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EUROPA
«Hanno paura che diciamo la verità». Cronache da Atene dopo il naufragio di Pylos
Le mobilitazioni attraversano la Grecia per chiedere verità e giustizia, mentre emergono sempre più chiaramente le responsabilità della Guardia Costiera greca. Le mobilitazioni alla vigilia delle elezioni, che hanno riconfermato al governo il partito Nea Demokratia di Mitsotakis. La risposta delle piazze e la mobilitazione della società civile. Una cronaca da Atene
Nella notte fra il 13 e il 14 giugno un peschereccio con a bordo circa 750 persone affonda al largo di Pylos, in zona SAR (Search and rescue) greca, dopo essere salpato probabilmente cinque giorni prima da Tobruk, in Libia, diretto in Italia. Solo 104 persone – tutti uomini – sopravvivono al naufragio, 82 corpi sono rinvenuti senza vita, mentre centinaia continuano ad essere dispersi a dieci giorni di distanza. Per chi stava sottocoperta – principalmente donne e bambini – nel momento in cui la barca si è inabissata non c’è stato scampo. Vista la profondità delle acque in quel punto del Mar Ionio, sarà molto complesso recuperare i corpi mancanti. Questa la fredda cronaca dell’ennesima strage nel Mediterraneo causata dalle politiche confinarie europee.
Ancora una volta, tutte le autorità erano informate dei fatti. Come ricostruito dettagliatamente da Alarm Phone, dal mattino del 13 giugno le guardie costiere greca, maltese e italiana erano a conoscenza della presenza di una barca in grave situazione di pericolo. Un aereo di Frontex aveva avvistato il peschereccio già alle 9,37 dello stesso giorno. Eppure, nessuno è intervenuto, o se lo ha fatto non è stato per mettere in salvo le persone a bordo. La sera del 14 giugno, le prime immagini dei sopravvissuti li ritraggono ammassati in un vecchio magazzino nel porto di Kalamata. Dormono su materassi appoggiati sul pavimento di cemento, controllati da militari armati. Nemmeno dopo uno dei più grandi disastri marittimi dell’ultimo decennio, l’Europa riesce a mostrare un po’ di umanità per coloro che sfidano i suoi confini. Classe e razza non prevedono soste nella loro produzione di oppressione.
Le mobilitazioni e gli arresti
L’umanità fa però la sua comparsa in questa storia il 15 giugno nelle piazze di Atene e Salonicco, dove migliaia di persone manifestano per gridare la propria rabbia, chiedendo verità e giustizia. Fin dalla mattina emerge la notizia che una nave della guardia costiera greca fosse sul luogo, ma non abbia fatto partire alcuna operazione di soccorso. Addirittura, circola l’indiscrezione che stesse trainando il peschereccio nel tentativo di portarlo fuori dalla propria zona SAR, verso le acque maltesi o quelle italiane. La notizia fa gelare il sangue, ma non stupisce.
Nel mare Egeo, la guardia costiera greca – con la complicità di Frontex – effettua da anni pushback verso le coste turche. Secondo l’ONG Aegean Boat Report, dal 1 gennaio 2017 al 20 giugno 2023 sarebbero 60.486 le persone respinte illegalmente in Turchia, persino dopo il loro sbarco sulle isole greche, come documentato di recente da un’inchiesta del “New York Times”. Nonostante la chiamata venga diffusa meno di 24 ore prima, nella capitale greca circa 15mila persone riempiono le strade del centro.
Il corteo parte dal tradizionale luogo di ritrovo di Propilaya nei pressi della fermata della metro Panepistimio per raggiungere prima la sede del Parlamento greco in piazza Syntagma e poi gli uffici dell’Unione Europea. In coda al corteo partono scontri, la polizia carica ripetutamente, giunto a Syntagma il corteo viene spezzato, una parte ritorna verso Panepistimio e viene circondata. A fine giornata si conteranno 24 arresti. Le persone solidali che si ritrovano più tardi sotto il commissariato in Alexandras per chiederne la scarcerazione vengono nuovamente caricate dalla polizia.
