la posizione di potere maschile con quella del colonizzatore, ma facilitava anche il loro scioglimento a piacimento dell’uomo. Lo fecero in tanti, al momento di tornare in Italia o anche prima, di non preoccuparsi delle donne e dei figli che si lasciavano dietro, in colonia; e lo fece anche Giacomo Longhi, che con Gabrù aveva generato due figli: Amedeo e, prima di lui, Vittorio, nato nel 1896, nonno dell’autore. Il primo a portare quel nome, in famiglia, e anche il primo italoeritreo tra i Longhi.
Ma gli italoeritrei sono anche il simbolo delle contraddizioni del colonialismo, perché una volta nati non erano incasellabili nella società coloniale così come era stata concepita. In un sistema pensato come dicotomico, dove i colonizzatori stanno da una parte e gli africani dall’altra; dove i primi avevano virtù e privilegi connessi a una presunta superiorità, che si basava sulla presunzione di una inferiorità altrettanto naturale dei secondi, quale era la loro posizione? Erano italiani, erano eritrei? Da che parte dovevano stare, che cosa dovevano essere? La rivendicazione degli afroeuropei di oggi, che afferma la possibilità di essere entrambe le cose, non era sostenibile nel mondo coloniale in cui invece le uniche identità previste sono lisce, semplici, inequivocabili. Gli italoeritrei non potevano essere entrambe le cose, dunque, e vivevano come se non fossero né l’una né l’altra.«Gran parte dei mulatti americani alla fine sapeva da che parte stare, sapeva di appartenere alla comunità nera», scrive Longhi, in uno dei passaggi più questo efficaci del suo lavoro. «I meticci delle colonie no, non hanno mai chiarito da che parte stare. Ancora se lo chiedono, forse. Come mio padre».
Il padre di Longhi scrittore, Pietro, in realtà una scelta in qualche modo la farà, decidendo di essere italiano e di esserlo nel modo che gli italiani avevano mostrato in colonia: sottraendosi alle sue responsabilità, optando per la menzogna, riproponendo nella sua vita il maschilismo che strutturava il mondo in cui era nato. E questo, la capacità di complicare ulteriormente le cose svincolando dal paradigma dell’afroitaliano esclusivamente vittima di un sistema, e ragionando invece da una prospettiva inedita sulle conseguenze del colonialismo a livello individuale, è un altro dei punti forti, potenti, de Il colore del nome.
Se gli italoeritrei dovevano fare i conti con una appartenenza incerta, chi non ebbe dubbi e li ricacciò forzatamente tra i colonizzati fu il fascismo, che dal 1940 impedì con una legge ad hoc che i padri italiani, anche se l’avessero voluto, potessero riconoscere i figli e trasmettere loro la cittadinanza. A prescindere da come ti senti, non sei italiano e non puoi esserlo. Non è, questo, un pezzo della storia familiare di Longhi, ma è un pezzo della storia di migliaia di italoafricani che nel dopoguerra hanno cercato di ottenere la cittadinanza, trovandosi di fronte ostacoli e complicazioni da parte dello Stato italiano. Che nel frattempo era diventato repubblicano. Non è un pezzo della sua storia familiare ma Longhi la racconta, inserendola in un unico percorso narrativo, perché una delle sfide riuscite del “colore del nome” è non postulare il legame che unisce il presente a un passato teoricamente chiuso da ormai oltre 70 anni; bensì mostrarlo nelle sue implicazioni pratiche, concrete. Una di queste è la lotta che in Eritrea, ancora nel 2022, oltre 300 persone di ascendenza italiana stanno combattendo per poter essere considerate (anche) cittadine italiane.
Di fronte a loro non lo Stato liberale di giolittiana memoria, non il regime fascista, ma la Repubblica italiana: il paese in cui Longhi, classe 1973, è cresciuto sentendosi paragonare a Sidney Poitier, il protagonista di Indovina chi viene a cena? (Stanley Kramer, 1967); e il paese dove persone eritree muoiono in mare o e persone africane vengono lasciate giorni e settimane su una nave, perché per chi sta sulla sponda nord del Mediterraneo sono irriducibilmente “altro da sé”. Il problema delle identità concepite come granitiche, definite da una serie di caratteristiche immutabili – a partire dal colore della pelle – non riguarda infatti solo il periodo coloniale, non riguarda solo chi ha una storia familiare direttamente attraversata dal colonialismo, ma riguarda il modo stesso con cui si sono formate e con cui si percepiscono e di conseguenza agiscono le società europee attuali.
Resti coloniali nell’Italia repubblicana. Una via di Ozieri (Sassari). Fotografia di Luca Peretti
Eppure Il colore del nome non parla soltanto di ingiustizie, di ferite, di violenze. Parla anche di coraggio, di orgoglio, e di amore. Se il colonialismo è “per maschi”, come titolava un libro di Giulietta Stefani di 15 anni fa, in cui mostrava come il progetto espansionista fosse imperniato sulla virilità; e se il patriarcato è la cifra anche della società italiana, nel memoir di Longhi le donne sono la parte resistente. Sua bisnonna Gabrù, madre del primo Vittorio Longhi ottocentesco; sua nonna Maria, madre di Pietro; a sua madre Loretta: sono loro che, in un mondo razzista e maschilista, si assumono la responsabilità di non soccombere e non far soccombere i propri figli, sono loro che non svincolano dalle responsabilità, sono loro a prendere decisioni, spesso scomode.
Le storie, scrivevano molti anni fa i Wu Ming, sono asce di guerra da disseppellire. Il colore del nome fa proprio questo: racconta storie che sono asce, da brandire per fare spazio e luce nell’Europa e nell’Italia di oggi. Un’Italia in cui il dibattito pubblico sul colonialismo si avvita ciclicamente su Montanelli e sulla “normalità” del madamato, il dibattito politico sulla cittadinanza riappare solo in occasione delle Olimpiadi, mentre quello sulle migrazioni non conosce alcun cambio di paradigma da oltre venti anni.
In copertina: Vittorio Longhi ad Asmara. Sullo sfondo, il cinema impero.