MONDO
Tra gli sfollati della guerra in Nagorno-Karabakh
Sono oltre 100.000 le persone obbligate durante e dopo i recenti combattimenti in Nagorno-Karabakh ad abbandonare le proprie case. Chi ha trovato rifugio in Armenia descrive la solidarietà ricevuta ma anche la sofferenza di vite segnate per sempre dalla guerra
Mentre sorseggia un tè in un famoso caffè nel centro di Yerevan, Irina Safaryan, 28 anni, originaria di Stepanakert, ricorda cosa ha fatto il giorno prima che scoppiasse l’inferno. «Quella sera stavamo festeggiando il fidanzamento di uno dei nostri amici della diaspora armena in un pub molto conosciuto chiamato Bardak», ricorda Irina. «Nessuno dei pub di Yerevan può battere quel posto».
La mattina successiva, Irina e sua sorella, che era in visita da Yerevan con la sua bambina, sono state svegliate dal “suono assordante di un’esplosione”. «Ho aperto la finestra e sembrava la scena del film Pearl Harbor», racconta Irina. «Ho detto a mia sorella di prendere velocemente le sue cose e siamo corse al rifugio sotterraneo. Diverse ore dopo, sono uscita per pubblicare sui social media qualche post su cosa stava accadendo».
Era il primo giorno della guerra scoppiata a fine settembre 2020 tra Armenia e Azerbaijan per il Nagorno-Karabakh. La guerra, durata 44 giorni, ha provocato migliaia di morti e decine di migliaia di sfollati.
Irina è nata in un bunker durante la prima guerra del Nagorno-Karabakh, nei primi anni ’90, ed è cresciuta nella città di Hadrut, nel sud della regione: la sua vita è quindi intrecciata con il conflitto, ma nemmeno lei immaginava che i combattimenti sarebbero ritornati con tale ferocia. «Avevamo percepito che qualcosa si stava preparando – ricorda – ma non avremmo mai immaginato che sarebbero state bombardate le città e gli insediamenti civili. Pensavamo che tutto si sarebbe svolto in prima linea proprio come la guerra dell’aprile del 2016. Per 30 anni, Stepanakert e altre città [del Nagorno-Karabakh] non hanno vissuto la guerra».
Irina ha poi rimandato, lo stesso giorno, sua sorella e sua nipote a Yerevan. Lei ha invece deciso di restare. Ha lavorato principalmente presso il centro stampa di Stepanakert e ha contribuito a coordinare gli sforzi di volontariato in città. Anche i suoi nonni e sua madre erano nel frattempo sfollati. Poco più di una settimana dopo, il 6 ottobre, Irina ha deciso di andarsene: la guerra aveva già preso un tributo sia fisico che emotivo troppo alto. Sperava però di rientrare presto.
L’unico dei suoi familiari più prossimi a rimanere in quei giorni in Nagorno-Karabakh è stato suo padre, nella sua città natale di Hadrut. Se ne è poi andato quando le forze azere si avvicinavano alla città.
Dopo che la dichiarazione di pace trilaterale che ha posto fine alla guerra è stata firmata da Armenia, Azerbaijan e Russia, il 10 novembre, Irina si è trovata di fronte al fatto che Hadrut e la loro casa di famiglia erano ora sotto il controllo azerbaijano e che probabilmente non vi sarebbe mai più tornata. Irina, ora rientrata a Stepanakert, alla domanda su quali siano i piani per il futuro suoi e della sua famiglia risponde che il futuro, ora, è una cosa di cui non riesce a parlare: «Non ho niente da dire».
Volontari
Secondo i funzionari del Nagorno-Karabakh durante la guerra sono state sfollate ed hanno dovuto cercare rifugio in Armenia oltre 100.000 persone, il 70% della popolazione della regione. Altri 40.000 sono stati gli sfollati dopo la fine della guerra, poiché residenti nelle regioni che ora sono sotto il controllo dell’Azerbaijan. Al 23 novembre quasi 25.000 persone che se ne erano andate dal Nagorno Karabakh sono tornate.
Quando è iniziata la guerra sono state molte le iniziative di volontariato e le organizzazioni non governative ad adoperarsi in soccorso di chi fuggiva dalla guerra. Poi è presto subentrato il ministero del Lavoro e degli Affari sociali che ha contribuito a coordinare gli sforzi a livello nazionale ed ha fornito assistenza sociale, medica e psicologica di base oltre che gli alloggi.
Gli sforzi di volontariato hanno caratterizzato l’intera società armena.
Gli studi d’arte, i musei e i teatri hanno offerto lezioni e spettacoli gratuiti per i bambini sfollati; cliniche dentali private offrivano cure dentistiche gratuite; e molti hanno aperto le porte delle loro case per accogliere famiglie che si sono trovate senza.
Un gruppo di quattro giovani volontari del piccolo villaggio di Mughni, vicino alla città di Ashtarak, si è incaricato di ospitare e prendersi cura di quasi 170 rifugiati del Nagorno-Karabakh che soggiornano nel loro villaggio. «Tutto è iniziato quando abbiamo messo alcune scatole nel centro di Ashtarak per raccogliere donazioni a favore dei nostri soldati», racconta Marianna Torosyan, 16 anni, la più giovane dei volontari. «Presto la gente chiedeva se si potevano aiutare anche i rifugiati».
