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ITALIA
I martiri non muoiono mai. Il ricordo di Lorenzo Orsetti
Come ogni anno, il 16 marzo scorso, a Firenze si è dedicata una giornata di iniziative alla memoria di Lorenzo Orsetti, il combattente antifascista caduto il 18 marzo 2019 a Baghuz, in Siria, mentre difendeva la rivoluzione del Rojava. Attraverso un’intervista al padre Alessandro ripercorriamo il significato dell’impegno di Lorenzo per un mondo più libero, giusto e solidale
A sei anni dalla sua scomparsa, il nome di Lorenzo Orsetti, conosciuto in battaglia come Tekoşer Piling, continua a intrecciarsi con le rivendicazioni di chi prosegue con tenacia nella resistenza contro ogni forma di oppressione, incarnando i principi e gli ideali della rivoluzione del Rojava. Figura emblematica della resistenza dei nostri tempi, il suo ricordo non si limita a chi lo ha conosciuto personalmente, ma si estende a una comunità più ampia, che continua a tradurre la sua eredità in azioni concrete: dall’impegno politico alla solidarietà internazionale, dalla difesa dei territori liberati alla costruzione di nuovi spazi di autodeterminazione e dignità collettiva. In questa prospettiva, la giornata commemorativa del 16 marzo ha riunito tanto coloro che gli sono stati accanto e che hanno condiviso il suo impegno, quanto chi ancora continua a preservarne la memoria e a riaffermarne i valori rivoluzionari e internazionalisti.
La giornata si è aperta con un pranzo sociale alla Casa del Popolo Le Panche – Il Campino, dove numerose persone si sono ritrovate in un clima di condivisione e di memorie. Un momento informale ma denso di significato, in cui il ricordo di Lorenzo si è intrecciato ai racconti di chi ha condiviso con lui ideali e percorsi. Nel pomeriggio, le note dei canti di lotta del collettivo Le Canaglie Pezzenti hanno attraversato la sala, trasformando la commemorazione in un omaggio musicale alla resistenza e all’impegno internazionalista che ha segnato la vita di Lorenzo.
La giornata si è conclusa con le testimonianze dal Nord-Est della Siria. Giornaliste e attiviste di ritorno da quei territori hanno offerto uno sguardo sulla realtà attuale del Rojava, sulle tensioni in corso e sulle sfide che la rivoluzione continua ad affrontare. In collegamento diretto dalla Siria, alcune compagne hanno raccontato la vita quotidiana sul campo, ricordando il contributo di Lorenzo e di chi, come lui, ha scelto di mettersi in gioco per un progetto di libertà e autodeterminazione, incarnato nei principi del Confederalismo Democratico, dell’autogoverno, dell’ecologia sociale e della liberazione di genere.
Il racconto di Alessandro
Al termine della commemorazione, chiedo ad Alessandro Orsetti, padre di Lorenzo, se abbia voglia di scambiare qualche parola con noi. Accetta senza esitazione. Da anni porta avanti la memoria di Lorenzo, raccontandone la storia nelle scuole, nei centri sociali, nelle piazze, affinché non resti un semplice ricordo, ma diventi patrimonio collettivo, occasione di riflessione e azione. Ci spostiamo in una saletta intitolata ad Abdullah Öcalan, leader storico del movimento curdo: è uno spazio raccolto, con le pareti tappezzate di manifesti e bandiere curde. Alessandro si accomoda su una sedia di legno, si sistema la keffiah con i colori del Rojava avvolta attorno al collo. Sorride leggermente, quasi a stemperare la solennità del momento. Poi, con voce ferma, rompe il silenzio: «Dimmi, che vuoi sapere?» Ricambio il sorriso e cominciamo a parlare della giornata appena trascorsa.
«Una giornata stupenda», risponde. Ci pensa un attimo, poi ripete con convinzione: «Stupenda, davvero. Molti giovani, molte persone da tante realtà diverse. Mi fa sperare che questa giornata sia un seme, un nutrimento per le lotte future. Ognuno porta la sua storia, ma condividere ci rende più ricchi, più attivi».
