approfondimenti
EDITORIALE
Genova per noi. Una sfida ancora aperta
Nel luglio 2001 per i movimenti si apre una nuova epoca, proiettata nello spazio globale. Dopo vent’anni e dopo diversi cicli di lotte transnazionali, non è utile chiedersi chi abbia vinto o perso ma, piuttosto, cosa quella battaglia abbia generato
Questo testo costituisce l’editoriale di apertura del terzo numero di Dinamoprint, uscito a giugno di quest’anno: 150 pagine di inchieste, analisi, interviste e reportage *
«Avevamo ragione, ma siamo stati sconfitti»: sembra quasi un automatismo del pensiero quello che coglie chi è passato nel 2001 per le mobilitazioni contro il G8 di Genova e le guarda oggi a vent’anni di distanza. Del resto, il prezzo che quel movimento pagò in termini di vite, anni di galera e persecuzioni giudiziarie fu altissimo e costituisce per quella generazione politica una ferita ancora oggi non rimarginabile. Nell’ormai lungo periodo che ci separa da quelle giornate, la globalizzazione neoliberista non ha smesso di precipitare da una crisi all’altra, sfaldando le basi del proprio consenso e rilanciando ogni volta il suo progetto con un volto sempre più feroce.
La recente pandemia, almeno per un momento, ha fatto risuonare nel mondo intero quelle stesse parole d’ordine che furono della generazione alter-globalista. Eppure, quel riflesso incondizionato che spinge a vedere quel movimento come giusto ma perdente, rischia di proiettare sul dibattito pubblico una posa al tempo stesso vittimistica e consolatoria, lasciando in consegna a chi attraversò le strade di Genova nulla di più che lo sfiancante compito di aggiornare le ragioni e i torti di ieri.
Quella trappola del pensiero non tiene sufficientemente in conto che le soggettività che dovrebbero oggi riflettere e mettere in prospettiva gli eventi intercorsi in questi due decenni, non sono più le stesse. Così come del resto ha cambiato pelle il loro nemico giurato.
Prendere sul serio il lascito delle giornate di Genova vuol dunque dire innanzitutto rompere quell’incantesimo e ripartire da ciò che quel movimento ci ha permesso per la prima volta di vedere: l’apertura di una lotta politica che ha finalmente conquistato lo spazio globale come il proprio campo di battaglia, una battaglia che in questi venti anni non ha smesso di adattarsi alle spinte che provenivano dal basso e dall’alto, modificando radicalmente gli stessi soggetti di quel conflitto.
Seattle, 1999 (foto di Friends of the Earth International da Flickr)
Dov’è finita la globalizzazione
Il ciclo di mobilitazioni che da Seattle nel 1999 passò per diverse città del mondo fino ad arrivare nel 2001 nel capoluogo ligure, interruppe quel «lungo inverno» che dagli anni Ottanta aveva scandito il procedere quasi senza ostacoli della contro-rivoluzione neoliberale: la “scoperta” di quella nuova forma di azione politica – che aveva individuato negli appuntamenti delle organizzazioni transnazionali la rappresentazione plastica del nuovo potere globale che si stava consolidando – aveva trovato nei controvertici il metodo pratico per costruire un nuovo spazio per la lotta. Fu la sollevazione zapatista del 1994 a rompere la lunga continuità della “solidarietà internazionalista” tipica degli anni Ottanta e Novanta e a lanciare la sfida che quel movimento fece propria.
Quello che ancora oggi noi pensiamo della globalizzazione neoliberista deriva in buona parte dall’immaginario antagonista mobilitato da quel ciclo di movimento: chiedersi dunque oggi – a partire da quella conoscenza critica – «dov’è finita la globalizzazione» ci permette di prendere le distanze da coloro che ne hanno frettolosamente decretato la fine così come, allo stesso tempo, di rendere nuovamente visibili le mutate sembianze che questa ha assunto nel tempo intercorso.
L’immaginario della globalizzazione come uno spazio liscio e omogeneo e la figura concentrata e unificata del potere globale che quei movimenti avevano fatto risaltare nei controvertici, trova difficilmente corrispondenza nella riorganizzazione contemporanea del potere capitalistico globale. Oggi, si misurano più gli scarti che le continuità con quella rappresentazione. Eppure, più che il frutto di ingenuità, quegli scarti sono soprattutto il segno di una riorganizzazione del potere che solo il pensare la globalizzazione come terreno di lotta ci consente di cogliere.
Pochi anni sono in questo senso esemplificativi come il 2001. In quello stesso anno si registra per le strade di Genova il punto di massima espressione della forza organizzativa del “movimento dei movimenti” e il punto di massima reazione contro di esso.