Marianna e gli altri tre volontari di fatto si occupano del mantenimento dei bambini e delle donne che soggiornano nel loro villaggio e molti degli sfollati li trattano come se facessero parte della loro famiglia.
Raccolgono continuamente donazioni e hanno un magazzino pieno di cibo e medicine per le famiglie che sostengono. Sono riusciti anche a trovare un donatore dal Canada che ha acquistato vestiti nuovi per tutti i bambini sfollati. Hanno inoltre raccolto la disponibilità sull’utilizzo di molte case i cui proprietari o non vivevano più in Armenia o ne avevano più di una.
Quattro famiglie, una casa
Le prime persone che hanno aiutato a trovare una casa sono state quattro famiglie della regione di Martuni. Ora vi sono venti persone che vivono in una casa a due piani – 15 bambini di età compresa tra 4-14 anni e cinque adulti. Tutti gli uomini di queste famiglie erano inizialmente a combattere in prima linea.
Il giorno in cui li abbiamo incontrati diversi bambini sono corsi da Marianna e Artyom – un suo amico e co-volontario – e hanno fatto la fila per abbracciarli. «Chi ti piace di più? Io o Manan [Marianna]?», ha chiesto Artyom scherzando. «Entrambi!», hanno risposto gioiosi i bambini. Dopo aver trovato un posto tranquillo nell’ampio giardino in modo che i bambini non la interrompessero, una degli adulti, Narine Arzumyan, 49 anni, ha subito iniziato a esprimere la propria gratitudine ai volontari e al villaggio in generale.
Narine ha dovuto abbandonare il villaggio di Yemishjyan il primo ottobre, con i suoi quattro figli e assieme alla sua vicina, con altri sei figli.
«Pensavamo che sarebbe finita presto, quindi all’inizio ci proteggevamo nel nostro rifugio sotterraneo», racconta Narine. «Ma dato che i bambini si stavano spaventando, abbiamo deciso di andarcene. Ora abbiamo trovato questo posto meraviglioso a Mughni».
Narine è rimasta molto colpita dal sostegno ricevuto. Dice che, grazie a questo aiuto, non hanno bisogno di nulla. A suo avviso anche le recenti chiusure scolastiche dovute al Covid-19 non hanno influenzato più di tanto i bimbi.
Marianna e le sue amiche volontarie hanno periodicamente portato i bambini sfollati ai musei della zona e allo zoo e un’insegnante è andata più volte alla settimana a lavorare con loro in modo che non rimanessero indietro negli studi.
Il 5 ottobre, molti dei bambini che stavano a Mughni sono stati battezzati, i volontari sono diventati le loro madrine e padrini . Ora che la guerra è finita, tre delle quattro famiglie sono rientrate, mentre Narine è rimasta, ora raggiunta dal marito.
Mi hanno detto che per ora c’erano troppe “incertezze” in Nagorno-Karabakh ma che intendevano, comunque, rientrare.
I Poghosyans
Un’altra famiglia che ha trovato rifugio a Mughni è stata quella dei Poghosyans: Zhora e Valentina Poghosyan con le loro due nuore, Lilit e Ruzanna, e i loro cinque nipoti. Zhora ha trasportato loro ed altri parenti e vicini – un totale di 25 persone – in un unico viaggio nel suo furgone Ford Transit: ha rimosso i sedili per fare in modo che ci potessero stare tutti. I suoi due figli sono rimasti a combattere.
La famiglia Poghosyan è originaria del villaggio di Togh, nei pressi di Hadrut. Subito dopo la conquista di Hadrut da parte delle forze del’Azerbaijan Lilit è venuta a sapere che la loro casa era stata rasa al suolo. «Quello che sta accadendo in Nagorno-Karabakh è un massacro», mi ha detto la settimana prima della firma della dichiarazione di pace.
«Questa guerra è diversa. Questa volta i droni hanno reso la guerra diversa. I nostri rifugi non potevano aiutare molto. Quel primo giorno siamo stati colpiti dagli Uav, li vedevamo costantemente nel cielo».
«Stiamo sentendo notizie di decapitazioni, e ora le munizioni al fosforo. È disumano – è intervenuta Ruzanna – non vorremmo mai che i loro figli e anziani [dell’Azerbaijan] vivessero quello che stiamo attraversando». «Abbiamo lasciato lì i nostri cuori», ha aggiunto, dicendo che se ne sono andati per il bene dei bambini.
Quando ho chiesto ai bambini cosa mancasse loro di più quasi tutti hanno risposto i loro padri, tranne Avet, di 4 anni. Ha detto che gli mancavano i suoi stivali da pioggia. Con Hadrut ora fuori dal controllo armeno, non hanno più una casa a cui tornare e ad Avet i suoi stivali per la pioggia mancheranno per sempre.
