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Venezia 3 / “Gaza Mon Amour”
Gaza Mon Amour dei fratelli Tarzan e Arab Nasser è una commedia che esplora la quotidianità di un pescatore sessantenne di Gaza. Una favola d’amore tenera, ironica e intelligente, finora il lavoro più prezioso della sezione “Orizzonti” a Venezia
Gaza Mon Amour è un film che esplora con gentilezza una possibile quotidianità della città di Gaza.
I fratelli Tarzan e Arab Nasser, palestinesi ma d’adozione parigina ormai decennale, si portano dietro dal precedente lavoro, selezionato a Cannes nel 2015, le due attrici Hiam Abbass e Maisa Abd Elhadi che da clienti del salone di bellezza di Dégradé, sono ora la signora Siham e sua figlia, sarte nel mercato di Gaza. Il protagonista è Salim Daw nei panni di Issa Nasser, un pescatore sessantenne che in quello stesso mercato vende le sue sardine. Ha una sorella che in modo invadente prova a occuparsi della sua vita mentre l’obbiettivo dell’uomo è conquistare Siham di cui è segretamente innamorato.
La routine di queste vite, che a malapena si incrociano nel mercato o lungo la via, è raccontata dai due registi come una forma vitale di resistenza. Esploriamo Siham e Issa lentamente e per tutta la durata del film: sono personaggi cauti, dai primi piani intensi, che non hanno nessuna fretta di descriversi e la cui relazione acquista senso nel nostro sguardo ancor prima di essere intrapresa. Lo studio quasi anatomico della dimensione privata prende vita nel contesto della città. C’è la polizia di Hamas, un’esplosione all’orizzonte, lo sciopero del trasporto e soprattutto c’è il mare. Ed è proprio nelle acque territoriali che accade l’evento assurdo attorno al quale Tarzan e Arab Nasser mostrano con tenera ironia le contraddizioni di un territorio come la Striscia di Gaza.
Durante una consueta uscita notturna, Issa tira a bordo una statua di Apollo dal fallo prominente (episodio ispirato a un ritrovamento del 2013). La statua viene presa nella rete come fosse un enorme pesce che la polizia e i funzionari non tarderanno a considerare di loro proprietà. «Dove hai trovato la statua? All’inizio, a metà o alla fine del mare?», viene chiesto a Issa. La “fine” del mare, definizione di cui viene sottolineata l’inappropriatezza, allude a quel limite illegale imposto dalle autorità israeliane nonostante gli accordi internazionali e ci ricorda gli interventi della pirateria e la sofferenza del popolo dei pescatori, in molti ormai ridotti a semplici pescivendoli. Il mare che bagna Gaza è un feroce terreno di scontro con Israele che ne limita continuamente l’agibilità (da ultimo lo scorso agosto) in seguito alle riprese del conflitto. Se guardiamo il film, dobbiamo tenerlo a mente.
Apollo, invece, ci ricorda come le statue siano dei documenti della cultura ma anche degli oggetti che meglio e più di altri possono incarnare la celebrazione – e in questo caso le bizze – del potere. Intorno alla statua e al suo pene l’Autorità di Hamas interviene a più riprese. Il fallo è l’oggetto su cui, inevitabilmente, il film raggiunge dei guizzi quasi satirici appoggiandosi ai canoni classici della commedia. L’Apollo viene prima nascosto da Issa, poi trovato dalla polizia e infine esaminato e valutato da un esperto per essere venduto, rallentando l’impresa di chiedere la mano della donna. Da documento dell’antichità nelle mani intuitive del pescatore diventa merce nelle mani incompetenti della burocrazia e motivo di arresto per il protagonista. Fa sorridere però tutta la vicenda, aggiungendo leggerezza laddove non ne troveremmo. I due registi, che intendono raccontare la terra in cui sono cresciuti, ironizzano anche sulle armi. Così sorridiamo di fronte a un missile, altro fallo goffamente maneggiato, in una scena d’insieme organizzata da un obiettivo fisso calato nel caos della città. Nonostante il contesto sia al servizio della storia, sono molti gli elementi che ci fanno pensare che questa, che in fondo è una favola d’amore, sia prima di tutto una vicenda di Gaza. C’è la televisione con le soap opera arabe che la giovane figlia di Siham non tollera, il telegiornale con i servizi sulla sofferenza del popolo palestinese, la luce elettrica a intermittenza e di cui bisogna approfittare, i tipici piatti di pesce che Issa cucina con una certa cura.
Con tono delicato i fratelli Nasser (che prestano il cognome al loro protagonista) costruiscono l’ambiente in cui l’incontro tra i due può finalmente avvenire ed elaborano una dinamica che nello splendido finale libera tutta la sua bellezza, suggerendoci quanto dissacrante possa essere prendere il largo su un peschereccio nelle pericolose acque di Gaza. Gaza Mon Amour è una commedia malinconica sul diritto a restare, costi anche una quotidiana lotta per la felicità.