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OPINIONI

Guerra in Ucraina, quale futuro per la memoria europea?

Alla radice del conflitto in corso, c’è anche la diversa percezione che i vari paesi europei hanno della sconfitta del nazifascismo e del crollo dell’Unione Sovietica. Una “guerra simbolica” che andava avanti da tempo

Ha detto Julian Assange, che al momento rischia di essere estradato dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti, che «negli ultimi anni, le guerre iniziano molto spesso per via di bugie diffuse dai media». Di sicuro, almeno sul piano discorsivo, quella della Russia contro l’Ucraina è stata preceduta da una palese mistificazione, che Putin ha “formalizzato” nella sua dichiarazione del 22 febbraio e che le élite russe hanno poi più volte ripreso e rimaneggato col procedere dell’attuale invasione: la necessità di mettere in atto una “de-nazificazione” del territorio e della popolazione nella vicina repubblica.

Il riferimento più diretto, com’è noto, è agli eventi dell’Euromaidan del 2013-14 in cui una sollevazione popolare rovesciò il governo dell’allora presidente ucraino Yanukovich e in cui ottennero grande visibilità e spazio di agibilità politica le forze di ispirazione nazionalista e neo-nazista di Pravy Sektor e Svoboda (con la conseguente formazione del battaglione Azov, che combatterà poi in Donbass). Ma, al di là delle contingenze specifiche, le affermazioni del presidente russo e dei suoi sodali affondano in un più ampio processo di costruzione della memoria e di “re-invenzione del passato” che prosegue da decenni, e non solo in Russia ma sull’intero territorio europeo.

Fra il 1989 e il 1991, la Guerra Fredda è terminata lasciando un nuovo equilibrio da ricostruire e numerosi interrogativi aperti, nonostante in superficie aleggiasse un generale “entusiasmo” e una fiducia quasi “meccanica” nei progressi che da lì in avanti si sarebbero innescati.

Ma, anzi, è forse lecito affermare che pure il periodo post-Guerra Fredda è di fatto cominciato con una sorta di “menzogna”, o perlomeno di omissione: il fatto che, benché fredda, quella appena conclusa fosse appunto una guerra, con i suoi vincitori e i suoi vinti. E i vinti, chiaramente, furono l’Unione Sovietica (come entità ed esperienza politica complessa, non solo territoriale) e una certa concezione del “comunismo” (non solo a est).

Ma, al di là dei grandi proclami (che fin dall’inizio andavano comunque in direzioni lievemente divergenti: se Gorbachëv parlava dell’Europa come «casa comune» dei popoli, sottintendendo una visione implicitamente pluralistica, il suo omologo Bush sognava un’Europa «whole and free», ponendo l’accento su una concezione delle democrazia di stampo più smaccatamente liberale), un tale dato di fatto non fu mai realmente certificato in maniera condivisa. Non fu certificato, cioè, da un tentativo ampio e concordato di ridisegnare gli assetti globali, o quantomeno regionali, e soprattutto dal tentativo di elaborare un’interpretazione condivisa – fra “est” e “ovest” – di cosa fosse stata l’esperienza nazifascista e la seconda Guerra Mondiale, che significato attribuire al termine “totalitarismo” e quali esigenze portava con sé, da ambedue i lati del muro, la fine della Guerra Fredda.

Complice il conflitto in Yugoslavia, che diede ulteriore spinta all’unilateralismo, ogni ipotesi di costruzione di un “alfabeto comune e pluralistico” venne sotterrata in favore di politiche più circoscritte e a “medio periodo”. La possibilità, forse mai del tutto concreta, di immaginare e discutere un sistema di sicurezza e cooperazione inter-statale “da Lisbona a Vladivostok” lasciò spazio a una meno ambiziosa “architettura” fatta di trattati, dichiarazioni d’impegno (scritte e non scritte, talvolta in aperta contraddizione fra loro) e accordi economici in ottica più che altro regionale, volta a controbilanciare gli attriti delle sfere d’influenza delle grandi potenze (è il senso, per esempio, del Memorandum di Budapest del 1994, con cui il governo di Kyiv rinunciò alla totalità suo arsenale nucleare in cambio della garanzia di non-interferenza territoriale ed economica da parte russa).