Gli chiedo cosa, secondo lui, sia rimasto di Lorenzo, quale traccia abbia lasciato in Italia, nella comunità curda e tra le nuove generazioni. Alessandro si prende un momento, osserva un punto indefinito della stanza, poi ricomincia a parlare con tono pacato ma deciso:
«L’eredità di Lorenzo è molto semplice. Era un ragazzo come tanti, non un militante di lungo corso, né qualcuno con un percorso politico già definito. Lavorava, conduceva una vita comune, scandita dalla quotidianità. Ma quella quotidianità gli stava stretta, non lo soddisfaceva, non lo faceva sentire davvero bene».
Si ferma un attimo, poi riprende: «Penso che qui in Italia abbia lasciato l’idea che si possa uscire da questa condizione, che la fuga non debba necessariamente passare per la rassegnazione, il nichilismo o l’individualismo. Esiste un’altra via: quella di sposare una causa, dare un senso alla propria esistenza, dedicarla a un ideale più grande. Credo che questo si senta profondamente. E il fatto che sia morto dà ancora più forza a questa idea, dimostra che un percorso del genere è reale, che si può compiere. Questo è il primo passaggio. L’altro è che Lorenzo ha indicato un luogo preciso, un orizzonte concreto dove cercare risposte.
Ha rivolto lo sguardo al Nord-Est della Siria, ha fatto riferimento a un pensiero, al Confederalismo Democratico. Ha indicato un popolo, un’esperienza reale, non semplici parole o utopie irraggiungibili. Ha indicato una strada percorribile
E infine, l’ultimo lascito riguarda la memoria. L’idea stessa del martirio e del ricordo dovrebbe suggerire un percorso da seguire. Fare memoria di Lorenzo non significa soltanto commemorarlo, ma riconoscere che il suo esempio può diventare un cammino per altri. In fondo, l’eredità più profonda che ci lascia è la possibilità concreta che qualcuno, qui, possa scegliere di lottare per quello per cui si è battuto lui».

Dopo una breve pausa, Alessandro continua: «Ecco, da questo punto di vista, arriviamo all’ultima parte della tua domanda: cosa lascia al Rojava? Credo che lì abbiano percepito ancora di più che la loro lotta non sia solo “la loro”. Hanno capito che c’è qualcuno disposto a combattere al loro fianco. In questi lunghi anni di dolore, sofferenza e fatica, il popolo curdo ha potuto sentire di non essere solo. Qualcuno può scendere in campo con loro, restare fino alla fine, come fosse un figlio, un fratello, una sorella. Questo significa molto. Anche perché Lorenzo non è andato lì per poco tempo, per fare una visita o per osservare da spettatore. Aveva deciso che sarebbe rimasto, finché quel percorso non fosse terminato. È diverso da chi, come occidentale, può andare, guardare, fare esperienza e poi tornare alla propria quotidianità più o meno gratificante. No, Lorenzo ha fatto come loro. Perché loro non possono uscire da quella realtà. Sono obbligati a difenderla, vogliono difenderla, sino alla fine».
Dopo, gli domando in che misura le istituzioni abbiano preservato la memoria di Lorenzo e quale sia lo stato delle promesse di commemorazione, tra cui l’intitolazione di una strada a Firenze. La sua risposta è diretta e senza esitazioni:
«Partiamo dal presupposto che a Lorenzo, probabilmente, di queste cose non sarebbe importato nulla», ammette Alessandro. «Credo, invece, che servano a Firenze. Ognuno di noi si rifà a figure che entrano nella storia collettiva. Una via, una lapide, sono segni che restano, che diventano parte della memoria di una comunità».
Si ferma un attimo, cerca le parole giuste, poi in un’esplosione esclama: «Ma Lorenzo strideva troppo con questa città. Fin dall’inizio aveva scelto la lotta armata e questo non piaceva a tutti. Criticava radicalmente il sistema, chiedeva solidarietà a certe realtà scomode. E Firenze, politicamente, economicamente, diplomaticamente, non poteva permetterselo. La Turchia è un partner strategico, forte. E chi ha il coraggio di rompere certi equilibri?»