Altre notizie arrivano da Kalamata, nove fra i superstiti – tutti egiziani – sono stati accusati di essere smugglers. Come nel caso di Cutro o di recente a Ventimiglia, ancor prima di concludere le operazioni di salvataggio e ricerca, parte la caccia allo scafista. Ancora una volta i governi europei si autoassolvono e cercano capri espiatori utili a spostare l’attenzione dalle loro responsabilità e dalle loro politiche confinarie mortifere, scegliendo chi spesso non ha la possibilità di difendersi. Nelle carceri greche, secondo i dati portati alla luce da Kathimerini, il 20,8% dei detenuti è sotto processo o condannato per traffico di migranti. Il loro numero ammonta a 2.223 su un totale di 10.678 detenuti.
La mattina dopo il corteo, sono seduto in Plateia Victoria, in uno dei quartieri più meticci di Atene, bevo un caffè con Abdul e Ahmad (nomi di fantasia), due amici afghani arrivati a Lesbo nel 2017. Dopo anni di attese, finalmente nel 2022 hanno ottenuto l’asilo e ora vivono e lavorano nella capitale greca. Parliamo del naufragio, delle persone arrestate con l’accusa di essere trafficanti. Ahmad mi racconta il suo viaggio dalle coste turche. «Eravamo in una sessantina a bordo, io ero uno dei pochi che parlava turco, così mi hanno chiesto di pilotare la barca. A malapena avevo visto il mare prima di allora! Mi hanno chiesto se sapessi andare in motorino, rassicurato che sarebbe stata più o meno la stessa cosa e fatto sedere al timone. Dopo quattro ore, il motore ha smesso di andare e abbiamo iniziato a imbarcare acqua. Ho chiesto ai miei compagni di viaggio di usare le mani per svuotare il gommone, mentre io ho aperto il motore per capire cosa non andasse. In Afghanistan per fortuna riparavo moto con mio padre. Anche il motore si era riempito d’acqua: l’ho svuotato, ho pulito l’iniezione, aggiunto carburante ed è ripartito. I miei compagni di viaggio hanno iniziato a chiamarmi capo! (ride) Io gli dicevo che se ci avesse fermato la guardia costiera non mi avrebbero dovuto chiamare così! Mi rispondevano “ok capo!” (ride ancora). Dopo un’altra ora ci ha avvistato la guardia costiera greca; temevamo ci rimandassero in Turchia, invece ci hanno portato a Lesbo. Appena sbarcati sull’isola mi hanno detto che avevano visto col binocolo che ero io a guidare la barca e che sapevano che ero il capitano. I miei compagni di viaggio però hanno detto che ero un passeggero come tutti loro. Sono stato fortunato, molti altri però sono stati arrestati per lo stesso motivo perché nessuno ha testimoniato in loro favore».
Malakasa 2
Il 16 giugno, i superstiti del naufragio, a eccezione di coloro che sono accusati di smuggling, vengono trasferiti nel campo di Malakasa 2. Situata su un terreno militare a circa 40 km da Atene, questa struttura è stata trasformata negli ultimi mesi in una sorta di hotspot, dove le persone vengono portate per essere registrate, fotosegnalate, lasciare le impronte digitali e iniziare così la loro procedura d’asilo. Durante le procedure di registrazione non è possibile uscire dal campo per 25 giorni, ma spesso i tempi si dilatano.
Con alcunə compagnə del collettivo Solidarity with Migrants decidiamo di andare al campo per monitorare la situazione e portare la nostra solidarietà ai superstiti. Quando arriviamo al campo un nugolo di giornalisti e telecamere assedia il cancello di ingresso. Ci dicono che da poco è arrivato il bus coi superstiti, ma non sono autorizzati a parlare con nessuno. Se possibile, Malakasa 2 è ancora più desolante di altri campi greci: sembra non esserci nulla, se non polvere e isobox – i container dentro cui vengono alloggiate le persone. Nemmeno un albero a fare ombra. Una doppia recinzione circonda l’area, tutto il perimetro è sovrastato da filo spinato e puntellato da telecamere, gli accessi sono regolati da tornelli e presidiati dalla sicurezza privata ESA, la stessa che controlla tutti i campi attorno ad Atene. Un operatore del campo parla coi giornalisti, dice che il campo ha 800 posti, ma in questo momento la maggior parte di essi non sono occupati. All’interno ci sono solo un centinaio di superstiti di un naufragio avvenuto qualche giorno prima vicino a Creta e i 71 di Pylos, appena arrivati. Altre 24 persone sono ancora in ospedale a Kalamata e verranno trasferite nei giorni successivi.