Se in tanti hanno ricordato la presunta “promessa” di non allargamento della Nato che fu fatta a Gorbachëv nel 1990, è poi vero che l’unico meccanismo di protezione e garanzia della propria sicurezza che si trovarono a disposizione molti stati dell’ex-Patto di Varsavia fu l’ingresso nell’alleanza atlantica (con alcune peculiari eccezioni).

Come ha scritto in maniera molto dura ma sostanzialmente corretta Zosia Brom all’inizio della guerra nella sua lettera d’accusa alle “sinistre occidentali”, per i paesi dell’est si è trattato di semplice «istinto di auto-conservazione»: «[…] per via del fatto che nel 1945 altre nazioni prendevano decisioni sopra la nostra testa, l’est-Europa si è quasi letteralmente aggirato in punta di piedi attorno alla Russia facendo richiesta di poter fare ciò che volevamo. In seguito, si è arrivati alla firma del Founding Act on Mutual Relations, Cooperations and Security between Nato and Russia Federation. Questo accadeva nel maggio 1997 e la Russia, finalmente, ha accettato di riconoscere quel processo che viene chiamato “espansione della Nato” a patto che venissero rispettate alcune condizioni. Queste condizioni ci hanno in effetti reso dei membri di seconda classe dell’alleanza atlantica ma è il massimo che abbiamo potuto ottenere e ce lo siamo preso».

Il senso profondo della guerra in corso si gioca anche sul filo di queste parole e sulla diversità di percezione che esse sottendono. Se per alcune comunità e popoli l’allargamento a est di istituzioni come Unione Europea e Nato ha rappresentato un passo quasi “obbligato” per tutelare la propria sovranità e indipendenza, per altri in Europa – o meglio, per la Russia e nello specifico per la Russia di Putin – un tale processo è stato sempre guardato con sospetto. Si può dibattere all’infinito su quanto l’ingresso di sempre più paesi nell’alleanza atlantica fosse effettivamente un pericolo dal punto di vista militare (e politico) per la Russia, ma quel che conta forse è che venisse costantemente percepito dalle élite della Federazione come tale e che, da parte di vari rappresentanti di queste élite, non ne sia mai stato fatto mistero.

Così come anche in parte degli ambienti politici statunitensi – per voce di figure come George Kennan o William J.Burns – si è fatta strada fin da subito la convinzione per cui il costante allargamento della Nato rappresentasse un «grave errore» che avrebbe inevitabilmente condotto alla guerra con la Russia. Il che, però, rimanda appunto da una parte alla mancanza di un’alternativa credibile a Nato e Ue nella complicata architettura di equilibrio geopolitico europeo e dall’altra alla divergenza di visioni e percezioni che il post-Guerra Fredda alimentava a seconda dei contesti.

Sappiamo come, nei primissimi anni ‘90, i paesi est-europei e in particolare la Russia avviarono una lunga e faticosa transizione dall’economia di stato all’economia di mercato attraverso una serie di riforme neo-liberiste vincolanti per i prestiti del Fondo Monetario Internazionale che costituivano una vera e propria shock therapy.

Ma già qui iniziano a divergere le narrazioni, o le “percezioni” che dir si voglia: mentre questa “sovraestensione del modello di sviluppo americano” poteva essere letta da alcuni come “fine della Storia” (e a questo punto, la parola “fine” valga in tutt’e due le sue accezioni), per chi invece la “subiva” in quanto intervento economico su larga scala la sua implementazione appariva più come forma di sottomissione, come certificazione di una “sconfitta geopolitica” (quella successiva alla Guerra Fredda, appunto) che non veniva però esplicitata a livello pubblico e internazionale. Siamo veramente in un regime di ribaltamento totale, dove lo stesso fenomeno ha una doppia e opposta faccia a seconda delle prospettiva da cui lo si guarda: se per gli Usa prestiti e riforme messi in atto in Russia costituivano una sorta di “Piano Marshall” (peraltro, l’ipotesi di un vero e proprio Piano Marshall per la Federazione fu oggetto di discussione a Washington, salvo poi abbandonarlo completamente nel 1993 per via dell’incipiente recessione e per i disordini scoppiati a Los Angeles), per i gruppi dirigenti che andavano formandosi a Mosca un tale processo, che da una parte era fondamentale per consolidare i nuovi “blocchi di potere” attraverso le privatizzazioni delle grandi aziende statali, dall’altra veniva vissuto in maniera sempre più forte, benché tacita, alla stregua di riparazioni di guerra.

