ITALIA
Gli spazi sociali nel ciclo reazionario
A partire dallo sgombero del Laboratorio Manituana di Torino, una riflessione collettiva sulle trasformazioni della governance urbana e sulle politiche di normalizzazione e securizzazione dello spazio pubblico
Mercoledì 16 maggio, all’alba, i nostri spazi in Via Cagliari sono stati sgomberati e sigillati dalla Digos, grazie al dispiegamento di svariati reparti della celere. L’operazione non era stata preceduta da alcuna avvisaglia ed è giunta, anzi, assolutamente a sorpresa, proprio quando le trattative condotte dalla Film Commission (partecipata comunale e regionale, proprietaria in comodato d’uso dell’immobile) per l’affitto dei locali occupati erano ormai declinate.
Senza alcuna giustificazione, un intero quartiere è stato militarizzato per più di ventiquattro ore, per mettere fine a un’esperienza autorganizzata giovane ma radicata, che proprio negli ultimi mesi, dopo le difficoltà dovute all’apertura del nuovo spazio, cominciava a crescere ed affermarsi.
Più di sei mesi fa, avevamo deciso di liberare uno spazio fino ad allora inutilizzato rendendolo aperto a tutta la popolazione, ricco di attività culturali e sociali, in un quartiere cruciale per l’attuale sviluppo urbano, dove le grandi opere di edilizia universitaria e gli ingenti investimenti di capitali privati stanno determinando un aumento del costo della vita e degli affitti. Una progressiva concentrazione di attività imprenditoriali e commerciali sta infatti colpendo la zona di Borgo Rossini, Aurora e i quartieri limitrofi, in completa assenza di servizi pubblici adeguati. Sono quartieri dove scarseggiano i luoghi di socialità fuori dal mercato, dove mancano i servizi più elementari e, più in generale, privi di reti di solidarietà e mutuo sostegno. In questi sei mesi, le attività e i percorsi nati con la nostra prima occupazione non sono stati soltanto trasferiti nel nuovo spazio, ma si sono evoluti e ampliati. Oltre agli innumerevoli momenti di autoformazione e divulgazione culturale (seminari, dibattiti, gruppi di studio, presentazioni di libri, proiezioni, concerti), abbiamo insistito sui percorsi sociali e politici che più ci sono affini: dalla pratica dell’acquisto collettivo e solidale alla lotta contro le frontiere, dall’antiproibizionismo agli esperimenti di autorganizzazione delle lavoratrici e dei lavoratori autonomi e precari, fino all’impegno nel movimento transfemminista e alle iniziative contro la gentrificazione. La rete di corpi, intelligenze e pratiche comuni che anima il nostro collettivo si è così allargata e approfondita, confermando che l’esigenza di un percorso come quello di Manituana è diffusa e sentita in città. La mobilitazione in risposta allo sgombero ne è stata una prima prova: nell’indifferenza di gran parte della sinistra, centinaia di persone, giovani e meno giovani, si sono assemblate in un presidio di fronte ai cordoni di polizia che chiudevano Via Cagliari, muovendosi poi in corteo spontaneo nelle vie del quartiere.
Ad una settimana di distanza, sentiamo la necessità di proporre alcune brevi riflessioni sulle motivazioni di questo sgombero e sul contesto politico locale e nazionale nel quale si inserisce. Le prime sono certo più semplici da analizzare: conosciamo ormai da tempo le modalità con le quali la Questura di Torino e i “pool” di zelanti magistrati a lei prossimi – a prescindere dall’alternarsi di questori e procuratori – si confrontano con le forme di dissenso e autorganizzazione. Il relativo contenimento delle lotte esistenti è condotto a colpi di manganello, denunce e pesanti cicli di arresti e misure cautelari. La preoccupazione principale dei “tutori dell’ordine pubblico” è evidente: soffocare ogni emergenza che turbi l’equilibrio giudiziario e poliziesco che hanno faticosamente costruito; segare le gambe, appena possibile, alle esperienze che eccedano l’ordine costituito coinvolgendo la nuova composizione sociale giovanile e precarizzata che abita la metropoli postindustriale più grande d’Italia. Manituana cominciava ad accumulare forza, attraversando le lotte in corso e costruendo nuovi terreni di conflitto: era il momento di tarparle le ali.
