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Gramsci, la morte, gli italiani
Alla vigilia della commemorazione della morte di Gramsci, una riflessione sulla sua pretesa conversione, sulle speculazioni religiose e – in generale – sulla difficile gestione di una catastrofe psico-fisiologica
Poco più di dieci anni fa, il 25 novembre del 2008, Luigi De Magistris rivelò in una trasmissione di Radio Vaticana che Gramsci si era in punto di morte convertito, chiedendo di baciare l’immaginetta di Gesù Bambino che una suora, che lavorava come infermiera nella Clinica “Quisisana”, faceva circolare tra i malati. De Magistris è naturalmente solo un omonimo dell’attuale sindaco di Napoli: pro-penitenziere emerito della Santa Sede, nel 2008 questo monsignore aveva ottantadue anni, e quindi undici al momento della morte di Gramsci. Nel 2008 sostenne di aver appreso l’episodio proprio da quella suora, testimone diretta dello straordinario evento: dunque una testimonianza indiretta, ma quasi di prima mano…: «Il mio conterraneo, Gramsci, aveva nella sua stanza l’immagine di Santa Teresa del Bambino Gesù. Durante la sua ultima malattia, le suore della clinica dove era ricoverato portavano ai malati l’immagine di Gesù Bambino da baciare. Non la portarono a Gramsci. Lui disse: “Perché non me l’avete portato?” Gli portarono allora l’immagine di Gesù Bambino e Gramsci la baciò». Nella lettera a Piero Sraffa del 12 maggio 1937 (due settimane dopo la morte del cognato) Tatiana Schucht racconta l’episodio in modo un po’ diverso: «… il Dr. Belock fece capire alla suora che le condizioni del malato erano disperate. Venne il prete, altre suore, ho dovuto protestare nel modo più veemente perché lasciassero tranquillo Antonio, mentre questi hanno voluto proseguire nel rivolgersi a Nino per chiedergli se voleva questo, quest’altro ecc. Il prete mi disse perfino che non potevo comandare ecc.».
Il prete mi disse perfino che non potevo comandare ecc.: povera Tatiana, straniera e oltretutto donna, confrontata con un prete in vena di impartirle la lezione. Certo, in quella Italia fascista e clericale c’era poco da scherzare e il prete, con lo stuolo di suore che lo circondavano, interpretava semplicemente i rapporti di forza reali di quel tempo. Questi rapporti sono restituiti fedelmente dalla testimonianza di una di queste suore, quando raccontò a De Magistris ciò che per lei era ovvio e naturale: che prima o poi si torna alla fede dei propri padri, sopratutto quando la vita appare messa in dubbio. Non stupisce che sopratutto nei luoghi di sofferenza come gli ospedali si aggirassero non solamente nel 1937, ma si aggirino oggi, nel 2018, preti e suore che, al di là di eventuali funzioni infermieristiche (certo riservate alle sole suore…), si occupano dell’assistenza delle anime nei passaggi della nascita e della morte; e non stupisce che, soprattutto nel secondo di questi casi, questi “funzionari” facciano presa su di un terreno estremamente friabile, perché in esso davvero “tutto” viene rimesso in questione, e solo chi possiede solide convinzioni è in grado di resistere alle lusinghe della salvezza eterna. Lo scandalo sta però non nella fragilità e nella paura di chi soffre, ma nel fatto che non esistono argini istituzionali a queste continue profferte (come sarebbe p. es. il principio, secondo il quale un prete si può avvicinare solo a chi ne faccia esplicita richiesta…). Del resto, chi sa di possedere la verità sente anche il dovere di convincere i dubbiosi, ciò che, in mancanza di un’istituzione che freni questi entusiasmi, si converte rapidamente in qualcosa che assomiglia da vicino al plagio e alla circonvenzione di incapace.
Non voglio però girare intorno alla questione, come se il fatto reale del bacio dell’immaginetta dovesse passare in secondo piano. No: ammettiamo che ciò sia accaduto esattamente come lo riferisce De Magistris. In proposito si possono formulare molte ipotesi, tra le quali la seguente: che Gramsci non fosse più lui, avesse cioè perso la propria lucidità, che la sua personalità si fosse insomma molecolarmente disgregata, per dar posto a un’altra, che con la precedente aveva in comune solo la carta di identità. È un’ipotesi smentita da chi gli è stato accanto fino alla fine (Tatiana Schucht), ma facciamola lo stesso, immaginando che tale processo molecolare sia giunto a una crisi risolutiva all’improvviso, in modo per tutti inaspettato. Ora, solo chi – come i cattolici – considera l’uomo un ente già fatto da sempre, e non un punto di incontro di spinte in costante divenire, può pensare che ciò sia una “conversione” e non una “catastrofe”, qualcosa da cui trarre profitto (guadagnare una pecorella al gregge) e non di cui avere pietà. Lo stesso Gramsci aveva del resto lucidamente previsto questa eventualità in una lettera scritta il giorno precedente una terribile crisi (7 marzo 1933) in cui fu sul punto di morire, e la stessa riflessione torna in un appunto dei Quaderni del carcere, presumibilmente degli stessi giorni. L’appunto, intitolato «Note autobiografiche», inizia così: «Come ho cominciato a giudicare con maggiore indulgenza le catastrofi del carattere. Per esperienza del processo attraverso cui tali catastrofi avvengono». Sono parole che andrebbero meditate da chi si accanisce a presumere un’identità immutabile e a rileggere retroattivamente tutta la vita dell’interessato alla luce di ciò che qualcun altro ha compiuto. (Non stiamo qui negando beninteso che si possa cambiare idea, anche in modo radicale, né che ci si possa “convertire”. Stiamo solo dicendo che questi fatti non hanno una spiegazione valida necessariamente per tutti.)
Se dunque una tale «catastrofe del carattere» fosse avvenuta ad Antonio Gramsci, dove sarebbe lo scandalo? Solo un cattolico si potrebbe scandalizzare, scorgendo in ciò un fatto inspiegabile e ricorrendo alla grazia per colmare la lacuna dell’ignoranza. Un approccio all’identità umana materialistico, e quindi consapevole della strutturale fragilità di essa, non troverebbe in ciò, in linea di principio, nessun mistero. E sopratutto troverebbe indebita qualsiasi proiezione retrospettiva, considerando l’identità di un uomo come Antonio Gramsci come coincidente con ciò che egli in innumerevoli conversazioni, scritti e azioni ha affermato, lasciando ai pastori di anime la coltivazione della tanto pia illusione della sua conversione. Di più: avendo lo stesso Gramsci previsto la possibilità di una tale catastrofe, egli ha in quel momento affidato ai suoi famigliari e compagni, e a noi che i suoi scritti oggi leggiamo, il compito di rispettare questo suo “testamento biologico”, arrestandoci con rispetto dinnanzi a quella soglia, che la Chiesa cattolica non esita a varcare.