È di fatto attorno a questa consapevolezza – e, anzi, all’impossibilità di esplicitarla come tale nello spazio discorsivo – che andava formandosi l’inconscio collettivo della nuova Russia e il patto sociale fra un popolo in preda allo smantellamento del welfare e dei vecchi punti di riferimento simbolici e il nuovo autoritarismo revanscista che si sarebbe perfettamente incarnato nella figura di Vladimir Putin. Resoconti di alto valore letterario come Tempo di seconda mano del premio Nobel Svjatlana Aleksievič descrivono bene il carattere di “ricostruzione negativa” degli anni ‘90 nello spazio post-sovietico.

È finita una guerra, ma non la si chiama in questo modo. La sconfitta dell’Urss si dice collasso, i territori perduti diventano uno “spazio” più astratto, disperso in un fantsmatico “post” della Storia. La vittoria degli Stati Uniti assume invece le sembianze di un orizzonte eterno, all’insegna della “globalizzazione” e della “democrazia”.

La debolezza dell’Europa, a quel punto, sta nel pensarsi come unica alternativa possibile e nel non mettere in discussione questo ordine simbolico. O meglio, nel non avere il coraggio di rifondare un nuovo ordine – vale a dire un tempo di prima mano, da costruire attraverso il confronto due, tre, mille storie, dell’est e dell’ovest, che in quel momento arrivano a inglobarsi le une dentro le altre. Invece di questo confronto, che sarebbe dovuto essere per forza di cosa anche un confronto di natura politica sull’attrito dei valori, sulla dialettica fra modelli sociali diversi e in un certo senso meno “antagonisti” di quanto li presentava la propaganda (sappiamo infatti che l’elaborazione dello stato sociale in Occidente avviene, oltre che sulla spinta delle lotte dal basso, anche per la “pressione” delle conquiste lavorative e sociali che si mostravano in Unione Sovietica), la storia europea ha iniziato a imperniarsi sempre più su un “paradigma vittimario” che è stato di volta in volta assunto e strumentalizzato dai nuovi attori che comparivano sulla scena.

Non è un mistero, anche se si tratta di un fatto passato un po’ sottotraccia, che soprattutto nell’ultimo decennio siano in corso numerose “guerre della memoria” sul continente europeo. Mentre in Italia si discuteva del “carattere divisivo” del 25 aprile, sul significato da attribuire alla liberazione dal nazifascismo, in Polonia, in Ucraina, nei paesi baltici e ovviamente in Russia tali avvenimenti prendevano intanto tutt’altre pieghe e “ri-semantizzazioni”. Con diverse sfumature e diversi accenti, per le ex-repubbliche sovietiche dell’ovest (a eccezione di Russia e Bielorussia), il ricordo della Seconda Guerra Mondiale ha iniziato a rimandare innanzitutto all’occupazione sovietica (e ai crimini a essa correlati) più che alla sconfitta del nazi-fascismo.

È questo il senso e la traiettoria che prendono le varie indipendenze nazionali che si concretizzano dal ‘91 in avanti. La Lettonia, per esempio, istituisce un giorno di commemorazione per le vittime del genocidio comunista. L’Ucraina, com’è noto e ampiamente dibattuto (non senza strumentalizzazioni), proprio dopo la sollevazione di Euromaidan e sulla scia del sentimento “anti-russo” che si era creato all’epoca ha dato il via in tempi più recenti alle famigerate “leggi sulla de-comunistizzazione” che hanno dato la stura all’innalzamento di personaggi controversi come Stephan Bandera al rango di “eroi nazionali” e hanno contribuito al consolidamento del trauma dell’Holodomor (su cui esistono divergenze di interpretazione storica) in quanto “mito fondativo” dell’unità nazionale. Così, in Polonia si è assistito alla rivitalizzazione in chiave conservativa delle radici cristiane e “bianche” del paese.

Ma il punto centrale, su cui fa spesso leva la retorica di Mosca, è che si è proceduto alla riablitazione e alla ri-valutazione in chiave patriottica di figure ed eventi che avevano spesso a che fare col “collaborazionismo” coi nazisti e talvolta anche con l’antisemitismo putroppo diffusissimi nel contesto della seconda guerra mondiale in quelle zone.

È in quest’ottica, anche, che va letta la legge del Sejm del 2018 che criminalizza i discorsi pubblici che attribuiscono parzialmente la reponsabilità dell’Olocausto alla Polonia o alla nazione polacca.

Ma d’altra parte, in Russia (e con differenti accenti, in Bielorussia), avveniva un’opposta e forse ancora più potente ri-elaborazione di queste eterogenee memorie. Come ha scritto in maniera convincente Giorgio Comai, «In Russia, la Seconda guerra mondiale, ricordata come “grande guerra patria”, non è ricordata principalmente per l’Olocausto o per le politiche repressive di fascisti e nazisti, ma prima di tutto come una guerra contro l’Unione sovietica, contro la Russia. […] “Nazista” oggi significa quindi in primo luogo “anti-russo”, in una linea interpretativa che evidenzia orgogliosamente la continuità tra Urss e Russia, insistendo in particolare sulla Russia come forza principale che ha sconfitto il nazismo in Europa durante la Seconda guerra mondiale». Questo diventa tanto più significativo se si pensa al fatto che il Giorno della Vittoria del 9 maggio ha assunto una centralità di gran lunga maggiore rispetto al periodo passato sotto il dominio di Putin e in particolare dopo il conlitto con l’Ucraina del 2014: nel 2015, per esempio (che era il settantesimo anniversario), si è visto il dispiegamento più grande di attrezzature militari nella parato commemorativa. Per la prima volta, arrivavano nella piazza Rossa truppe dalla Cina, dall’India, dalla Serbia e dalla Mongolia (mentre le nazioni occidentali, per via degli avvenimenti dell’anno precedente, hanno largamente boicottato la celabrazione).

Ma, soprattutto, diventa ancora più significativo nel momento in cui questa vittoria contro la Germania nazista da parte del popolo sovietico viene sempre più etnicizzata e “russificata”, omettendo per esempio il fatto che una delle popolazioni che ha subito le maggori perdite durante la Seconda Guerra Mondiale è quella ucraina (oltre un milione di soldati e oltre 5 milioni di civili). Oppure “glissando”, per quanto concerne una buona parte dei libri di testo in uso nelle scuole, sulle controversie relative al patto Molotov-Ribbentrop e sul dibattito rispetto al ruolo di Stalin nel favorire lo scoppio del conflitto mondiale. Fatto sta che, prestando fede ad alcuni sondaggi condotti dal centro Levada in Russia, nel 2015 solo il 38% delle persone interpellate credeva che il patto Molotov-Ribbentrop fosse un accadimento storico realmente avvenuto, il 17% lo considerava una falso e il 45% non ne aveva mai sentito parlare. Similmente, secondo un sondaggio del 2002 riguardante il significato della Seconda Guerra Mondiale, il 44% la vedeva come una «guerra per la sopravvivenza della patria», il 20% come «una guerra fra l’Unione Sovietica e la Germania di Hitler” mentre solo il 27% come «una guerra contro il fascismo per la libertà e la democrzia nel mondo».

E ancora, più che a una specifica ideologia, nel 2015 il termine “fascismo” in Russia rimaneva associato alla Germania di Hitler (74%), seguita dall’Ucraina, dalle repubbliche baltiche e dalla Polonia, vale a dire – come nota la storica Marlene Lurelle – «con quelle nazioni con cui la Russia stava conducendo una “guerra della memoria”».

A ogni modo, ritornando ora al contesto più generale e riprendendo ancora le parole di Laurelle (il cui libro Is Russia Fascist? rappresenta davvero una lettura imprescindibile e illuminante su tali questioni), il risultato è che «dopo trent’anni [dalla fine della Guerra Fredda, ndr] l’Europa ancora manca di una unificata, o almeno coesiva, narrazione storica che prenda in considerazione le diversficate storie e prospettive nazionali e che, allo stesso tempo, possa integrare queste ultime dentro una più ampia impalcatura memoriale pan-europea. […] La Seconda Guerra Mondiale rimane il principale ostacolo sul cammino in questo senso. Per i paesi dell’ovest, la fine del conflitto ha aperto la via a una pacifica ricostruzione post-bellica e a tre decenni di pieno sviluppo economico. Per i paesi dell’Europa centrale e orientale, è iniziato un ingresso forzato nel blocco socialista, e per le tre repubbliche baltiche, ha significato anche la perdita della propria sovranità».

La fine del conflitto contro il nazifascismo, dunque, per alcuni paesi e comunità rappresenta una “liberazione”, per altri una “vittoria nazionale”, per altri ancora l’inizio di una lunga e maltollerata occupazione straniera. Il quadro, soprattutto per l’Europa centro-orientale, si complica poi con la caduta del muro e con l’ingresso attorno agli anni 2000 di molti paesi nell’Unione Europea e nella Nato, cui si accompagna l’emergere di nuovi “miti fondativi” spesso di natura smaccatamente anti-sovietica (e, talvolta, indirettamente anti-russa). «Non è una coincidenza che le “guerre della memoria” con la Russia abbiano esperito una escalation proprio in quel periodo», annota infine Laurelle. Ed è dunque in un tale contesto che si arriva, fra le altre cose, alla “famigerata” risoluzione Ue del 19 settembre 2019 in cui venivano sostanzialmente equiparate le esperienze del nazifascismo da una parte e del comunismo sovietico dall’altra. Un fatto politico marginale, ma che ben rappresenta col suo estremo equilibrismo l’assenza di una memoria condivisa a livello di continente.

Questi sono i motivi per cui la guerra in corso, almeno in una certa misura, andrebbe interpretata come uno scontro non solo per l’autodeterminazione nazionale nel presente ma anche per un’autodeterminazione nel costruire, dentro alle condizioni presenti, un rapporto più libero e condiviso col proprio passato (vale a dire: con il rapporto che una comunità proveniente dall’esperienza sovietica dovrebbe intrattenere con una tale esperienza e con la rappresentazione del ricordo di quest’ultima nello spazio pubblico).

Così come, il “carattere fantasmatico” della memoria post-1989 sul suolo europeo, vale a dire – come già accennato – la mancanza di un discorso europeo condiviso sul significato del nazi-fascismo dai due lati della cortina di ferro e su un accordo condiviso su cosa sia il totalitarismo – è anche ciò che ha permesso a Vladimir Putin di costruire il proprio potere in senso paranoico, attorno allo “spettro” di rivoluzioni che non sarebbero mai potute avvenire nei fatti o che comunque avrebbero avuto altro “segno” rispetto a quello propagandato dalla sua macchina informativa. Spiega molto bene l’attivista e analista politico Ilya Budraitskis nel suo Dissidents among the Dissidents: «Se c’è stato qualcosa di consistente rispetto all’eclettica ideologia dello Stato Russo post-sovietico dall’inizio degli anni 2000 in avanti, lo si può riassumere in un unico concetto: anti-rivoluzione. Non va confuso con la contro-rivoluzione. [la contro-rivoluzione] arriva infatti dopo le rivoluzioni e si prefigge di cancellare le nuove forma politiche e sociali che sono sorte, che hanno poco in comune con il vecchio ordine pre-rivoluzionario. Ma, se la controrivoluzione emerge come forza capace di distruggere una rivoluzione esistente, l’anti-rivoluzione è quella cosa che invece prova a scongiurare una rivoluzione immaginaria, il cui angosciante spettro rincorre il potere al comando e ne proclama la caduta».

È esattamente la base su cui Putin ha costruito l’immaginario a proprio sostegno e su cui, come sostiene Volodymyr Artiukh, ha anche via via elaborato una dottrina di relazioni internazionali a supporto di diversi regimi contro e anti-rivoluzionari nell’area caucasico-mediterranea (la Bielorussia di Lukashenka o la Siria di Assad) che sta alla radice dell’invasione in Ucraina. Saranno capaci l’Europa e l’Occidente di ritessere a ritroso le fila di tutti questi conflitti simbolici (e non) e dunque intessere, nuovamente, un dialogo con territori, mondi e società che sembrano ormai aver preso un’altra strada? Certo è che il nostro futuro prossimo sembra essere sempre più condizionato dalle memorie del passato.

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