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Gaza contro il narcisismo dell’Occidente

“Gaza davanti alla storia” di Enzo Traverso affronta alcuni dei nodi decisivi della questione palestinese. L’autore si confronta con il 7 ottobre, descrive lo scenario nel quale è stato organizzato l’attacco di Hamas e propone una lettura del conflitto al di fuori del discorso attualmente dominante

Nel giorno in cui questo articolo è stato scritto, Al Jazeera riferiva di «almeno 15 morti nel bombardamento israeliano di una scuola gestita dalle Nazioni Unite e di due campi profughi a Gaza». Non è importante quale giorno fosse: ciascuna delle trecento giornate che ci separano dal 7 ottobre 2023 è stata segnata da uccisioni di massa, aggressioni, violenze strutturali, bombardamenti indiscriminati da parte dell’esercito israeliano contro la popolazione palestinese, dentro e fuori Gaza.

All’interno di questo scenario si colloca il primo merito di Gaza davanti alla storia di Enzo Traverso (Laterza, Bari 2024, 12 €). Il libro è interamente collocato nell’urgenza del presente ed è stato progettato e scritto con un obiettivo specifico: «La storia della guerra a Gaza sarà scritta nei decenni a venire e le sue motivazioni, oggi confuse, saranno accuratamente valutate; oggi bisogna fermarla» (p. 19).

Traverso distende la questione Gaza ben oltre i confini del dibattito pubblico attuale. È un libro agile – poco meno di 100 pagine – scritto in maniera fluida e accessibile. Allo stesso tempo, Gaza davanti alla storia è un progetto denso e ambizioso. Traverso affronta e scompone l’ordine del discorso dominante sulla guerra di Israele contro Gaza fino a mostrare l’inconsistenza storica, politica e logica dei suoi assi portanti.

L’epifania negativa e il trionfo dell’innocenza

L’autore non rifugge dalla necessità di confrontarsi con il 7 ottobre e non concede sconti a Hamas. Nelle prime righe del libro definisce «necessaria e comprensibile» la condanna nei confronti del 7 ottobre. Dopo di che si sviluppa una delle tracce fondamentali dell’opera costituita dallo sforzo serrato per collocare nella giusta prospettiva l’attacco progettato da Hamas e dalle altre organizzazioni palestinesi. L’operazione discorsiva appare convincente. Il 7 ottobre non è un’improvvisa «esplosione di odio»: ha «una lunga genealogia».

Traverso descrive accuratamente lo sfondo. Fa una rapida ricognizione sugli attacchi del governo israeliano a partire dal ritiro di Israele dalla striscia del 2005, richiama le parole utilizzate da Said – ancora molto attuali – nel 2002 per descrivere Gaza, ricorda quanto la condizione sociale ed esistenziale della popolazione palestinese sia radicalmente subalterna.

Il contatore non è «ripartito da zero» e il 7 ottobre non segna l’«improvvisa apparizione del male». L’attacco di Hamas «è il prodotto di un lungo processo di oppressione e sradicamento».

Nella seconda parte del libro, l’autore ritorna sul tema della violenza da un’altra angolatura: si confronta con alcuni temi che hanno attraversato – e a volte diviso – le manifestazioni a sostegno della Palestina. Da una parte appare chiaro che «decenni di occupazione non diminuiscono l’orrore». In ogni caso la violenza israeliana è il presupposto logico di quella palestinese: «il terrorismo di Hamas è il risvolto dialettico del terrorismo dello stato israeliano».

Traverso arriva dunque al nodo della questione violenza. Per Traverso «negare l’appartenenza di Hamas alla resistenza palestinese invocando la sua natura terroristica non è né utile né serio». Peraltro, i confini di ciò che è classificabile come terrorismo sono colmi di implicazioni politiche. I caratteri della violenza esercitata da Hamas possono essere colti solo all’interno del contesto generale in cui hanno preso forma: Traverso invita ad archiviare i lunghi decenni segnati da «politiche memoriali focalizzate esclusivamente sulla sofferenza delle vittime, tese a presentare la causa degli oppressi come trionfo dell’innocenza».

Orientalismo 2.0

Un’altra delle tracce seguite da Traverso riguarda l’immaginario globale con cui Israele e lə popolazione palestinese sono diffusamente raccontati. Anche rispetto a questo tema, l’autore si confronta con Said, secondo il quale l’Occidente è incapace di definire sé stesso se non in opposizione all’alterità. Rispetto al XIX secolo, durante il quale «l’Occidente pretendeva di diffondere la civiltà attraverso le sue conquiste», oggi «si considera una fortezza assediata». Tra assediato e assediante non c’è simmetria: «accanto alle dichiarazioni rituali sul diritto di Israele a difendersi, nessuno menziona mai il diritto della popolazione palestinese a resistere a un’aggressione che dura da decenni».

