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MONDO
I selvaggi e la città. Sul complesso di Pruitt-Igoe e lo “spazio difendibile”
Le disuguaglianze economiche come problema di design: in che modo sopravvive la narrazione neoliberista del fallimento dell’edilizia residenziale pubblica. Il paradigma di Pruitt-Igoe segna una concezione dello sviluppo urbano che identifica sicurezza e proprietà privata. Qualcosa di molto simile a quanto succede oggi
Quella del complesso di Pruitt-Igoe è una storia dalla notevole valenza ideologica, perché molti dei protagonisti della vicenda (e delle narrazioni che ne sono state realizzate) fanno capolino anche nell’odierna trama neoliberista e securitaria della città. La classe degli incorreggibili, quella dei tecnici solo apparentemente depoliticizzati, il sistema dei servizi come prova a carico dei più disgraziati: a Pruitt-Igoe parve quasi che si fossero potuti dare un appuntamento storico.
Realizzato tra il 1954 e il 1955, il complesso avrebbe dovuto risolvere i problemi dei neri che al termine della Seconda Guerra Mondiale si erano trasferiti in massa a St Louis dalle campagne del Sud, concentrandosi nelle immediate vicinanze del distretto finanziario.
O per meglio dire: una certa rappresentazione dei loro problemi, dal momento che che nello stesso periodo la produzione industriale della città stava crollando a picco e 11.000 lavoratori del manifatturiero avrebbero perso il lavoro. Come ha scritto qualcuno, dunque, sarebbe stato più saggio considerare che “le politiche di renewal non hanno mai risolto il problema del salario”, ma ciò nonostante, affidandosi all’Housing Act del 1949, il governo federale finanziò la costruzione dei nuovi palazzi e confidò nelle rate d’affitto per sostenerne in seguito le spese di manutenzione.
L’impresa di renewal, oltretutto, non avrebbe riguardato soltanto la città fisica ma pure quella spirituale, come dimostrava la scelta di attrezzare gli edifici con un particolare modello di ascensori (detti skip-stop) che si fermavano soltanto al quarto, al settimo e al decimo piano, volendo favorire in questo modo una socialità più ampia rispetto a quella del singolo pianerottolo. Allo stesso scopo venne destinato un sistema di gallerie interne e di spazi comuni che presto, però, proprio come gli ascensori skip-stop, si tramutarono in una formidabile ambientazione per le attività non sempre ricreative delle gang.
Non sono ancora trascorsi due anni dal completamento delle strutture, che il tasso di disoccupazione tra i 13.000 residenti sale al 91%, finché verso la fine degli anni Sessanta i trentatré palazzi non risultano quasi del tutto abbandonati. La demolizione del primo edificio avviene il 13 luglio 1972 e nell’estate dell’anno successivo ci si risolve a far esplodere l’intero complesso.
Probabilmente la transizione al postfordismo sta rendendo anacronistiche le “conigliere” di manovalanza che a detta di Jack London, Lewis Mumford ed Edward Thompson avevano caratterizzato lo sviluppo caotico della città industriale, ma l’impressione che ne ricava Charles Jencks è piuttosto quella di un grandioso boato che a Pruitt-Igoe avrebbe fatto definitivamente a pezzi le pretese “illuministe” del progetto moderno.
Il complesso, scriverà nel 1977, “era stato precedentemente vandalizzato, mutilato e deturpato dai suoi abitanti neri e sebbene fossero stati spesi milioni di dollari per mantenerlo in vita (riparando gli ascensori guasti, sostituendo le finestre rotte e ritinteggiando i muri) aveva finalmente smesso di soffrire”.
Sotto le macerie, così, finiva l’idea che l’architettura potesse contribuire alla formazione di “buone condotte”, che a voler essere precisi restituisce una versione molto parziale dell’illuminismo, sicuramente contigua all’installazione degli ascensori skip-stop ma del tutto slegata da qualunque istanza di emancipazione e di eguaglianza. E il fallimento di Pruitt-Igoe non andava quindi associato alla legge che una volta soddisfatti gli interessi di landlord e costruttori abbandonava gli edifici alla loro sorte, né tanto meno a un tasso di occupazione inferiore al 10%.
