EUROPA
Guerra in Ucraina, lungo la frontiera. Cosa succede in Moldavia
DINAMOpress ha raccolto alcune testimonianze dal confine con l’Ucraina. Un racconto di ciò che avviene in Moldavia, fra la capitale Chisinau dove “sostano” la maggior parte dei migranti fino al confine sud di Palanca, verso il “fronte caldo” di Odessa
I confini fra Moldavia e Ucraina sono confini “sottili”. A nord e a est, lo stretto letto del fiume Nistru demarca il territorio, lasciando poi spazio alla regione indipendentista della Transnistria (autonoma de facto dal 1990); a sud, da una parte, solo una cinquantina di chilometri collegano l’ultima cittadina moldava di Palanca dal grande centro ucraino sul mar Nero Odessa (in cui da molto tempo si aspetta un’offensiva russa); dall’altra parte, fra Galati, Isaccea (Romania) e Giurgiulesti, il delta del Danubio crea un area porosa e disconnessa, fra piccoli laghi e canali che – indirettamente – danno anche alla Moldavia una sorta di sbocco sul mare.
Ma non è solo una questione geografica. Anche le continuità storiche e culturali “assottigliano” le frontiere: il comune passato sovietico fa sì che il russo (parlato, accanto al rumeno, dalla quasi totalità dei cittadini moldavi, fra cui ci sono anche significative minoranze turcofone e ucrainofone) possa fungere da lingua condivisa; prima della guerra, inoltre, i “passaggi” verso Odessa erano molto frequenti sia per motivi commerciali che per “svago” o relazioni interpersonali; La presenza della già menzionata Transnistria, dove staziona un certo numero di truppe della Federazione Russa, complica poi il quadro al punto che – pare – le autorità ucraine hanno deciso di far saltare alcuni ponti di collegamento fra la regione separatista e il suo territorio.
È in questo contesto che – fra timori che il conflitto possa espandersi proprio qui (non troppo tempo dopo l’invasione russa, la presidenta Maia Sandu si è affrettata a far richiesta di ingresso nell’Unione Europa, anche se settimana scorsa il ministro degli esteri Nicu Popescu si è detto scettico riguardo a un possibile attacco) e spirito di solidarietà con il vicino aggredito – la Moldavia sta affrontando l’esodo di rifugiati (anzi di rifugiate, come fa notare la volontaria Costanta Dohotaru, visto che la stragrande maggioranza delle persone che fuggono sono donne) dall’Ucraina.
Al momento parliamo di oltre 370mila arrivi (dati Unhcr), il che rende la Moldavia (con i suoi quattro milioni scarsi di abitanti) il paese che sta accogliendo il più alto numero di sfollati pro capite.
(Andrea Tedone)
A sud
Palanca è il punto nevralgico: qui arriva una buona parte di persone in fuga dalla fascia meridionale dell’Ucraina (Odessa, appunto, Mykolaev, Mariupol…). Contrariamente a quanto succede in altri posti di confine, come Siret in Romania, l’area di frontiera è scarna di servizi di accoglienza: giusto il personale di polizia, alcuni volontari e le marhsrutka (pullman di piccole dimensioni utilizzati per il trasporto pubblico) a far da spola dalla dogana alla stazione degli autobus della cittadina di Palanca dove invece sono presenti i tendoni delle Ong e vari luoghi di ristoro. «Ma le autorità sono state parecchio lente ad attivarsi», ci racconta il sociologo Vitalie Sprinceana che in questo momento è fra i coordinatori del gruppo di volontari Ptf inquadrato nell’iniziativa governativa di accoglienza “Moldova pentru pace”. «Inizialmente, anzi, qua al confine c’erano solo persone comuni ad assistere chi arrivava dall’Ucraina, senza alcuna pettorina di riconoscimento e spesso con poche competenze specifiche. Poi il governo e le varie organizzazioni internazionali hanno cominciato a organizzarsi e si è creata una situazione abbastanza stabile».
Dopo un lungo rettilineo, la strada che conduce al confine sterza dentro il piccolo villaggio di Tudora (in cui è presente un’altra frontiera), adagiato in parte sulle rive del Nistru, per poi proseguire sinuosa verso le villette di Palanca. Le file di alberi di medie dimensioni lasciano spazio a un territorio più acquitrinoso, che segnala la vicinanza col fiume.
