EUROPA
«Gli scioperi in Bielorussia sono il grido di protesta degli oppressi». Conversazione con Il’jà Budraitskis
In un contesto come quello bielorusso è difficile disgiungere le questioni più economiche e “di classe” da quelle più prettamente politiche. Scioperi e proteste da parte degli operai, che si sono sviluppati nelle ultime settimane, dimostrano quanto la lotta per migliori condizioni di lavoro sia intrecciata con la lotta per una maggiore democrazia
Oltre alle manifestazioni di piazza, alle catene umane, agli scontri che si sono verificati in alcuni quartieri di Minsk, una parte significativa della sollevazione in corso in Bielorussia è data dalle mobilitazioni dei lavoratori. Operai di varie fabbriche statali in vari centri del paese hanno messo in atto scioperi, proteste, rivendicazioni provando anche ad auto-organizzarsi e talvolta unendosi alle manifestazioni generali: un fenomeno inedito per il paese, almeno per quanto riguarda l’intensità con cui si sta sviluppando, e importante per capire anche altre dinamiche relative all’area est-europea. Ne abbiamo parlato con Il’jà Budraitskis, politologo e attivista di Mosca, già autore di Dissidents among Dissidents (Fmp Press, Moscow 2017), che sta osservando lo svilupparsi di questi processi.
Ti aspettavi che si verificassero scioperi e proteste da parte dei lavoratori?
Possiamo dire che il fatto che ci siano lavoratori che sono entrati in sciopero o che si sono uniti alle proteste rappresenta un elemento nuovo e difficile da prevedere, che differenzia quanto sta succedendo in Bielorussia dalla situazione dell’Ucraina nel 2014 e dell’Armenia di due anni fa. È, probabilmente, una conseguenza della peculiare struttura economico-sociale della Bielorussia, in cui sussistono dall’epoca sovietica numerose fabbriche e aziende di grosse dimensioni che portano dunque ad avere nelle città una buona concentrazione della classe operaia.
Qualcosa di simile sarebbe impensabile o perlomeno poco probabile in altri contesti pur vicini come, per esempio, Mosca: la composizione sociale è tale che difficilmente possono darsi organizzazioni e riunioni di lavoratori su vasta scala.
Ma, ovviamente, l’altro importante elemento è dato da una crescente coscienza politica che sta dimostrando la classe operaia bielorussa. Durante i 26 anni di regime di Aljaksandr Lukašėnka l’azione dei sindacati è stata fortemente limitata, quando non del tutto proibita. L’organizzazione e le mobilitazioni a cui assistiamo in questi giorni, allora, vengono portate avanti in maniera sostanzialmente autonoma.
Quali sono state le politiche di Lukašėnka nei confronti dei diritti lavorativi?
In Bielorussia non esiste praticamente alcun sindacato indipendente. Questo perché le misure intraprese dal Presidente della Bielorussia, durante tutti i suoi anni di governo, sono andate verso qualsiasi tipo di diritto di stampo collettivo nell’ambito del lavoro. L’assenza di totale indipendenza e l’accentramento della forza lavoro in poche fabbriche statalizzate sono la conseguenza di tali politiche.
Nel corso degli eventi degli ultimi giorni, Lukašėnka ha rilasciato varie dichiarazioni che – a mio modo di vedere – mettono bene in luce la sua concezione del lavoro e dei lavoratori. Rivolgendosi a chi scioperava, ha dichiarato che «è un lavoratore solo chi lavora: se decidi di uscire dalla fabbrica e protestare, non sei più considerato un lavoratore». In pratica, chi è impiegato in una fabbrica non esiste al di fuori della fabbrica stessa, il lavoratore che decide di manifestare o scioperare automaticamente non è più un soggetto titolare di diritti politici. Si tratta di una visione estremamente corporativistica, da industrialismo da prima metà del XX secolo, anche un po’ fascista.
I lavoratori che protestano si stanno ribellando a questa concezione?
Va detto che, al momento, non siamo in una situazione di sciopero totale e generalizzato. Ci sono vari focolai di protesta nelle fabbriche che avanzano rivendicazioni anche diverse fra loro. In molti, protestano chiaramente affinché ci sia un riconteggio dei voti, visto il modo in cui sono state gestite le elezioni.
In generale, possiamo dire che scioperi, assemblee e manifestazioni da parte dei lavoratori si stanno sviluppando in maniera spontanea e non organizzata dall’alto. L’intensità e l’estensione degli scioperi non è tale da paralizzare la produzione, ma certamente c’è una maggiore partecipazione dei lavoratori nella vita politica del paese a partire anche che in alcuni casi gli operai si sono uniti alle manifestazioni di piazza (è successo a Minsk con i lavoratori della fabbrica di trattori Mtz).
Esistono inoltre tentativi di autogestione e coordinamento dei vari lavoratori in sciopero, che si svolgono soprattutto attraverso canali Telegram, in cui tra l’altro si sta provando a elaborare richieste e rivendicazioni in maniera indipendente da qualsiasi forza d’opposizione politica e concentrandosi maggiormente su diritti contrattuali, salariali, ecc.
A proposito di questo, in molti (tra cui per esempio Slavoj Žižek) temono che poi le condizioni materiali potrebbero pure peggiorare nel caso dovesse cadere Lukašėnka…
Qualche giorno fa “Novaja Gazeta” ha intervistato un giovane operaio bielorusso della Mtz, che è poi diventato un esponente del comitato di sciopero che prova a organizzare i lavoratori. Non si considera un attivista, né sembra particolarmente interessato alle cosiddette “questioni di classe”. Racconta però di aver deciso di assumere in prima persona un ruolo attivo nel momento in cui – durante le proteste – il direttore di fabbrica ha chiesto con tono sprezzante ai lavoratori in sciopero chi fosse il loro referente, in pratica non riconoscendo gli operai come un potenziale soggetto politico.
Penso che questo spieghi molto bene come in Bielorussia, ma in generale nell’intero contesto est-europeo, quando le persone chiedono “democrazia” non stanno pensando a un sistema di governo liberale magari simile a quello dei paesi occidentali.
È un grido di protesta, un concetto che ha più a che fare con una richiesta di dignità da parte di chi è oppresso, con l’esigenza di essere ascoltato e accettato appunto come soggetto politico. Si tratta, a tutti gli effetti, di una sorta di coscienza di classe, sebbene la “classe” non si presenti negli aspetti e nelle caratteristiche cui gli intellettuali di sinistra ben istruiti sono abituati a riconoscerla. Eppure, il punto è proprio questo: in contesti come quello bielorusso, le questioni sociali e di classe non si possono disgiungere totalmente dalle questioni di ordine più prettamente politico, anche in un senso di politica rappresentativa.
Non dimentichiamoci che il discorso pubblico di Lukašėnka e dei suoi sostenitori non è solo “anti-occidentale” ma si presenta proprio come anti-democratico in senso stretto: esprime il rifiuto più completo che un qualche tipo di sovranità possa appartenere al popolo. Credo che, in una situazione che così perdura da oltre 20 anni, non si possa considerare il problema dei diritti civili alla stregua di come lo si considera in altri paesi.
Foto dal gruppo Telegram Баста!