La maggior parte dei cronisti stranieri sono sorpresi vedendo il luogo dove sono state portate persone appena sopravvissute a un disastro, probabilmente ancora sotto shock. Non ci sono altre parole per descriverlo: una vera e propria prigione per rifugiati. Il solerte lavoratore del campo risponde di non preoccuparsi, riceveranno supporto medico e psicologico. Aggiunge: «Questa recinzione serve per proteggerli». Il sospetto è che si voglia invece proteggere la guardia costiera greca. I superstiti sono le uniche persone a poter dire cosa sia successo esattamente quella notte a largo di Pylos. Isolarli è funzionale a non fare emergere la loro versione dei fatti.
Lo stesso giorno, Solidarity with Migrants riceve un messaggio da un gruppo di residenti del campo di Ritsona, a circa 70 km da Atene . Scrivono che da quattro mesi attendono di essere trasferiti a Malakasa per essere registratə e poter avviare la loro domanda d’asilo. Nel frattempo, vivono in un limbo legale, senza ricevere alcun sostegno dallo Stato greco, né avere accesso alla sanità e ad altri servizi essenziali. Il trasferimento sarebbe dovuto finalmente avvenire in questi giorni, ma con la scusa dell’arrivo a Malakasa dei superstiti di Pylos è stato nuovamente rinviato a data da destinarsi. Con oltre 600 posti a disposizione, questa decisione non può che confermare il sospetto che lo Stato greco stia provando a isolare i superstiti, evitare contatti e fughe di notizie. Il 17 giugno però la giornalista siriana Alicia Medina riesce a rompere l’isolamento e parlare con tre connazionali attraverso le sbarre del campo. L’indiscrezione viene confermata: il peschereccio si è rovesciato mentre la Guardia Costiera greca lo stava trainando. Al momento dell’affondamento poi la motovedetta si è allontanata e i superstiti sono rimasti in acqua per almeno tre ore prima di ricevere soccorsi. È un omicidio, non un incidente.
La versione della Guardia Costiera
Nei giorni precedenti la Guardia Costiera ellenica aveva emesso un comunicato con la propria versione dei fatti: la barca sarebbe stata avvicinata, ma le persone a bordo avrebbero rifiutato di essere soccorse, dicendo di non avere problemi e voler continuare la navigazione verso l’Italia. Un peschereccio sovraccarico, senza bandiera e senza capitano nel mezzo del Mediterraneo. Una versione grottesca che viene smentita quasi immediatamente da un’inchiesta della BBC, che ricostruisce che da almeno sette ore la barca era pressoché immobile. Da altre testimonianze emergerà poi che a bordo c’erano già alcune persone morte a causa dell’assenza di acqua e cibo.
La mobilitazione per chiedere verità e giustizia non si ferma. Il 18 giugno un corteo di circa 500 persone invade il porto del Pireo per raggiungere la sede della Guardia Costiera e di Frontex. Ad attenderlo un dispiegamento di forze surreale: all’interno dell’area recintata che protegge il palazzo in un’area remota del porto, decine e decine di uomini di polizia, esercito, guardia costiera e Frontex, sono schierati in file ordinate, evocando immaginari da battaglia medievale.
I muri esterni vengono coperti di scritte, i cori dei manifestanti risuonano nel porto semideserto, la parola ricorrente è δολοφόνοι (dolofonoi) – assassini. Il 20 giugno ad Atene un’assemblea cittadina si riunisce a Protomagias per pianificare e coordinare le iniziative future, nel frattempo a Salonicco un altro grande corteo invade la città. Nei giorni successivi si moltiplicano le iniziative nei quartieri per parlare di quanto accaduto e delle responsabilità delle autorità greche: a Patissia, a Petralona, a Victoria, nella centrale Propilaya.
