MONDO
Great Return March. La resistenza inattesa
La Great Return March non si è conclusa. Giovani palestinesi continuano ad animare un movimento che sta rivoluzionando il conflitto
Nel corso della sua lunga storia, il movimento di resistenza palestinese ha saputo riemergere e sorprendere il mondo intero con iniziative tanto significative quanto inaspettate. Così fu con la Prima Intifada, nel 1987, ma così pure con la resistenza dei villaggi contro la costruzione del muro nel 2005, che arrivò quando si stava concludendo la parte più violenta e distruttiva della Seconda Intifada. La Great Return March, iniziata il 30 marzo di quest’anno, della quale tante volte abbiamo parlato su Dinamo, rientra tra queste straordinarie iniziative non attese. Possiamo ora dire che quello che inizialmente sembrava un moto circoscritto nel tempo, di attivisti di varia estrazione, destinato a venire schiacciato dalla repressione israeliana, sta diventando un movimento che è riuscito in pochi mesi a colpire nell’immaginario a livello globale, a mettere in difficoltà sul piano mediatico Israele e a determinare le scelte strategiche dei partiti palestinesi, conosciuti per le proprie strutture interne burocratiche e asfittiche e sclerotizzate.
In un bel articolo sul portale 972mag, Awad Abdel Fattah, attivista palestinese di Israele, ricostruisce gli elementi di innovazione del movimento dei giovani gazawi che ha lanciato la Great Return March.
Anzitutto sottolinea quanto il movimento sia riuscito a riattivare la società civile di Gaza, profondamente provata non soltanto da anni di assedio, ma anche dalla morsa dell’autorità di Hamas e dalle faide interne tra quest’ultima e gli altri partiti dell’OLP.
Fattah racconta di aver seguito da vicino, attraverso scambi e contatti, gli scritti di un ragazzo di Gaza che è tra i leader del movimento, Ahmad Abu Rtema, e di essere rimasto colpito non solo dalla capacità di pensiero creativo e libero, ma anche dalla lucidità con cui l’attivista guarda al pubblico israeliano e alla necessità riscontrata di riuscire a nuovi trovare canali di comunicazione, partendo dal pieno supporto all’idea di un unico stato democratico nell’area della Palestina storica, in cui Palestinesi (rifugiati inclusi) e Israeliani possono vivere assieme con pari diritti.
Secondo Fattah è straordinario quanto i giovani palestinesi di Gaza stiano riuscendo a ridirigere le scelte strategiche di Hamas. Il partito islamico infatti, probabilmente ha aderito alla marcia pure per necessità di trovare una via di uscita politica dalla situazione stagnante che si era determinata negli anni a causa dell’assedio, ma ora si trova a continuare a dare appoggio, avendo compreso che le manifestazioni popolari al confine della striscia aumentano a dismisura il consenso che possono ottenere a livello internazionale.
In un articolo pubblicato sul New York Times, lo stesso Ahmad Abu Rtema racconta l’esperienza straordinaria delle mobilitazioni che è riuscito a lanciare. Egli stesso ammette «Quello che mi meraviglia è la trasformazione del modo in cui lottiamo. La nostra lotta, precedentemente, era tra combattenti palestinesi armati e cecchini israeliani, tanks e F16. Ora è una lotta tra l’occupazione e manifestanti pacifici che sono uomini e donne, giovani e vecchi». In poche parole riesce a cogliere il senso di quella che è una resistenza popolare, in cui il mezzo conta quanto il fine, in cui gli strumenti di partecipazione sono allargati e inclusivi, in cui il processo che si avvia e le circoli virtuosi di attivazione, relazione ed empowement hanno ripercussioni vitali ad ogni livello.
Non è sempre facile condurre una resistenza di questo tipo, come raccontava in questa intervista che Dinamo ha tradotto, un altro leader della rivolta dei gazawi, Hasan Al Kurd, in quanto il rischio di venire strumentalizzati dai partiti è sempre molto elevato, ma, ad oggi, la capacità di direzionare il movimento di Resistenza all’interno della Striscia facendo silenziare, sullo sfondo, le opzioni armate è sorprendentemente tangibile.
Era una giovane attivista del Great Return March anche Razan al Najjar, la ventunenne paramedico che venerdì 1 giugno prestava servizio durante la manifestazione al confine ed è stata uccisa con un colpo diritto al petto, mentre soccorreva feriti. Razan aveva rilasciato diverse interviste in quanto attiva in supporto del movimento fin da Marzo, in alcune di esse esprime quel pensiero creativo e pure un approccio femminista alla questione della partecipazione alla lotta. “[..] le donne sono spesso giudicate, ma la società deve accettarci. Se la gente non ci vuole accettare per scelta, saranno forzati a farlo. Abbiamo più forza di ogni uomo. La forza che ho mostrato come paramedico in emergenze dal primo giorno delle proteste, ti sfido a trovarla in altri”.
Non da ultimo, il movimento a Gaza è riuscito a stimolare la crescita di proteste in tante parti di Israele. In particolare dove è alta la percentuale di cittadini palestinesi, come Haifa, esse sono state anche particolarmente significative negli strumenti di lotta oltre che nella caratterizzazione congiunta di palestinesi e israeliani. È ancora debole invece l’appoggio alla Gaza Return March in West Bank, si può sperare nel futuro ma in quel contesto la “normalizzazione dell’occupazione” rende difficile innescare processi di attivazione della popolazione.
È presto per dire dove potrà arrivare tutto questo. Quasi un mese fa avevamo espresso la forte preoccupazione che tutto potesse finire schiacchiato dalla violenza dei tanti morti di questi mesi. Ora possiamo invece dire che il movimento della Great Return March continua, che una nuova generazione di giovani gazawi sta dando lezioni di dignità e resistenza sorprendenti, e che il futuro non è scritto. Va riconosciuto il merito e il coraggio di questi ragazzi che sono riusciti a trovare strumenti e metodi per riportare al centro dell’attenzione globale la questione palestinese, con capacità di visione e di prospettiva che sorprendono e che commuovono. Meritano tutto il nostro supporto.