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OPINIONI

Galantucci (ex-Euratom): «Ritorno al nucleare altamente improbabile»

In questi ultimi mesi, si è riaperto il dibattito pubblico attorno alla produzione di energia elettrica da reazioni nucleari. In particolare si sente di “nuovo nucleare” o “nucleare del futuro”. Che cosa s’intende? Le centrali di III e IV generazione sono veramente innovative?

Le centrali nucleari di III e IV generazione non sono poi così nuove come si pensa. La costruzione di due centrali di III generazione (di tipo EPR- European Pressurized Water Reactor) é iniziata nel 2005 e nel 2007 rispettivamente in Finlandia (Olkiluoto) e in Francia (Flamanville). La prima é entrata in funzione nel mese di dicembre 2021 con con più di 10 anni di ritardo (la messa in funzione era prevista nel 2009), mentre la seconda, dopo 15 anni, è ancora in fase di costruzione.

Rispetto alle centrali di seconda generazione, attualmente le centrali commerciali in funzione, si differenziano, almeno in teoria, per una maggiore sicurezza data dalle seguenti caratteristiche: quattro sistemi indipendenti di refrigerazione d’emergenza; contenimento metallico attorno al reattore; contenimento e raffreddamento di materiale fuso in caso di fusione del nocciolo; parete esterna di 2,6 metri di calcestruzzo; attivazione automatica di misure d’emergenza senza l’intervento dell’uomo .

Per quanto riguarda le scorie radioattive non c’è nessuna differenza di rilievo rispetto ai reattori in funzione. Nelle centrali di IV generazione, invece, c’è un abbandono dell’acqua come refrigerante e l’utilizzo di sodio o piombo ad alte temperature per aumentare il rendimento del reattore. Questa tecnologia promette un’ottimizzazione dell’uso del combustibile e una riduzione delle scorie radioattive in quantità e radiotossicità. È una tecnologia non matura, ancora in via di sviluppo e l’incertezza dei costi è un punto chiave anche per questi reattori a causa della complessità della tecnologia usata.

Alcuni reattori di questo tipo di piccolo taglia (Small Modular Reactor) sono già usati in imbarcazioni rompighiaccio nel Mar Glaciale Artico. Si prevede l’entrata in funzione di un reattore dimostrativo commerciale in Russia non prima del 2030 (progetto Proryv).

Ne abbiamo parlato con Riccardo Galantucci, ispettore nucleare dell’EURATOM (European Atomic Energy Community) nel corso degli anni ’80.

Qual è la differenza con la produzione di energia da fusione e che punto siamo con quest’ultima?

La fusione nucleare é considerata una delle opzioni in grado di garantire una fonte di energia di larga scala, rispettosa dell’ambiente, sicura e inesauribile. Si tratta in effetti di riprodurre la stessa reazione che avviene sul sole e che invia l’energia necessaria alla vita terrestre: è il processo di unione degli atomi leggeri di deuterio e trizio (fusione) che dà luogo a un atomo di elio liberando calore utilizzabile per produrre energia. L’enorme temperatura necessaria per il confinamento del plasma (ioni di deuterio e trizio ad alte temperature) ha impedito finora la realizzazione di reattori commerciali a fusione. Il progetto ITER, in costruzione sul sito di Cadarache in Francia, e finanziato dall’UE, Cina, India, Giappone, Corea del Sud e USA, ha come obiettivo la realizzazione di un reattore di dimostrazione (DEMO) e di un reattore commerciale entro il 2050.

La fusione consiste quindi nell’unione di atomi leggeri, mentre il processo di fissione si basa invece nella divisione di atomi pesanti (uranio e plutonio) mediante il bombardamento di questi ultimi con neutroni lenti: il calore prodotto da queste reazioni è utilizzato per generare energia elettrica. Questa differenza è di fondamentale importanza in quanto il processo di fissione nucleare produce scorie radioattive derivanti dall’uso e dal ritrattamento del combustibile e dallo smantellamento delle centrali nucleari in disuso. Non bisogna infatti dimenticare che il periodo di decadimento di questi rifiuti può essere anche di migliaia di anni come nel caso del plutonio.

Torniamo alle centrali di III generazione. Quali sono state le problematiche nella costruzione di queste centrali, con quali conseguenze sui costi?

Prendiamo come esempio la centrale di Flamanville, uno dei due reattori EPR da 1600 MW esistenti in Europa. Il reattore EPR francese non è ancora entrato in funzione: la sua costruzione è iniziata nel dicembre 2007 con un costo stimato di 3,3 miliardi di euro e la connessione alla rete prevista a fine 2012. Le ultime stime prevedono un’entrata in funzione del reattore nel 2023 (caricamento del combustibile fine 2022) e un costo finale di circa 15 miliardi di euro.