Ora, se questa vigliacca strategia repressiva è nota e consolidata da almeno un decennio, ciò che ci sembra utile sottolineare è come essa interagisce con il “nuovo” modello di governance sperimentato dalla giunta comunale cinquestelle. Ormai un anno fa, riferendoci a questi temi in un articolo dedicato ai vergognosi eventi di Piazza Santa Giulia dell’estate scorsa, quando la polizia intervenne con la forza per applicare l’ordinanza comunale contro il consumo serale di alcolici negli spazi pubblici, scrivevamo: «assistiamo ad un’inquietante incertezza e ambivalenza dell’amministrazione comunale nella gestione dell’ordine pubblico; un atteggiamento che maschera una precisa volontà di delega della questione sicurezza ai “tecnici” e agli esperti in materia, ovvero prefetto e questore» producendo così «un’azione securitaria incontrollata, fatta di scatti improvvisi e messaggi contraddittori». La giunta comunale ci sembrava allora in bilico tra la volontà di rispondere, almeno parzialmente, alle domande sociali che l’avevano portata al governo e la compatibilità opportunistica con le élites economiche e burocratiche che gestiscono effettivamente la città. Oggi, questo equilibrismo è senza dubbio spezzato e i grandi annunci della campagna elettorali messi definitivamente da parte: lo sgombero di Manituana è solo l’ultima conferma della linea neo-centrista adottata dall’amministrazione cinquestelle, garante – a livello locale e nazionale – della stabilità di governo e degli interessi padronali. Il modello che si intende applicare alle esperienze autogestite, malgrado la patina “municipalista” che alcuni rappresentanti (esigua minoranza della giunta) talvolta evocano retoricamente, consiste nella loro riduzione a meri spazi di discussione critica, a luoghi di sperimentazione “alternativa”, tanto civici quanto inoffensivi politicamente. Questo fenomeno si incarna concretamente in un aut aut netto: la regolamentazione legalitaria o lo sgombero coatto. Come accade a livello nazionale, ciò che resta delle sensibilità “a sinistra” dei pentastellati trova il suo spazio d’azione sul piano simbolico, nella mera testimonianza, senza contare nulla nelle scelte politiche determinanti a livello locale e nazionale. Tra un’impresa culturale gentrificante e un progetto autonomo nato dal basso non c’è dubbio su cosa scegliere, soprattutto quando il secondo diventa un fastidioso ostacolo per i processi di speculazione immobiliare e messa a valore dei quartieri. L’occupazione di Via Cagliari non era solo una minaccia per le geometrie dell’ordine pubblico, ma impediva, al tempo stesso, di affittare quei locali a qualche imprenditore della “cultura” che alimentasse ulteriormente la dinamica di gentrificazione.
D’altro canto, il contratto di governo firmato dalla coppia Salvini-Di Maio parla chiaro e rappresentata la versione neofascista del modello “partecipativo” torinese. Il punto dedicato a «sicurezza, legalità e forze dell’ordine» (p. 43) – da leggere in stretta connessione con quello sull’«immigrazione» – non lascia spazio a mediazioni integratrici e propone un programma inflessibile: la «velocizzazione delle procedure di sgombero» per le 48.000 occupazioni del paese, basandosi sul principio per il quale «le sole condizioni di difficoltà economica non possono mai giustificare l’occupazione abusiva» (p. 44). Nessuna considerazione della ricchezza del tessuto di autorganizzazione e solidarietà costituito dalle migliaia di occupazioni disseminate sul territorio, nessuna presa in carico degli effetti di impoverimento e proletarizzazione prodotti da un decennio di crisi: decoro e disciplina sono ora i corollari dell’applicazione del programma neoliberale. Insomma, un’autentica offensiva nazionale è ufficialmente dichiarata contro spazi sociali e occupazioni abitative. Saranno i prossimi mesi a dirci come questa si declinerà in contesti metropolitani già pesantemente colpiti dalle politiche di normalizzazione e securizzazione dello spazio pubblico, e quali risposte susciterà. Il «ciclo reazionario» nel quale siamo immersi, una volta assunto l’aspetto bifronte del “cinqueleghismo”, sceglie con precisione i suoi campi di attacco. Migranti e realtà autorganizzate sono in testa alle priorità, ma non è difficile indovinare che i terreni della riproduzione sociale, delle soggettività non conformi alle norme di genere e dei rapporti di lavoro saranno i prossimi a essere investiti dalla spirale di autorità patriarcale, nazionalismo e neoliberismo.
A fronte di questa situazione, non possiamo che ripartire dalla concretezza di quanto costruito in tre anni di lavoro e sperimentazione, e da questi ultimi sei mesi in particolare. Come per tante altre esperienze nella nostra città e altrove, uno degli insegnamenti principali che portiamo in eredità consiste nella determinazione collettiva, passione fortificatasi nella quotidianità – spesso faticosa – di un esperimento politico e sociale innovativo condotto in una fase di reazione. È muovendo da qui che possiamo affermare che il deserto apertosi alle spalle delle camionette e degli sguardi nervosi degli ufficiali di polizia non farà sprofondare le mille isole che abbiamo iniziato a costruire. Un arcipelago non è d’altronde riducibile ai suoi confini fisici: la sua geografia è definita dalla capacità di combinare molteplicità e coesione, differenze e unitarietà. Intrecciarne la trama, far parlare e interagire i differenti percorsi di lotta era esattamente la sfida che stavamo discutendo e affrontando nelle settimane precedenti allo sgombero. Tale programma di intersezione delle lotte precarie e femministe, dell’autogoverno libertario, della rottura di ogni frontiera, dei percorsi di autoproduzione culturale e approfondimento collettivo vivrà temporaneamente nelle isole che faremo emergere nella nostra metropoli, lavorando per costruire non uno ma mille arcipelaghi di liberazione. Allargare le faglie presenti nel ciclo reazionario, produrre una controffensiva che dalla quotidianità locale investa il livello globale, non sarà certo comodo e immediato, ma è un’impresa che matura grazie alla persistenza nel cammino imboccato e sulla base della convinzione che l’orizzonte di istituzioni autonome che intendiamo costruire avrà bisogno di terreni e spazi adeguati.
* Manituana – Laboratorio Culturale Autogestito – Torino