Traverso esplora, con precisione e coraggio, il cambiamento di segno nel discorso orientalista rispetto alla questione ebraica. Al culmine dell’affermazione globale dell’orientalismo, all’inizio del XX secolo, «gli ebrei facevano parte dell’Occidente come ospiti indesiderati, esclusi e disprezzati»; «esclusi dal potere […] incarnavano la coscienza critica dell’Europa». Oggi, viceversa, nel discorso pubblico dominante in Europa occidentale «la lotta contro l’antisemitismo è diventata la bandiera dietro la quale si radunano tutti i movimenti postfascisti e di estrema destra, pronti a combattere la “barbarie islamica” prima ancora di essere liberati dei vecchi pregiudizi antisemiti». Questa radicale trasformazione è testimoniata, tra l’altro, dall’alleanza singolare tra «i suprematisti ebrei di Israele e i suprematisti bianchi degli Stati Uniti».

Traverso descrive anche quanto questo cambiamento di posizione nel discorso orientalista abbia avuto conseguenze dirette anche all’interno della società israeliana. Ad esempio, dopo l’arrivo in Israele, «gli ebrei provenienti dal mondo arabo sono stati chiamati “orientali”[…]. La loro nuova identità li distingueva dagli ebrei europei riproducendo la consueta opposizione coloniale tra Oriente (l’Islam) e Occidente (l’Europa ebraico-cristiana)». Questa politica ha avuto conseguenze radicali: «gli “orientali” furono sottoposti a una politica di assimilazione, a una “automutilazione mentale” del tutto simile a quella descritta da Fanon a proposito delle Antille francesi».

Si tratta di un costante sforzo, interno ed esterno alla società israeliana, per riprodurre costantemente la “linea del colore”: l’orientalismo, di vecchio e di nuovo tipo, continua a supportare questa costruzione discorsiva. Il prodotto è del tutto politico. Israele beneficia, tutt’oggi, della «compassione narcisistica dell’Occidente» (p. 32), che si rispecchia in Israele – provando appunto «un’empatia narcisistica» dalla quale lə Arabə sono rigorosamente esclusə (p. 34).

In attesa della storia: colmare la distanza tra il fiume e il mare

Il libro di Traverso è immaginato per un uso compiutamente politico. Si confronta a più riprese con la storia – dei genocidi, del sionismo e dell’antisemitismo – senza però proporre alcun tipo di bilancio, neanche abbozzato, e senza immaginare quale tipologia di lettura si affermerà, tra qualche decennio, tracciata con gli strumenti della storiografia, al conflitto in corso.

A conferma di questo impianto testimonia l’ultimo parte del libro, From the river to the sea. Traverso ricapitola perché, nello scenario attuale – inaugurato con il fallimento degli accordi di Oslo – l’ipotesi del progetto dei due stati sia strutturalmente impraticabile alla luce delle scelte strategiche dei governi israeliani. In continuità con Said, Traverso affronta il tema dello stato laico binazionale come «unica strada per la pace».

Questa prospettiva è frequentemente classificata, nel dibattito attuale, come ideologica, assurda, provocatoria o anche antisemita. Traverso, nelle pagine conclusive del libro, descrive accuratamente le ragioni per le quali è l’ipotesi a due stati a essere quella più impraticabile, in quanto «può essere raggiunta solo attraverso una serie di pulizie etniche incrociate […]. È questa la soluzione per una terra condivisa dallo stesso numero di ebrei e di palestinesi?».

Certo, con il conflitto in corso è altrettanto difficile immaginare come possa prendere corpo il percorso politico di costruzione dello stato democratico From the river to the sea. Ma, continua Traverso, «nel 1945, l’idea di costruire una federazione europea che riunisse Germania, Francia, Italia, Belgio e i Paesi Bassi sembrava ingenua, aberrante o utopistica […]. Alcuni anni dopo, è iniziato un processo di costruzione europea sul quale ci sarebbe certamente molto da dire e persino da obiettare, ma in fondo al quale l’idea di una guerra tra Germania, Italia o Francia è diventata semplicemente assurda. Perché lo stesso non dovrebbe accadere in Medio Oriente? La storia è fatta di pregiudizi che vengono abbandonati e che a posteriori appaiono come stupidi anacronismi» (p. 88).

Chi si oppone anche solo all’immaginazione di uno stato democratico dal fiume al mare lo fa quasi sempre alla luce di pregiudizi di chiara matrice orientalista. Gaza davanti alla storia è un antidoto potenzialmente efficace: è un costante invito a scardinare i confini del dibattito sul futuro della Palestina, a costruire movimenti globali aperti e plurali a sostegno dellə Palestinesi, e a fermare la guerra in corso.

Immagine di copertina di Wafa da Wikimedia Commons