L’attacco alle torri gemelle (da commons.wikimedia.org)
L’immane violenza scatenata dal Governo Berlusconi in quelle giornate – con l’omicidio di Carlo Giuliani, il blitz alla Diaz, le torture nelle caserme e l’assalto sistematico dei cortei – fissa il conflitto sociale animato da quella generazione politica nella forma della guerra. Solo pochi mesi dopo, in risposta all’attentato alle Torri Gemelle, George W. Bush inizierà quella “guerra al terrorismo” che rappresenterà per gli Stati Uniti d’America il tentativo estremo (poi rivelatosi fallimentare) di ricentralizzare attorno a sé il nuovo ordine mondiale, estendendo il dispositivo bellico sul piano globale e proiettandone le logiche securitarie e liberticide all’interno degli stati.
La logica della guerra intervenne sul corpo di quel movimento segnandolo in profondità, ma ne costituirà anche un fondamentale apprendistato politico: in quello stesso momento si sgretola infatti la presunzione di misurare in termini meramente militari le piazze, così come, d’altra parte, verrà meno l’idea che la sfida conflittuale lanciata da quel potente ciclo di lotte potesse tradursi semplicemente nella creazione di una “sfera pubblica globale” nella quale – scommettendo su una progressiva costituzionalizzazione del governo mondiale – proiettare quelle stesse dinamiche di mediazione, rappresentazione e negoziazione tipiche degli spazi nazionali.
Quella tensione, che aveva in buona parte animato molti dei protagonisti dei “Social Forum”, si infrangerà qualche tempo dopo con le manifestazioni che in tutto il mondo nel 2003 si opposero alla guerra in Iraq. Davanti all’impotenza di quei cortei oceanici risultò evidente che quella «sfera pubblica globale» si era ridotta a mera «opinione pubblica», incapace di produrre alcuna effettiva resistenza.
Le moltitudini si prendono le piazze
Ma il 2001 è un anno fatidico anche per un altro evento decisivo: nel dicembre, a seguito di una crisi economica che porta in l’Argentina sull’orlo del collasso, esplode un movimento popolare di grande radicalità ed estensione. Quelle rivolte di massa, che misurano insieme il fallimento delle politiche neoliberali e austeritarie e la corruzione del sistema della rappresentanza parlamentare, sembrano preannunciare l’ondata di mobilitazioni che si estenderà in tutto il mondo qualche anno dopo, a seguito della crisi economica e finanziaria del 2007/2008.
Con le «primavere arabe», il «15M» in Spagna, «Occupy Wall Street» negli Stati Uniti e le proteste in Grecia, prende vita un ciclo di lotte sulla cui scia si inseriranno mobilitazioni in molti altri paesi e di cui in Italia si ebbe solo un’anticipazione con l’Onda studentesca e una ridotta espressione con il movimento dei Beni Comuni.
Con gli smottamenti prodotti dal collasso finanziario, il declassamento di parti consistenti del ceto medio e la contestazione di una classe politica asserragliata a difendere misure di privatizzazione e tagli alla spesa, prenderanno vita forme di politicizzazione del corpo della società che non trovarono immediata corrispondenze nella memoria recente dei movimenti.
La rivendicazione di «democrazia reale», animata questa volta da una composizione sociale di massa, eccederà da tutti i lati le forme della militanza del precedente movimento globale, spiazzando così le culture politiche tipiche delle strutture organizzate che ne erano state protagoniste.
Le moltitudini invocate dal movimento dei movimenti occupano ora gli spazi delle città, questa volta per rimanerci: come anticipato dai piqueteros argentini, i blocchi della circolazione delle merci si diffondono diventando una forma di lotta che punta a fermare l’organismo produttivo delle metropoli, mentre le piazze della città diventano lo spazio per assemblee permanenti che mettono in gioco una presa di parola senza delega né rappresentanza che ricorda solo in lontananza i vecchi Social Forum.
15M a Malaga (da commons.wikimedia.org)
Pur collocati all’interno dei territori nazionali e in assenza di momenti di concentrazione come i contro-vertici, la dimensione globale di questi movimenti non viene però meno: si presenta soprattutto nella “circolazione” transnazionale dei claims e delle forme di lotta, come le acampadas, che si diffondono rimbalzando tra contesti differenziati.
L’incapacità di questi nuovi movimenti di uscire dal proprio contesto nazionale ne determinerà uno dei limiti più vistosi: anche quelli passati parzialmente dentro esperienze di governo nazionali dovranno constatare che limitare l’iniziativa politica in quell’unico spazio di azione determina l’incapacità di imprimere dei mutamenti radicali nei rapporti di forza della società.