Oltre alle case, poco altro: qualche negozietto di alimentari, un paio di chiese. La stazione degli autobus è, di fatto, un ampio spiazzo sterrato, circondato da campi incolti. «In generale si può dire che c’è stata una buona risposta in Moldavia, sia da parte della società civile sia da parte delle istituzioni», prosegue Vitalie che, oltre a impegnarsi direttamente nell’assistenza dei profughi, prova anche a verificare sul campo quali possano essere difficoltà e problematiche da migliorare. «Ma questo non significa che non esistano criticità: molto spesso, per esempio, l’eccessiva burocrazia impedisce di prendere delle decisioni in maniera rapida e pragmatica: è capitato, per dire, che una signora anziana con disabilità non potesse salire sul minibus alla frontiera, mentre un’ambulanza lì vicino si rifiutava di aiutare visto che non erano “autorizzati” a farlo».
(Renato Ferrantini)
Ma, al di là dell’aneddotica, esistono effettivamente questioni strutturali con cui la piccola repubblica est-europea deve confrontarsi nell’immediato. Da una parte, quelle legate ai rischi generalmente connessi alle ondate migratori come il traffico di esseri umani, violenze di natura sessuale o speculazioni economiche sulle necessità di viaggio. A questo proposito, in Moldavia e in particolare nel contesto di Palanca, ci sono diverse segnalazioni sul fatto che alcune compagnie e privati stiano approfittando della vulnerabilità dei migranti per offrire, con scarsa trasparenza, trasporti oltrefrontiera a prezzi esorbitanti.
Nella stazione cittadina, infatti, sembra che il numero di automobili e pullman eccedano quello dei profughi in arrivo e solo pochi sono lì per le corse garantite dal governo e dalle istituzioni (di fatto, ci sono giusto alcuni autobus che proseguono per la capitale Chisinau e altri, offerti dalla Romania, che conducono a Bucarest).
Dall’altra parte, sussitono complesse problematiche riguardanti le differenze etnico-culturali, di genere e di disponibilità economica di chi arriva dall’Ucraina. In questo senso, non è un mistero che – pur nella buona volontà delle mobilitazioni d’accoglienza – le discriminazioni preesistenti non scompaiano con le ondate migratorie ma, anzi, rischiano di intensificarsi. Un caso abbastanza significativo coinvolge la comunità rom, già oggetto di pesanti attacchi nella stessa ucraina (nel 2018 ci sono stati addirittura casi di pogrom) e ora non sempre trattata con equità e rispetto nei paesi che accolgono (come per esempio in Polonia).
(Andrea Tedone)
La capitale
Al di sotto dell’immagine di “generale accoglienza e solidarietà”, dunque, la situazione è variegata. Questo è particolarmente visibile quando si arriva nella capitale moldava Chisinau (circa 800mila abitanti), in cui viene ospitata la stragrande maggioranza delle persone in fuga. I luoghi e gli spazi adibiti alla permanenza o alla sosta dei profughi sembrano innumerevoli: secondo alcuni funzionari dell’Unhcr dovrebbero essere oltre novanta, senza contare le case private. Ci sono palazzetti dello sport, studentati, monasteri (volontari afferenti alla chiesa ortodossa sono impegnati anche al confine)… Non tutti questi posti danno alla stessa impressione, tanto che un reportage pubblicato la scorsa settimana sul “manifesto” parlava di «centri di classe per poveri e non ucraini».
In effetti, se si visitano i due principali luoghi dedicati all’accoglienza, il centro delle esposizioni già riadattato a hub vaccinale Moldexpo (vicino al parco cittadino Valea Morilor) e l’impianto sportivo Manej (verso la periferia di Riscani, sul lato del caratteristico Circul), saltano agli occhi varie differenze. Il primo, che ospita quasi esclusivamente donne e famiglie ucraine, è una grossa area composta da più strutture e conta un grosso numero di figure d’assistenza, fra volontari, psicologi e forze dell’ordine.
Forte sembra essere anche la presenza delle organizzazioni internazionali e locali, che ricevono quotidianamente donazioni di vestiti e altri oggetti utili. Le postazioni per il vaccino sono state riadattate a “piccole stanze”, garantendo in questo modo anche un minimo grado di privacy per chi si trova nel centro.
Nel secondo, invece, l’unica separazione fra i materassi è una rete di pallavolo che si affloscia al suolo, messa tra l’altro “spontaneamente” dai profughi a dividere la componente azera da quella rom. Dentro l’ampia pista da corsa indoor (dove nel periodo di massima affluenza sono state ospitate circa 700 persone), infatti, non ci sono infatti ucraini e pure il numero di volontari e agenti delle autorità cala sensibilmente. «Ora siamo a metà della capienza, ma spero che diminuiscano gli arrivi: sai, per una nazione piccola e povera come la nostra è davvero difficile accogliere così tanta gente», ci dice una ragazza di “Moldova pentru pace”. Anche l’atmosfera generale pare, dunque, di tutt’altro tenore.