La causa principale di questi ritardi e della lievitazione dei costi è la rottura delle principali saldature del circuito secondario e problemi legati alla qualità degli acciai. A questi problemi di assemblaggio dei componenti del reattore, si sono aggiunti problemi ai sistemi di sicurezza rilevati dall’ASN, l’organismo francese preposto alla sicurezza delle centrali nucleari.

Indipendentemente dal tipo di reattore a fissione utilizzato, resta il problema dello smaltimento delle scorie radioattive. Quali sono le criticità della produzione di tali scorie?

Le scorie radioattive prodotte dai reattori nucleari, di qualsiasi generazione, sono classificate in tre categorie: a bassa attività, che necessitano 20/30 anni per il loro smaltimento (livello di radioattività sotto la soglia della radioattività ambientale) e rappresentano circa il 90% in volume dei rifiuti prodotti; a media attività: il loro smaltimento richiede circa 300 anni e derivano dallo smantellamento della vecchie centrali; ad alta attività: sono costituiti dal combustibile esaurito e dai residui del riprocessamento del combustibile: necessitano migliaia di anni per il loro smaltimento a causa della presenza del plutonio che ha un periodo di dimezzamento di 24mila anni.

Lo smaltimento delle prime due categorie di rifiuti si effettua rivestendoli con cemento o altri materiali ad alta resistenza e confinandoli in involucri di acciaio stoccati in apposite strutture superficiali fino al loro smaltimento.

Per quanto riguarda i rifiuti ad alta attività, essi necessitano uno stoccaggio in depositi geologici nel sottosuolo a notevole profondità, in formazioni geologiche stabili. A causa dei costi elevati di questi depositi, la Direttiva europea sullo smaltimento dei rifiuti 2011/70/Euratom, dà la possibilità agli Stati membri con basse quantità di questi rifiuti, di costruire depositi in profondità condivisi.

L’Italia ha chiuso le proprie centrali nucleari nel 1987, 35 anni fa, in seguito al referendum indetto dopo il disastro di Cernobyl. A che punto è lo smantellamento delle ex-centrali nucleari, lo smaltimento delle scorie prodotte e l’individuazione di un sito unico nazionale per lo stoccaggio delle scorie da parte della SOGIN?

La direttiva europea 2011/70/Euratom prevede che ogni Stato membro provveda alla sistemazione definitiva dei rifiuti nucleari prodotti sul proprio territorio con la creazione di un deposito nazionale per la messa in sicurezza dei rifiuti a bassa e media attività e lo stoccaggio temporaneo dei rifiuti ad alta attività. Per questi ultimi si va verso la soluzione dei depositi di profondità condivisi come previsto dalla Direttiva Euratom citata precedentemente. Sul piano nazionale, il Decreto Legge n°31 del 2010 e la Guida Tecnica n° 29 del 2014 emanata dall’ISPRA definiscono il quadro normativo e tecnico per la localizzazione e realizzazione del deposito superficiale per lo smaltimento delle scorie radioattive di bassa e media attività.

La società pubblica SOGIN nasce nel 1999 con il compito di mettere in sicurezza i rifiuti nucleari di tutti gli impianti entro il 2014 e di smantellare le centrali di Caorso, Trino Vercellese, Garigliano e Latina entro il 2019. Questi rifiuti dovevano essere stoccati sui siti rispettivi in depositi provvisori per essere poi trasferiti nel Deposito Nazionale, nel frattempo individuato e costruito da Sogin : i costi previsti erano di 3,7 miliardi di euro per l’intera operazione.

La Carta Nazionale delle Aree Potenzialmente Idonee (CNAPI) viene invece consegnata da Sogin a ISPRA solamente nel gennaio 2015 e a oggi Sogin non ha ancora completato il condizionamento e la messa in sicurezza dei rifiuti. Non esiste inoltre ancora un progetto definitivo per lo smantellamento delle centrali nucleari e i costi sostenuti sono già di 4 miliardi di euro (a fine 2020, delibera ARERA).

A questo si aggiunge che il sito per la realizzazione del deposito nazionale non é stato ancora scelto: il 9 gennaio 2021 sono stati resi noti i siti più adatti alla realizzazione del Deposito Nazionale. Si tratta di 67 siti individuati in Piemonte,Toscana, Lazio, Puglia, Basilicata, Sicilia e Sardegna. Finora nessuno dei territori individuati ha dato la propria disponibilità.

La procedura prevede una consultazione pubblica con i territori, conclusasi il 14 gennaio 2022, per raggiungere un accordo sull’indennizzo agli enti locali : il Governo deciderà poi il sito definitivo. La costruzione del deposito costerà 900.000 euro e la costruzione durerà 4 anni. Nel frattempo però i vari siti provvisori di stoccaggio nel territorio nazionale, vedi Saluggia, sito che si trova a 60 metri dal fiume Dora Baltea, non sono più in sicurezza, con rischi elevati di inquinamento ambientale.

Alla luce di questi elementi, può quindi essere il nucleare la carta vincente contro il riscaldamento globale? Quali, in alternativa le altre strade realisticamente percorribili?

L’emergenza climatica dovuta al surriscaldamento del nostro pianeta non consente ritardi ulteriori riguardo a una transizione energetica verso le energie rinnovabili. Il piano nazionale per la transizione ecologica (PNIEC) prevede che nel 2030 le energie rinnovabili rappresentino il 30% dell’energia prodotta e una riduzione dei gas serra del 33%. I costi elevati e i lunghi tempi di costruzione dei reattori nucleari di nuova generazione rendono alquanto improbabile, almeno per l’Italia, il raggiungimento degli obbiettivi del PNIEC puntando sul nucleare.

Non bisogna nemmeno dimenticare che il nostro paese non è stato in grado, dopo 35 anni dall’abbandono dell’energia nucleare nel 1987, di mettere in sicurezza le scorie radioattive con la costruzione del Deposito Nazionale previsto dalla Direttiva Euratom.

Tenendo conto anche che l’Italia è un paese ad alta densità di popolazione (un incidente come quello di Cernobyl avrebbe provocato migliaia di vittime), con sismicità elevata e quindi difficoltà a individuare siti adatti alla costruzione di un reattore, il ritorno al nucleare sembra veramente improponibile.

È importante considerare anche i costi delle energie rinnovabili: il rapporto IRENA (International Renewable Energy Agency) 2019 mostra che dal 2010 al 2019 i costi della produzione delle energie rinnovabili hanno avuto un trend in continua discesa: fotovoltaico -82%, solare a concentrazione -47%, eolico a terra -40% e in mare -29%. Questa tendenza è destinata a continuare nei prossimi anni.

D’altro canto il World Nuclear Industry Status Report 2020 (WNISR), un rapporto annuale prodotto da un gruppo di esperti indipendenti sotto la guida del tedesco Mycle Schneider, calcola che 1 Kilowattora (Kwh) di elettricità prodotto con il fotovoltaico ha avuto un costo medio di 0,037 $, con l’eolico 0,04 $, con il gas 0,059$, con il carbone 0,112$ e con il nucleare 0,163 $.

È evidente quindi la necessità di investire seriamente nelle energie rinnovabili: incentivando la ricerca, per rendere più efficienti le tecnologie esistenti per la produzione di energie rinnovabili; riducendo, fino all’eliminazione, i sussidi ai produttori di energia con combustibili fossili a favore di maggiori incentivi a enti pubblici, comunità e privati cittadini per la produzione di energie rinnovabili.

Perché allora il nucleare è stato inserito nella tassonomia “verde” da parte della Commissione UE, quali gli interessi politico-economico-industriali? E qual è ora l’iter di approvazione del documento della Commissione?

Il 2 febbraio 2022 la Commissione Europea ha adottato l’atto delegato che inserisce il nucleare e il gas fossile tra le energie utilizzabili e quindi finanziabili dal Recovery Fund per la transizione ecologica. Un ruolo di primo piano hanno sicuramente avuto nell’adozione del documento le pressioni delle lobby dell’industria nucleare e di alcuni Governi europei capeggiati dalla Francia che produce più della metà dell’energia prodotta con i reattori nucleari.

Si è verificata una spaccatura all’interno dell’Unione Europea : 12 paesi (Francia, Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Finlandia, Ungheria, Polonia, Slovacchia, Slovenia e Romania) hanno chiesto l’inserimento del nucleare nell’atto delegato.

Di parere opposto Germania, Spagna, Danimarca, Lussemburgo e Austria con il Lussemburgo e l’Austria che minacciano di ricorrere alla Corte Europea di Giustizia.

L’Italia non si è schierata apertamente limitandosi a chiedere alla Commissione un innalzamento della soglia di emissione di CO2 /Kwh per considerare come “verdi” gli impianti esistenti a gas e a carbone.

Il documento della Commissione Europea, bocciato in precedenza dal gruppo di esperti dell’Unione Europea, dovrà ora essere esaminato dal Consiglio e dal Parlamento Europeo al più tardi entro luglio 2022. Il blocco della decisione della Commissione richiede la maggioranza assoluta dei componenti del Parlamento Europeo, 353 parlamentari, e la maggioranza qualificata dei Paesi contrari, 15 stati, rappresentanti il 65% della popolazione, in seno al Consiglio Europeo.

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