Inoltre, quegli elementi di connessione e circolazione delle lotte non riusciranno mai a consolidarsi in uno spazio propriamente transnazionale – nonostante tentativi fatti in questa direzione: la difficoltà concreta di mettere in comunicazione mobilitazioni di massa e movimenti più militanti, di tradurre in una temporalità comune i diversi tempi delle soggettività, ha posto un blocco a quel ciclo politico che è sembrato per lungo tempo inaggirabile, limitando così la relazione tra i differenti movimenti alla formula stantia della solidarietà internazionale.
Un globale di nuovo tipo
A vent’anni di distanza dall’evento genovese, lo scenario globale dei movimenti è però nuovamente mutato. Se da un lato non smettono di moltiplicarsi mobilitazioni popolari di tipo insurrezionale – come abbiamo provato a documentare nel primo numero di Dinamoprint andando in Cile, Francia, Ecuador, Hong Kong, Catalogna, Iraq e Palestina – dall’altro lato queste ricorrenti sollevazioni portano il segno di un nuovo principio di organizzazione politica: l’idea cioè che le lotte che insistono contro differenti stati di dominio e sfruttamento, invece che giustapporsi l’una con l’altra, devono intersecarsi in una molteplicità aperta e non gerarchica.
Se ancora il movimento alter-globalista ebbe l’intuizione di far «marciare insieme» soggettività e rivendicazioni differenti, i movimenti transfemministi, antirazzisti e quelli per la giustizia climatica hanno per primi visto nello spazio globale un qualcosa di diverso: un terreno non più di mera «convergenza», ma di «traduzione» delle pratiche, dei linguaggi e delle soggettività, per cui ogni lotta risulta aumentata e approfondita dal procedere delle altre.
In questi ultimi anni, il “globale” è divenuto inoltre sempre più il campo di iscrizione di iniziative comuni di conflitto – come gli scioperi femministi ed ecologisti – che a partire dalla dimensione transnazionale interpellano direttamente il problema della sospensione dei rapporti di produzione e riproduzione di intere società.
In questo procedere, che racchiude un’inedita articolazione tra territori e spazio globale, queste nuove esperienze di conflitto sembrano volersi misurare con il tentativo di far corrispondere alla ricomposizione mondiale del capitale una nuova figura di classe transnazionale e, per questa via, un nuovo tipo di internazionalismo.
È solo da questa prospettiva, che vede in questi vent’anni che ci separano dal movimento del 2001 un lungo apprendistato politico per i movimenti sociali – fatto di interruzioni continue e di continue riemergenze – che è possibile riannodare i fili di una storia in divenire che non smette di rilanciare una stessa pretesa: essere in grado di confrontarsi su quella stessa dimensione globale su cui il capitalismo neoliberista organizza le sue forze, costruendo forme di organizzazione e azione che consolidino un potere di altro tipo.
È stata questa in fondo la posta in palio e la sfida lanciata dal movimento che si ritrovò a Genova nell’estate del 2001. I venti anni che ci separano da quell’evento hanno però trasformato radicalmente le soggettività, ne hanno esteso enormemente le ambizioni democratiche, la composizione sociale e ridefinito profondamente le ragioni della lotta, in un modo tale che quel movimento passato non riuscirebbe oggi più a esprimerle né a contenerle.
Eppure, è proprio per questo motivo che non vale a nulla chiedersi se abbiamo vinto o abbiamo perso: la sfida lanciata è ancora aperta e quella posta in palio è ancora la nostra.
* Dinamoprint è la pubblicazione cartacea a cura della redazione di DINAMOpress. La prima sezione del terzo numero è interamente dedicata al tema della “globalizzazione”, con una riflessione di Toni Negri, un’intervista alla teorica femminista Veronica Gago a cura di Alioscia Castronovo, un racconto a fumetti su Genova realizzato da Claudio Calia, un ricordo su Bolzaneto del giornalista del “manifesto” Simone Pieranni, un’indagine sul mediattivismo che interpella protagoniste e protagonisti delle giornate del luglio 2001 condotta da Francesco Brusa e Sofia Cabasino, una conversazione di Lorenzo Sansonetti con il fotografo Tano D’Amico, le disamine articolate di Andrea Capocci su brevetti e accessibilità alle cure a livello planetario, di Monica De Sisto su economia e mercato globale, di Emanuele Giordana sui mutamenti delle forme di conflitto bellico, dalla guerra in Afghanistan a oggi. A chiudere la pubblicazione, due ulteriori sezioni sulle lotte per la giustizia climatica e sulla solidarietà nel Mediterraneo, più due reportage fotografici dall’Argentina.
Immagine di copertina di Gabrio Mucchi