Alessandro prosegue con uno slancio positivo «All’inizio c’era l’idea di una strada, di una targa. Poi c’è stata opposizione. Ora però qualcosa si muove: un consigliere comunale mi ha detto che stanno riaprendo il percorso, sia per la cittadinanza onoraria a Öcalan, sia per l’intitolazione a Lorenzo. Ma è chiaro che è un gesto simbolico. Bello, certo, ma Lorenzo era lontano da queste logiche. Dall’altro lato Firenze sembra allontanarsi sempre più dai valori per cui ha lottato. È diventata una città per ricchi, dominata dal turismo d’élite e dalla gentrificazione. Lui lo aveva capito bene. E aveva ragione».
Un’eredità che interroga il presente
Di fronte al riemergere dei fascismi e a uno scenario politico che riecheggia il passato, l’esempio di Lorenzo appare oggi più che mai un punto di riferimento per le nuove generazioni. Sono soprattutto i più giovani a riconoscersi nella sua storia, trovando in essa un modello di determinazione e resistenza.
«Io continuo a girare tutta l’Italia per raccontarlo», dice Alessandro. «Vado nelle scuole, partecipo a dibattiti, presento i film su di lui, incontro ragazzi e ragazze che vogliono capire chi era Lorenzo e cosa lo ha spinto a fare quella scelta». Si ferma un attimo, riflette. «Sì, la sua figura è sentita, fortemente. È sentita per la sua storia di partigiano, per quello che ha rappresentato. Ma credo che serva anche uno sforzo in più: andare oltre l’emozione, oltre il semplice tributo. Bisogna cominciare a chiedersi: di che cosa parlava davvero Lorenzo? Qual era il senso della sua scelta? È vero, il fatto che abbia dato la vita per una causa è già qualcosa di straordinario. È un gesto che colpisce, che scuote. Ma il punto non è solo il sacrificio. È capire quale fosse quella causa, quali idee l’abbiano guidato, e soprattutto cosa significhino oggi per chi rimane».
Prosegue, con il tono di chi ha ripetuto questa esperienza centinaia di volte, eppure comprende il valore profondo di continuare a raccontarla.
«Spesso vado in posti dove nessuno sa nemmeno dove sia il Rojava, cosa sia il Kurdistan, chi siano le persone di cui sto parlando. Lo percepiscono come qualcosa di lontano, quasi astratto.
Io dico sempre che Lorenzo ha creato un filo tra la nostra città, il nostro Paese e quella realtà. L’ha avvicinata al nostro quotidiano. Andando lì, è come se avesse portato con sé tutti noi, ci ha fatto vivere quell’esperienza e poi ce l’ha restituita
Uso spesso questa immagine, ma ogni volta devo tirare fuori le carte geografiche, perché molti non sanno nemmeno dove si trovino la Siria o il Kurdistan». Sorride, si sofferma un attimo, poi allarga il discorso:
«E poi c’è la questione del flusso dell’informazione. Un anno fa, dei palestinesi non parlava più nessuno, ora la questione è tornata centrale. Lo stesso vale per il Rojava: fino a pochi mesi fa sembrava scomparso dai radar, ora se ne torna a parlare solo perché c’è stata un’altra invasione. Questo è il problema dell’informazione mainstream: decide lei quando qualcosa esiste e quando no.
Tornando ai giovani, loro sono colpiti, interessati. Ma a sentirlo di più sono le ragazze. Per loro, il tema della liberazione della donna assume un significato nuovo, immediato. Lo collegano alla loro lotta contro il patriarcato, alla loro esperienza quotidiana. I ragazzi, invece, fanno più fatica». Alessandro riflette, come se la spiegazione fosse chiara nella sua testa ma difficile da spiegare in poche parole. «Credo che sia più distante dalla loro esperienza. Gli uomini fanno più fatica a percepire il peso che il patriarcato ha sulle loro vite, perché non lo subiscono direttamente. Le donne, invece, lo sentono ogni giorno e hanno un’urgenza di cambiamento molto più forte. Gli uomini tendono a percepirlo meno, a esprimerlo poco, e ancora meno a parlarne».