I mariti di Lilit e Ruzanna le hanno poi raggiunte a Mughni, dove rimarranno per il momento. Ruzanna dice che ora vivranno in Armenia, ma senza speranza nel futuro. «Ho perso il mio villaggio natale, la mia casa», afferma. «Non ritorneremo nell’Artsakh [Nagorno-Karabakh] perché ogni centimetro di Artsakh è ora in prima linea. Non è più sicuro per cittadini pacifici come noi».
Incagliati
Non tutte le famiglie del Nagorno-Karabakh sono state fortunate a trovare una casa decente in Armenia. Rima Petrosyan, madre di 23 anni, originaria del villaggio di Askeran e i suoi due figli, sono arrivati in Armenia il 29 ottobre. Sono stati portati in un collegio nella città di Vanadzor, insieme ad altri 100 sfollati.
Ha raccontato che le condizioni in cui vivevano erano “orrende”. Senz’acqua calda e riscaldamento la bronchite dei suoi figli è peggiorata.
Dato che le autorità non fornivano alcun aiuto Rima ha iniziato a chiamare ogni conoscente che aveva con la speranza di trovare un nuovo posto dove poter stare. Fu allora che un’amica l’ha messa in contatto con Marianna. Non c’erano più case a Mughni, così Marianna ha offerto la casa della sua famiglia.
Rima e i suoi due figli sono rimasti lì per due settimane. Suo figlio ha mosso i primi passi a Mughni. La storia di Rima è simile a quella di molti altri in Nagorno-Karabakh. Suo marito, padre e fratello sono rimasti in prima linea. «La paura è nel mio cuore», ha detto. «Desidero solo poter rivedere mio marito e i miei uomini». Dopo la fine della guerra, Rima è tornata a casa nel Nagorno-Karabakh dove è stata raggiunta anche dal marito.
Coesistenza
Ora che le armi tacciono e che alcuni degli sfollati hanno iniziato a rientrare in Nagorno-Karabakh, sta tornando una parvenza di normalità. Ma per molti la situazione è ancora lontana da una vera pace e nessuna delle famiglie con cui abbiamo parlato ritiene sia possibile la convivenza con l’Azerbaijan.
«Se c’era un barlume di speranza prima, questa guerra l’ha cancellato completamente», afferma Irina Safaryan. “«Ho preso parte a iniziative di costruzione della pace per dieci anni e ho incontrato molti azeri. Abbiamo pianto insieme, litigato, passato dei bei momenti insieme. Ma ogni volta che tornavano mi cancellavano dalla loro lista di amici, pur scusandosene. A casa gli venivano fatti problemi».
Irina ha smesso di credere in queste iniziative di pacificazione dopo le prime due a cui ha preso parte. Ora le considera uno spreco di denaro.
«Ho visto miei amici azeri celebrare la morte degli armeni sui social media. Li ho bannati tutti. Credo che vogliano un Nagorno-Karabakh senza armeni».
Narine Arzumyan, madre di quattro figli, originaria del villaggio di Yemishjyan, dice di non aver mai vissuto pacificamente con gli azerbaijani. «Solo quando ho vissuto in Russia per un po’ avevo delle amiche azerbaijane e non abbiamo avuto problemi», spiega.
«Ma non credo che possa accadere in Karabakh. Siamo come cane e gatto». Zhora Poghosyan ha spiegato che negli anni ’60 e ’70 conviveva abbastanza con gli azerbaijani. «Le nostre case erano una accanto all’altra», ricorda. «Ma ora? No, non dopo tutto questo».
La ruota che gira
Gyulvard è cresciuta nella città azerbaijana di Sumgayit, dove ha lavorato come infermiera. Ha detto di aver convissuto pacificamente con gli azerbaijani fino al 1988. Il 27 febbraio di quell’anno vi sono state violenze e pogrom anti-armeni hanno attraversato l’intera città. Ha visto persone trascinate fuori dalle loro case e picchiate, suo fratello è stato quasi ucciso.
Lei stessa è scampata a malapena alla morte. Quando la folla inferocita è arrivata alla sua porta, è stato il suo vicino azerbaijano a tenere a bada gli aggressori. La famiglia è poi fuggita da Sumgayit e si è trasferita in Karabakh, dove però sono scoppiate violenze ancora maggiori. Suo figlio è stato uno dei migliaia a morire nella prima guerra del Nagorno-Karabakh.
Ora, 30 anni dopo, è stato suo nipote ad andare a combattere. «Continuiamo a vedere solo guerra», mi ha detto con un sospiro. Una storia di violenza che si ripete come una “ruota che gira”.
Ma Gyulvard non ha perso la speranza. Sua nipote, Elmira, mi ha raccontato che alcuni mesi prima che la guerra scoppiasse Gyulvard aveva avuto un incubo, che preannunciava il conflitto. «Ne aveva poi avuto un altro, dieci giorni prima della firma degli accordi di pace, in cui Gyulvard si era vista in una chiesa, dove aveva sentito una voce che le diceva di accendere dieci candele, e una volta che lo ha fatto la voce l’ha rassicurata sul fatto che ora, finalmente, la pace sarebbe arrivata».
Immagine di copertina di Dvin Titizian
Pubblicato originariamente su Oc/Media
Pubblicato in italiano su Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa