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MONDO

Idlib, la crisi umanitaria e i confini

Nel nord della Siria e nella parte orientale della Turchia, Recep Tayyp Erdoğan sta mettendo in atto una strategia di controllo e modifica dei confini. A discapito, ovviamente, delle dignità e libertà dei curdi e delle altre popolazioni sul territorio.

Era la fine della prima guerra mondiale quando, nel 1916 con l’avvio dei trattati di pace Sykes-Picot, le potenze europee vincitrici (Regno Unito e Francia), dopo la sconfitta dell’impero Ottomano, stabilivano le proprie aree di influenza e tracciavano i confini dei futuri Stati Nazione in questa area geografica. Successivamente, nell’agosto del 1920, si interveniva nuovamente nella ridefinizione delle frontiere siglando il Trattato di Sèvres con il quale si riconosceva l’indipendenza dell’Armenia e la creazione di uno Stato Curdo. Accordo che venne velocemente rimpiazzato dal definitivo Trattato di Losanna nel 1923, il quale sanciva la nascita della Repubblica di Turchia, annullava quanto stabilito dalle convenzioni precedenti e decretava in modo risolutivo le nuove pretese e il riconoscimento dei giovani turchi nella scena regionale e internazionale.

Oggi, la guerra in Siria e le mobilitazioni che stanno nuovamente attraversando il Medioriente, ci parlano di una crisi della forma Stato-Nazione e del declino della loro sovranità nella regione. Ne deriva una messa in discussione dei confini. La vera incognita è capire come verranno modificate le frontiere e dove andrà a finire la sovranità.

A quasi 100 anni di distanza dal Trattato di Losanna infatti la Turchia, approfittando della debolezza dello storico rivale siriano Assad e della criminalizzazione nei confronti del popolo curdo (tanto in Turchia quanto in Siria), prova a rideterminare e ad allargare i propri confini.

Oltre all’avanzata di Bashar al-Assad continuano gli attacchi, i diversi posizionamenti ed i bombardamenti nelle postazioni sul fronte in particolar modo nel governatorato di Idlib, nei pressi di Aleppo, divenuto il nuovo punto strategico da conquistare. Russia, Siria e Turchia per la prima volta dall’inizio del conflitto si stanno sfidando apertamente.

L’esercito turco non solo “reclama una paternità” di questi territori, ma si erge altresì a garante delle forze salafite di Hay’at Tahrir al-Sham presenti nel territorio (formazione meglio conosciuta come al Qaeda in Siria) e altre formazioni jihadiste.

Osservando gli avvenimenti degli ultimi anni emerge una strategia ben pianificata: Recep Tayyip Erdoğan, attuale Presidente della Turchia, “agendo” i confini, è stato capace di delineare nuove traiettorie migratorie, ribaltare i rapporti di forza, esasperare la crisi umanitaria (prima lungo le coste greche e la rotta balcanica, ora lungo il confine turco-siriano), e imporre nuove politiche agli Stati europei, oggi tutti su una posizione difensiva.

L’operazione di esternalizzazione delle frontiere promossa dalla “Fortezza Europa” si è rivelata inefficace (se si pensa alla gestione dei rifugiati) e controproducente (se si pensa alla retorica nazionalista e anti-migranti) determinando un progressivo e inesorabile sgretolamento di quei principi e diritti fondamentali di dignità, umanità e accoglienza su cui l’Europa ha costruito le proprie fondamenta.

LA TURCHIA tra CONFINI e POLITICA INTERNA/ e la POLITICA INTERNA dei CONFINI

Prima di entrare nel merito è necessario premettere alcuni elementi: nel corso degli ultimi anni la Turchia non solo ha avuto alle porte una delle guerre più violente e lunghe della storia recente, per l’appunto nella vicina Siria (al momento si parla di 3.670.000 profughi, numeri sicuramente in aumento), ma tra il 2015 ed il 2017, dopo la recessione unilaterale dal Processo di Pace tra Turchia e PKK (Partito dei Lavoratori Kurdi) da parte di Erdoğan, c’è stato un conflitto armato all’interno della stessa regione anatolica che ha visto la regione del sud est, a maggioranza curda, essere protagonista di vere e proprie operazioni belliche. In base alle informazioni pervenute dall’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa le persone che sono state colpite dal coprifuoco sono circa 1,6 milioni e si è accertata la presenza di almeno 355.000 rifugiati interni. La distruzione massiccia di queste aree e l’inondazione dei rifugiati siriani ha di fatto prodotto una crisi in questo territorio.

A ciò bisogna aggiungere le politiche migratorie relative alla gestione interna che si sono sviluppate nel corso di questi anni: gestione dell’emergenza tramite la costruzione dei campi di detenzione, nuovi investimenti e speculazione sulla ricostruzione, sfruttamento dei nuovi migranti con modalità di lavoro schiavizzanti e traffico di esseri umani gestito dalle mafie locali.

Il controverso accordo sui rifugiati UE-Turchia del 2016, infatti, se inizialmente, grazie all’aiuto di finanziamenti dell’UE, ampliava il patrimonio di detenzione nella penisola anatolica, successivamente ha portato a un aumento delle detenzioni e delle espulsioni sommarie di rifugiati e richiedenti asilo.

Numerosi osservatori hanno riferito delle orribili condizioni in molti centri di detenzione turchi, oltre al persistente sovraffollamento, alla mancanza di cure mediche e al mancato accesso dei detenuti all’assistenza legale. I decreti di emergenza a seguito del fallito tentativo di colpo di stato del luglio 2016, alcuni dei quali codificati in legge, limitano fortemente i diritti dei non cittadini, tra cui la limitazione del ricorso legale per gli abusi commessi in detenzione. Come se non bastasse, il decreto presidenziale n. 686 autorizza le autorità di derogare agli obblighi di non refoulement, consentendo la deportazione dei richiedenti asilo in Paesi non sicuri (compresi Afghanistan e Siria) durante le loro procedure di asilo. Le autorità turche affermano che le aree della Siria settentrionale sono sicure e in questo modo hanno costretto migliaia di rifugiati siriani a firmare “documenti di rimpatrio volontario” prima di essere espulsi. Nel luglio 2019 le autorità hanno annunciato un giro di vite contro i siriani non registrati e i lavoratori informali a Istanbul e ne hanno espulso un gran numero oltre il confine.

LE FRONTIERE E LA LORO TRASFORMAZIONE

All’interno di tale contesto i confini e le frontiere hanno assunto nel corso degli anni diverse e inconsuete funzioni: se da un lato inizialmente risultavano porosi e penetrabili all’attraversamento dei jihadisti che raggiungevano l’ISIS per arruolarsi (diversi giornalisti turchi sono stati arrestati per aver raccontato quanto accadeva), dall’altro i medesimi confini venivano chiusi e resi impermeabili al passaggio di attivisti che accorrevano in solidarietà della battaglia di Kobanê e per la difesa del Rojava.

Contemporaneamente gli stessi gates venivano aperti a intermittenza per garantire il transito ai profughi che scappavano dalla guerra in corso (non di rado i rifugiati venivano costretti ad aspettare giorni senza cibo né acqua prima di poter attraversare la frontiera turca), mentre si spalancavano completamente assicurando il passaggio per il traffico di petrolio e armi.

Frontiere che oggi si sono cristallizzate nella costruzione di un muro che, lungo 764 chilometri e composto da moduli alti tre metri e larghi due con uno strato di filo spinato, perimetra i confini tra Turchia e Siria.

CONFINI, CRISI UMANITARIA E OPERAZIONE DI INGEGNERIA SOCIALE

Nel frattempo, la tregua mediata tra Erdoğan e Putin a Sochi lo scorso ottobre, con la quale si è stabilita una “safe zone” larga 30 Km e lunga 440 Km, garantisce alla Turchia l’utilizzo di questa porzione di territorio come luogo catalizzatore all’interno del quale convogliare donne, bambini e uomini che scappano dal conflitto in corso, avviato proprio dall’esercito turco, nell’ area di Idlib.

Il 9 ottobre 2019 infatti, la Turchia dava il via alla seconda campagna di occupazione e di conquista dei territori siriani. Violando qualunque tipo di principi derivanti dal diritto internazionale umanitario, la Turchia ha dapprima occupato i territori facenti parte del cantone di Efrin (cantone nel Nord Est della Siria – Rojava – a seguito della campagna di occupazione avviata con l’operazione “Ramoscello d’Ulivo” nel gennaio 2018) per concentrarsi, più recentemente, sul governatorato di Idlib. Continuano ad arrivare testimonianze che raccontano di come l’esercito turco abbia iniziato a imporre l’utilizzo della lingua turca nelle scuole, a discapito sia del curdo che dell’arabo, e di come alcune abitazioni, svuotatesi a seguito dell’operazione di invasione, vengano sistematicamente riempite da arabi sunniti.

In questo modo i rifugiati vengono strumentalizzati e diventano l’ingrediente di una politica volta a ridisegnare un’architettura demografica del territorio, espellendo de facto le comunità autoctone per far insediare quelle più simili o imponendo un’assimilazione forzata a chi è scappato durante la guerra e non sa dove andare.

Nel silenzio più assordante che diventa una approvazione de facto, l’Unione Europea si rende complice e contribuisce a determinare, pur di non vedere arrivare i profughi sulle proprie coste, una forma di pulizia etnica del territorio, che è un crimine contro l’umanità.

E la crisi umanitaria, sempre più esasperata dagli attori in campo, vede al momento circa 900.000 persone in fuga dallo scontro tra le milizie di Assad e l’esercito turco. A discapito di donne, uomini e soprattutto bambini continuano i giochi di egemonia delle potenze regionali e globali.

La Turchia, invece di subire i confini, con una politica tattica e allo stesso tempo strategica è riuscita a capovolgere i rapporti di forza a proprio vantaggio: da un lato ponendo sotto scacco l’Europa, alla quale continua a chiedere sempre più fondi e finanziamenti minacciando la riapertura della rotta balcanica e promettendo il contenimento dei profughi tra Siria e Turchia e dall’altro avanzando nella conquista di nuovi e ulteriori aree geografiche nelle province curde e siriane. Ed ecco come confini, guerra, rifugiati, operazioni di sfollamento e ripopolamento diventano dispositivi per compiere operazioni di conquista e di ingegneria sociale e demografica del territorio.

L’Unione Europea, e tutti noi di riflesso, facciamo parte purtroppo di un gioco all’interno del quale i soldi utilizzati per sovvenzionare gli accordi UE-Turchia vanno a finanziare gli stessi carnefici che producono questa violenza.

Le immagini e i racconti che ci arrivano tramite i media mainstream, dalla piccola Iman morta a causa del freddo alla ricerca di un ospedale ad Afrin, a Selva che trova il modo di giocare sotto i bombardamenti, al piccolo Alan Kurdi annegato mentre cercava di raggiungere le coste della Grecia, sono solo alcune delle storie di ordinaria follia.

Se da un lato, tramite il racconto di queste storie, aumentano il senso immediato di urgenza, la consapevolezza dell’orrore della guerra ma anche la spettacolarizzazione della sofferenza, dall’altro lato assistiamo ad una narrazione tossica che continua a disumanizzare i rifugiati che arrivano sulle nostre coste e a criminalizzare la solidarietà di chi cerca di aiutarli. Un processo di stigmatizzazione che alimenta una percezione della sicurezza che viene alterata e legata alle politiche sociali delle diverse fazioni politiche, spostando l’attenzione ed esulando da quella che dovrebbe essere la priorità, ossia salvare vite umane.

I CONFINI E LA BATTAGLIA PER LE RISORSE ENERGETICHE

La caccia al tesoro alle risorse energetiche non solo si intreccia con questo scenario, ma è una delle cause che spinge la politica espansionistica della Turchia.

Le risorse terrestri nel nord est della Siria con i pozzi di petrolio, i giacimenti di gas nel mediterraneo orientale e la costruzione del più grande approvvigionamento di acqua nel Medioriente tramite la costruzione di 11 dighe nel sud-est dell’Anatolia sono le traiettorie sulle quali Erdoğan si sta muovendo.

Il recente memorandum firmato tra Ankara e la Tripoli di al-Sarraj apre in prospettiva nuovi scenari: le mire della Turchia si affacciano così ufficialmente sul Mediterraneo orientale; al momento si limitano a intervenire “solo” per accaparrarsi una fetta del mercato relativo alle risorse energetiche ed ai giacimenti di gas. Contemporaneamente però, il Sultano si insinua nell’area del paese nord-africano intervenendo in termini strategico-militari tramite l’invio di droni, veicoli, attrezzature, fornitura di armi e truppe, compresi jihadisti legati alle brigate di al-Qaeda. In questo contesto la connotazione ideologico-religiosa non è assolutamente da trascurare. L’appoggio a formazioni afferenti la componente salafita, così come alla Fratellanza Musulmana nella regione e il rinascente orgoglio ottomano diventano ingredienti sostanziali delle ambizioni turche, andando ad alimentare sogni di vecchi imperi che si intrecciano a nuove forme di assolutismo.

Nel corso degli ultimi anni i confini ci sono stati raccontati come qualcosa da difendere a tutti i costi, ma quello che la storia ci racconta è che i confini sono i limiti dei popoli e l’unica cosa da difendere è l’umanità, tutta. E non per una semplice questione di solidarietà, ma per un amore comunitario basato sul principio di coesione, dignità e libertà. Amore come strumento di resistenza a chi ci vuole indifferenti, individualisti e soli.