Che poi quelle condizioni si fossero create in corrispondenza di una violenta commistione di fattori economici e razziali non importava: la colpa era tutta degli architetti e degli urbanisti che si erano voluti impicciare dei problemi del mondo.
Di un certo mondo, a dire il vero, dal momento che il 1972 è anche l’anno in cui viene pubblicato Defensible Space di Oscar Newman, il testo con il quale si fa strada il principio che se anche il design non potrà più contribuire al miglioramento delle condizioni di vita dei soggetti più marginali, avrà pur sempre un ruolo nella prevenzione della loro incredibile tendenza a delinquere. Anzi, la definizione di “spazio difendibile” si basa proprio sul presupposto che a determinate categorie sociali corrispondano rinomati problemi di comportamento che il progettista, data la naturale propensione al degrado dei beni sprovvisti di un proprietario, deve saper divinare.
Nel 1996, quando torna a riflettere sul caso che considera ancora paradigmatico di Pruitt-Igoe, Newman lo sostiene in modo ancor più chiaro e distinto: “Poiché tutti i terreni erano comuni e separati dalle unità abitative, non indussero i residenti all’identificazione”. E così le scale, i lunghi corridoi, le lavanderie, gli ascensori, il piano terra: è in quanto spazi comuni che divengono terra di nessuno.
Se ne potrebbe dedurre che a supportare le ragioni di Defensible Space sia ancora il principio molto equivoco di terra nullius, da sempre correlato a un genere di conseguenze che il diritto romano aveva reso con il termine occupatio: un’occupazione addirittura opportuna, secondo John Locke e la dottrina liberale del governo, quando gli abitanti di certe terre desolate non se ne sono impadroniti per mezzo del denaro.
L’abitante non proprietario di Newman viene da lontano, insomma, anche perché come si evidenzia nelle frequenti confische dei territori coloniali in cui fino al giorno prima vivevano le popolazioni nomadi o seminomadi, quella di terra nullius è molto più una pratica consuetudinaria che una base giuridica, l’esercizio di un espediente retorico che sia pure attraverso una serie di slittamenti sopravvivrà alla decolonizzazione in forma di governace dei processi postcoloniali e di supporto operativo alle strategie di gentrificazione.
In ogni caso, che lo spazio venga prodotto alla maniera dei defensible space o alla maniera di Jencks, la città fisica non potrà più inventarsi nulla nel tentativo di mitigare le diseguaglianze, che al limite si candida a rendere più inoffensive o esteticamente “soddisfacenti”.
All’ombra del contrasto al degrado e al modernismo, così, il presupposto che le nuove tendenze sembrano davvero pensionare si direbbe quello formulato dalla Carta di Atene nel passaggio in cui diceva: “La violenza degli interessi privati determina una disastrosa rottura dell’equilibrio tra la pressione delle forze economiche da un lato e la debolezza del controllo amministrativo unita all’impotenza della solidarietà sociale dall’altro”.
Ed è anche al pensionamento dell’urbanistica che poneva questo genere di grattacapi – sostengono Katherine G. Bristol in un importante articolo del 1991 e il documentario che Chad Freidrichs ha dedicato alla storia del complesso venti anni dopo – che Pruitt-Igoe ha fornito e forse continua a fornire un mito di fondazione.
Eppure, l’idea che a generare il degrado in rapporto a uno specifico ambiente sociale sia la progettazione di spazi troppo comuni rimane ancorata a un determinismo socio-spaziale che non rinuncia affatto alle ambizioni dell’architettura, ma le converte al dispiegamento di una nuova strategia di classe. Nel caso esemplare degli ascensori skip-stop, il cui acquisto tradisce effettivamente una discreta dose di paternalismo, sarà pertanto necessario riconoscere che non avrebbero patito soltanto i danni causati da Le Corbusier, ma pure la frequenza con la quale a metà degli anni Sessanta potevano rimanere bloccati per più di tre settimane.
All’interno del complesso si determina subito un’emergenza in rapporto ai comportamenti di adolescenti e bambini “selvaggi” che vagano per i corridoi, pattinano nelle gallerie, ballano sotto gli edifici, offendono i passanti e imbrattano i muri, ma dove Newman avrebbe potuto ravvisare la tossicità di un ambiente non proprietario, bisognerà riconoscere la debolezza di un progetto (e non la sua pretesa dismisura) che non aveva quasi previsto aree ricreative o spazi destinati alle pratiche di questi gruppi di individui.
Ed è sempre un difetto piuttosto che un eccesso di progettazione dello spazio condiviso a tradursi nel numero risibile di panchine dislocate nelle adiacenze dei palazzi, dove i residenti presero l’abitudine di portare le seggiole da casa.
L’impostura delle presunte correlazioni tra proprietà e sicurezza, infine, può emergere in tutta chiarezza se oltre alle condizioni di classe e di razza che si intrecciarono nella realtà quotidiana di Pruitt-Igoe, attribuiamo la giusta importanza alla posizione in cui si vennero a trovare le abitanti del complesso. Nel 1966, il 62,4% dei nuclei famigliari è guidato da donne: sono loro a servirsi più frequentemente degli ascensori, sempre loro a utilizzare le lavanderie che nel frattempo si sono trasformare in un bivacco di alcolizzati.
Da un lato, i figli dichiarano di non volerle più stare a sentire perché nella loro vita hanno combinato soltanto dei casini, dall’altro le cosiddette “Man in the House Rules”, in quanto beneficiarie degli aiuti per i minori a carico, impediscono alle residenti di fare entrare uomini in casa, dal momento che vengono percepite e trattate come irresponsabili che rischierebbero di rimanere continuamente incinte: il marchio che l’amministrazione di Pruitt-Igoe impone loro è quello dell’immoralità e dell’apatia.
Oggi sarebbe urgente constatare la vigenza di questo stesso marchio nei luoghi deputati al transito istituzionale delle migranti e comprendere quale rapporto intrattiene con il “determinismo endogeno” che le tecnologie di governo attribuiscono più o meno implicitamente alla sofferenza femminile.
Un caso solo esemplare lo forniscono a questo riguardo i regolamenti che negli stessi anni di Pruitt-Igoe vengono adottati nei ricoveri per i senzatetto delle città inglesi. Per quanto le case di correzione istituite da una legge del 1601 siano state abolite nel 1948, infatti, le disposizioni amministrative del 1965 continuano a ereditarne il sadismo.
Presso il ricovero King Hill, dunque, i mariti possono visitare le mogli soltanto nelle ore diurne del fine settimana, mentre nei ricoveri di Birmingham le loro visite sono ammesse tra le 19 e le 20 dei giorni feriali. Visite in una sala comune, s’intende, perché se queste donne vivono dell’assistenza pubblica lo devono fondamentalmente alla loro incapacità di gestire un rapporto con i mariti e con i figli che le strutture provvedono a correggere, senza nemmeno dissimulare il sistematico ricorso all’accusa di immoralità, come accade sempre a Birmingham dove la regola numero otto dei ricoveri stabilisce che “i bambini devono andare a letto a un’ora adeguata alla loro età, cioè entro le 20.00 fino ai 10 anni”.
E così anche i servizi municipali di St Louis sottopongono gli alloggi a un monitoraggio permanente, visite periodiche e liturgie della sorveglianza che introducono nella dimensione domestica gli usi di uno spazio pubblico in cui le autorità vanno e vengono a regolare le vite.
Ma è proprio in corrispondenza di questo annullamento del privato che le relazioni tra le abitanti riescono a generare una terza pratica dei luoghi denominata “Operation Brightside”, ritrovandosi ogni sabato dell’anno a ripulire i piani degli edifici e un vicino parco giochi, i corridoi e le trombe delle scale.
Che la loro cooperazione si debba determinare sempre nella sfera riproduttiva di un lavoro domestico esteso al quartiere e non pagato rimane emblematico, ma nello stesso tempo evidenzia come la dimensione non proprietaria del comune, anche a Pruitt-Igoe, finì col costituire l’unica forma di resistenza dentro le gerarchie sociali, razziali e di genere alle quali avrebbe potuto rinviare un bilancio meno ideologico delle ragioni che fecero fallire il progetto.
Tutte le foto sono dei fermo immagine da The Pruitt-Igoe Myth