editoriale
12 maggio 1977: Giorgiana Masi, nulla di misterioso in quella morte
Il 12 maggio del 1977 veniva uccisa Giorgiana Masi. Un racconto-ricordo di chi in quelle piazze c’era
Contro i tentativi di revisionismo degli assassini in borghese, sponsorizzati da Repubblica.
«Hanno sparato a una compagna. È successo sul ponte…a Trastevere». Così ho scoperto della morte di quella che poi, più tardi, avrei saputo chiamarsi Giorgiana. Giorgiana Masi.
Erano ore che in piccoli gruppi cercavamo di entrare in quelle piazze (piazza Navona, La Cancelleria, Campo dei Fiori), le nostre, quelle del movimento. Ci provavamo, ma con violenza ci veniva impedito. Noi quel giorno in piazza volevamo starci, volevamo essere a piazza Navona per partecipare alla festa organizzata dai radicali per l’anniversario del referendum sul divorzio.
Francesco Cossiga, il ministro degli interni democristiano, Kossiga l’americano, aveva vietato tutte le manifestazioni, dopo quella del 12 marzo dove, per ore quelle stesse strade erano state attraversate in lungo e largo da un corteo di 100 mila persone e dalla loro rabbia per un altro assassinio, quello di Francesco Lo Russo, lo studente bolognese di Lotta Continua colpito da una pallottola di un carabiniere.
Da subito non sono riuscita a entrare a piazza Navona. Non ci sono proprio arrivata. Era impossibile. Uno schieramento di blindati, non tecnologicamente sofisticato come gli attuali, ma ugualmente impenetrabile, bloccava tutte le vie di accesso alla piazza e ad ogni nostro tentativo di entrare partivano le cariche.
Corse infinite, in mezzo al fumo dei lacrimogeni, per poi ritrovarsi in gruppo e ripartire. Iniziammo a sentire colpi di arma da fuoco, anche se a me, che non lo avevo capito, sembravano dei botti, che comunque mi terrorizzavano. Decidemmo con le compagne e i compagni che si erano uniti a noi di andare avanti, entrare in una piazza.
Quei ragazzi con la pistola in pugno, vestiti come i nostri compagni, li vedemmo subito. A piazza della Cancelleria, a corso Vittorio si muovevano con disinvoltura fra i blindati e gli agenti schierati. Ma nessuno, tra noi, mostrò di avere paura e quando ci ripenso – perché a Giorgiana non abbiamo mai smesso di pensarci e alcune di noi, con quel nome, hanno voluto chiamare le proprie figlie, oggi meravigliose donne e nostre compagne – ricordo la paura, la corsa fra le vie del quartiere Rinascimento, il respiro che ti manca, mentre gli occhi bruciano. Non solo questo.
Rivedo le mie compagne, le gonne a fiori, gli zoccoli olandesi che portavamo tutte e con i quali riuscivamo persino a correre. Si, correvamo con il fiato in gola e “loro” dietro. Ci facevano paura, ma continuavamo. Per ore. Ci ritrovammo dopo molto tempo rinchiuse a Campo dei Fiori, non si poteva uscire. Non so come riuscimmo ad ottenere l’apertura di una via per poter defluire verso Trastevere. Una trappola, fummo caricate su ponte Garibaldi. È lì che fu uccisa Giorgiana, dopo sette ore di scontri.
L’omicidio di Giorgiana Masi è stato definito un “mistero italiano”. Per noi non c’è stato mai nessun mistero. Come è morta Giorgiana lo sappiamo da quella sera in cui ci arrivò la notizia, alla fine di una giornata convulsa, violenta, drammatica.
Sconvolte e ammutolite per il dolore, fummo annichilite dalle prime dichiarazioni “ufficiali” che cercavano di addossare la responsabilità al “fuoco amico”. Si disse che all’interno del corteo c’erano uomini armati, ma non appartenevano alle forze dell’ordine.
Le immagini, allora non così numerose come avviene da Genova in poi, degli agenti in borghese che sparano, smentiranno il Questore che negava la loro presenza in piazza. Francesco Cossiga fu costretto a chiedere scusa in Parlamento per aver mentito, negandolo. Le inchieste che seguirono a quell’omicidio non hanno mai fatto luce sugli avvenimenti. Dopo quattro anni, il caso è stato archiviato per mancanza di prove e gli autori dell’omicidio rimasti ignoti.
Oggi esce un libro che racconta la vita dell’agente in borghese ritratto nella foto che Tano D’Amico scattò quel giorno, il poliziotto Santone, quello con il borsello a tracolla, piegato davanti a una macchina. Lo stesso che pochi giorni fa, come anticipazione di un prossimo libro, su “la Repubblica” dichiara in un’intervista: «L’Espresso scrisse che eravamo infiltrati fra i manifestanti. Non era vero. Eravamo guardie di pubblica sicurezza e come tali non obbligati alla divisa».
«Ero un ragazzo che seguiva la moda».
«La borsa di Tolfa serviva per le sigarette, la carta igienica, i gettoni, il portafoglio».
«Cossiga fu il più grande Ministro degli Interni di sempre. Non sapeva niente dell’ordine pubblico di quel giorno».
Per noi che quel giorno eravamo insieme a Giorgiana e tanti e tante altre a rivendicare diritti e libertà di manifestare, per festeggiare una vittoria di tre anni prima, è insopportabile che si trasformi in una vittima chi fu protagonista, con molti altri, di quel massacro.
Erano anni meravigliosi, quelli. Gli anni di grandi battaglie, di grandi conquiste. Il movimento delle donne si riappropriava dello spazio pubblico e costruiva luoghi separati di discussione.
Da quel giorno, si iniziò a tessere un’altra narrazione, sulla “paura” che avrebbe da allora costretto i cittadini di Roma a non uscire di casa, fino a risorgere con l’estate romana di Renato Nicolini. Un’altra delle tante narrazioni tossiche ad accompagnare una strategia della tensione che sarebbe continuata con i tanti attentati alla democrazia che seguirono.
Quel giorno il movimento non ebbe paura ad essere nelle strade, né ad uscire di casa, né a sfidare le imposizioni di Cossiga.
Da allora sappiamo che nulla di misterioso è in quella morte.