(Renato Ferrantini, in alto; Andrea Tedone, in basso)
Il punto è che a questa divisione su base etnico-culturale e “di classe” (una divisione “non discriminatoria, ma più comoda dal punto di vista governativo”, secondo quanto asserisce il governo come riporta ancora il “manifesto”) corrisponde una diversità di condizione: si tratta per la più parte di persone che magari hanno difficoltà a reperire i documenti necessari per proseguire il viaggio o che, semplicemente, non hanno la possibilità economica per farlo in tempi brevi. Anche in un altro grande centro della capitale la situazione è simile: la facoltà universitaria di strada Testemitanu si estende su tre piani di aule e stanzoni. Pure qui, pare esserci in atto una divisione netta: se al secondo piano sono alloggiati principalmente cittadini e cittadine azere, all’ultimo si trovano famiglie rom. Il personale dell’Unhcr parla e “tratta” in continuazione con i profughi: quasi tutti sembrano solo desiderosi di partire, di lasciare la Moldavia e proseguire verso ovest dove è più facile rifarsi una vita.
«Vogliamo andare in Germania, o da qualche altra parte, basta che ci diano da lavorare e da mangiare», dicono Kanan e Zina che sono scappati rispettivamente da Kyiv e da Karkhiv («bombe, missili, case distrutte come fosse la seconda guerra mondiale», raccontano) ma «non ne possono più» di essere bloccati nel centro.
Ma la situazione dei trasporti è confusa, ancora più che a Palanca. Alcuni si lamentano della scarsa igiene del posto, e del freddo che si prova. Tutti hanno chiaro il perché sono qui: «Putin è davvero un fascista», concludono Kanan e Zina.
(Andrea Tedone, in alto; Renato Ferrantini, in basso)
Il futuro
Tutto questo, come accennato, avviene in un clima di grossa incertezza. La vicinanza con Odessa, la questione della Transnistria, la totale debolezza dell’esercito moldavo (oltre alla sua posizione geopolitica fuori da Nato e Ue) fanno pensare ad alcuni che, nel caso, dopo l’Ucraina il conflitto potrebbe estendersi proprio in Moldavia. Anche fra i volontari e le volontarie, c’è chi si pone delle domande rispetto al futuro, chiedendosi se è meglio lasciare il paese già ora o cosa potrebbe fare in caso di guerra. Si pensa ai parenti, alla loro sicurezza, alle possibilità di emigrare.
A ogni modo, la situazione attuale rischia di far da detonatore per le divisioni che già attraversano la società moldava e che rischiano di esplodere: in un contesto politico fortemente segnato dalla spaccatura fra partiti “filo-russi” e “filo-europeisti” (una spaccatura per certi versi di superficie, ma comunque presente), potrebbe esserci un’accelerazione “verso ovest” da parte delle istituzioni, e la richiesta di ingresso nell’Ue segna già un passo in tale direzione.
Ma a quel punto come reagirebbe la popolazione? Che tipo di risposta metterebbe in campo la Russia, dall’altra parte? Come andrebbe a ricomporsi l’equilibrio fra culture linguistiche differenti (appunto, il bilinguismo fra rumeno e russo), in che modo si riconfigurerebbero i rapporti con la regione indipendente de facto, quali conseguenze in ambito anche religioso (vista la presenza di due chiese ortodosse, l’una facente riferimento al patriarcato di Bucarest e l’altra a quello di Mosca)?
È probabile che la guerra oltreconfine stia già scavando dei “solchi” invisibili nella società moldava, fratture sotterranee destinate a venire alla luce solo fra un po’ di tempo.
Intanto, l’unica risposta a questi interrogativi sta forse nella concretezza dell’accoglienza quotidiana, dell’impegno di tante e tanti che hanno scelto di fare della solidarietà col popolo ucraino una “nuova quotidianità”.
Ci racconta infine il sociologo e volontario Vitalie: «Durante i primi giorni ho avuto mille discussioni su cosa si dovesse fare, cosa bisognasse pensare, addirittura se fosse giusto combattere. Alla fine, resto comunque un pacifista. Molti, sopratutto dall’estero, mi chiamavano per capire che “posizione” avesse la sinistra in Moldavia. Ammiro chi, quando scoppia una guerra, riesce a riflettere, esprimersi, scrivere articoli lunghissimi. Io la prima cosa che ho fatto è stata viverla da essere umano».
Immagine di copertina di Renato Ferrantini