Il 21 giugno torniamo a Malakasa. Il numero dei giornalisti presenti è diminuito rispetto alla settimana precedente. Incontriamo una giornalista tedesca appena arrivata in Grecia, ci chiede se è normale che le persone rifugiate in Grecia vivano in queste condizioni. La risposta è sì. I campi stanno venendo spostati in zone sempre più lontane dalle città, spesso in zone bisognose di manodopera a basso costo. All’interno i servizi sono pressoché assenti, chi ha ricevuto due dinieghi non riceve nemmeno più il cibo. Nelle parole di un amico iraniano, conosciuto a Lesbo: «Nel campo c’è solo attesa e depressione».
Davanti al cancello incontriamo due ragazzi pakistani, parlano perfettamente spagnolo, sono arrivati da Madrid in cerca di loro cugino, sanno che era a bordo della barca, ma non ne hanno notizie. Ci dicono che hanno ricevuto soltanto l’informazione che fra i superstiti ci sono 12 pakistani, ma non riescono a saperne i nomi. Altri 47 superstiti arrivano dalla Siria, fra cui 5 curdi di Kobane, 43 dall’Egitto e 2 dalla Palestina. «Ogni volta che chiediamo qualcosa, ci dicono di aspettare o tornare dopo». Sono nervosi ed esausti. Non ne possono più delle domande dei giornalisti, vogliono risposte alla loro domanda: «dov’è nostro cugino?». Attraverso le sbarre riusciamo a parlare con una ragazza afghana, superstite del naufragio di Creta. Ci dice che è ancora sotto shock, non capisce perché l’abbiano portata lì e cosa le succederà. Prontamente un operatore del campo interviene a stoppare la comunicazione. Dopo poco lei e altre ragazze velate vengono fatte salire con i loro bambini e le loro borse di plastica sulle auto della sicurezza per essere trasferite altrove.
Malakasa 1
Da Malakasa 2 ci spostiamo a Malakasa 1, il campo poco distante che accoglie circa 2000 persone in attesa dell’esito della loro domanda d’asilo. Appena ci avviciniamo al cancello le guardie ci approcciano con fare aggressivo dicendo che non possiamo stare lì. Succede ogni volta. Nel frattempo, dal campo escono tre ragazzi afghani, diamo loro un volantino scritto in farsi. La sicurezza li richiama indietro per chiedere cosa ci sia scritto.
Uno di loro parla inglese, ci dice: «Non hanno paura dei vostri volantini, hanno paura che si sappia in che condizioni ci fanno vivere qua dentro. Qui non c’è nessun rispetto dei diritti umani. La gente qui dentro impazzisce, non c’è niente da fare, nessun aiuto. Non hanno paura di voi, hanno paura che noi diciamo la verità».
Il 24 giugno un corteo di decine di persone raggiunge Malakasa 2. L’isolamento è rotto, i superstiti all’interno del campo si avvicinano alle recinzioni e scandiscono slogan assieme alle persone solidali all’esterno. «Freedom, Azadi, Hurrya, Libertè!» È fondamentale riuscire a comunicare, raccogliere le loro testimonianze, sostenerne le richieste, prima che le procedure di registrazione abbiano fine e vengano trasferiti in altri campi e dispersi in tutta la Grecia.
Nel frattempo, i nove superstiti egiziani arrestati sono stati trasferiti senza preavviso nella prigione di Nafplion, dove hanno iniziato lo sciopero della fame. La loro richiesta è che i media diffondano la notizia e raccontino cosa gli sta succedendo. Nel frattempo, anche le famiglie delle vittime stanno conducendo la loro personale battaglia per sapere se i corpi dei propri cari sono fra quelli recuperati. I cadaveri sono stati portati al cimitero di Schistou, nella periferia di Atene, ma nessuno è autorizzato a visitarli per effettuare i riconoscimenti. L’unica modalità prevista dalle autorità è attraverso il prelievo del DNA e la comparazione con quello dei familiari, che rende queste operazioni molto complesse e macchinose.
La mobilitazione proseguirà anche nei prossimi giorni. Mercoledì un’altra manifestazione partirà dalla centrale Monastiraki, ai piedi dell’Acropoli di Atene, per chiedere la scarcerazione immediata dei nove arrestati, il riconoscimento dello status di rifugiato per tutti i superstiti di questo e altri naufragi e la fine delle politiche di morte del governo greco e dell’Unione Europea.
Foto di copertina: l’edificio Frontex. Nell’articolo, due momenti del corteo del 15 giugno. Tutte le fotografie dell’autore.