Gli chiedo se si sia sentito abbandonato da chi avrebbe dovuto riconoscere l’impegno di Lorenzo. Alessandro risponde senza esitazioni: «No, no. Le persone ci sono state vicine. Non ci sono state vicine le istituzioni». Fa una pausa, poi aggiunge con un tono più grave: «Una volta, una persona dell’amministrazione di Firenze mi ha detto: “Se aveste parlato di vostro figlio solo come di un morto in combattimento, tutti sarebbero stati solidali. Ma voi ne avete fatto un caso politico e allora non potevamo starvi vicini”».
Abbassa leggermente lo sguardo, come se il peso di quella frase gli fosse rimasto impresso. Poi riprende, con una lucidità che non lascia spazio a fraintendimenti:
«Lorenzo non era solo un individuo, era una questione politica. La sua scelta ha messo in discussione il modo in cui viviamo, l’organizzazione delle nostre società, il significato di capitalismo, colonialismo, patriarcato. Questo il sistema non l’ha accettato. Ma le persone sì, loro lo hanno sentito vicino».
A questo punto, sento il bisogno di condividere con lui un ricordo. Gli racconto di quando, poco dopo la caduta del regime di Assad, una compagna, insegnante in un istituto alberghiero, aveva proposto agli alunni e alle alunne un approfondimento sulla rivoluzione del Rojava, su Lorenzo e la sua partecipazione alle Unità di Protezione Popolare. Stabilire un legame con gli studenti sarebbe stato naturale: Lorenzo era un cuoco, proprio come loro.
Racconto ad Alessandro di come, in quell’aula, si fosse creato un momento di profonda attenzione. I ragazzi e le ragazze avevano riconosciuto in Lorenzo qualcosa di familiare, non lo percepivano come una figura distante o astratta, ma come uno di loro. Condividevano lo stesso punto di partenza, fin quando lui, in seguito, avrebbe scelto un’altra strada. Ed è proprio questa scelta ad averli colpiti profondamente.
Alessandro mi ascolta con attenzione e annuisce. Poi interviene, quasi a completare il mio pensiero:
«C’è un’altra storia che potremmo raccontare a questi studenti. Una cosa per cui Lorenzo si arrabbiava tantissimo», dice con un mezzo sorriso amaro. «Mi ripeteva: “Lavoro in un ristorante di livello, vengono quattro persone a cena e in una sera spendono quello che io guadagno in un mese”. Lo faceva infuriare. In due ore lasciavano avanzi nei piatti, mangiavano distrattamente. Questa cosa lo indignava».
Si passa una mano sulla fronte, poi lo sguardo si fa più intenso. «Diceva: “Qui si tocca il termometro della disuguaglianza”. E sai, lui non ci era arrivato con la teoria, ma con la pratica. Lo viveva, lo notava, ogni giorno. Io cercavo di calmarlo: “Dai, Lorenzo, le cose miglioreranno, troverai una situazione più giusta”. Ma lui rispondeva sempre la stessa cosa: “Non è un problema di padroni, è un problema di sistema”».
Il silenzio che segue sembra racchiudere tutto: la rabbia, la consapevolezza, la determinazione di Lorenzo, che ancora oggi continua a far riflettere su più livelli. Sei anni dopo la sua scomparsa, il percorso di Lorenzo Orsetti, il partigiano Orso, Heval Tekoşer, Şehîd Tekoşer, non è un’eccezione isolata, ma parte di una storia collettiva che interseca la resistenza, la ricerca di giustizia e la volontà di costruire alternative concrete. Alessandro non ne restituisce un’immagine idealizzata, ma il ritratto di un giovane che, davanti a un sistema che considerava ingiusto, ha deciso di non rimanere spettatore. La sua eredità si compone sicuramente di molteplici valori simbolici, ma rimane uno spazio di interrogazione sul presente: su cosa significhi prendere una posizione, su quali scelte siamo disposti a compiere e su come la memoria possa riuscire a trasformarsi in azione.
Le foto sono dell’autrice
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