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Il futuro nelle voci delle donne afroitaliane
Future. Il domani narrato dalle voci di oggi a cura di Igiaba Scego per Effequ 2019 con 11 racconti sulle esperienze e la vita di autrici afroitaliane rappresenta un atto di critica e testimonianza del razzismo, della xenofobia e dell’ossessione per la bianchezza in Italia
Nel 2014, la giornalista afro-britannica Reni Eddo-Lodge scriveva sul suo blog un post – oggi diventato un omonimo libro (Bloomsbury 2019) – dal titolo: Why I’m no longer talking to white people about race. Perché, da donna nera, opinionista, attivista, scrittrice, Reni non voleva più investire il suo tempo a parlare di razza con le persone bianche?
La frustrazione, il profondo sentimento di un investimento vacuo di energie ed emozioni, la sensazione – sperimentata e confermata infinite volte – di non essere sentita, non essere davvero ascoltata – ma solo lasciata parlare per poter essere colta in fallo o contraddetta – la mancanza di qualsiasi ritorno empatico e complicitàaffettiva: tutti questi sentimenti espressi da Eddo-Lodge provocarono all’epoca una virale risposta dei lettori e delle lettrici ner*, che si ritrovavano perfettamente in quelle parole. Tra i tanti commenti ricevuti anche da lettori e lettrici bianch* – nel mezzo di derisioni, offese, espressioni di sincero disagio, offerte di solidarietà, scuse e sensi di colpa, appare quello che la scrittrice definisce come «un commento definitivo»:
Please, don’t give up on white people.
Già, please, don’t give up on white people: è proprio quello che pensiamo mentre, da donne cis, bianche, con passaporto europeo e cittadinanza italiana, ci troviamo a leggere e a commentare un piccolo dirompente libro come Future. Il domani narrato dalle voci di oggi (Effequ 2019). Un libro che è entrato con grazia e potenza – unendo ritmi, stili, toni e melodie differenti e consonanti – nel panorama culturale italiano dell’ultimo anno, costituendone senza dubbio la novità più importante e carica di conseguenze di lungo periodo.
Un libro che è un J’accuse– altro che quello autoassolutorio di Polanski, verrebbe da dire – «Ma anche un inno d’amore per un futuro che desideriamo diverso», si legge nella quarta di copertina: un libro pensato, scritto e raccontato da dodici donne che si riconoscono e si definiscono con la categoria comune di “afroitaliane”. Una rete di affetti e empatie, comprensione e esperienze – con storie geografiche, familiari e linguistiche assolutamente diverse e variegate – che ci appare improvvisamente agli occhi come incredibilmente solida, coerente, intrecciata e forte. Già, ciappare improvvisamente, perché è incredibile e nuova solo per noi: sebbene si possa facilmente cedere alla tentazione di definire questo libro come una irruzione di voci “nuove” nella letteratura o nel dibattito pubblico italiano, la verità è ben differente: queste voci di donne in realtàci sono sempre state.
La vera domanda è, piuttosto: dove eravamo noi per tutto questo tempo? Noi, i soggetti riconosciuti – giuridicamente e culturalmente – di fronte allo Stato, alle sue istituzioni e narrative, persino alle sue figure dell’antagonismo.
Corpi che pesano; corpi che pensano: l’importanza del posizionamento
Siamo due donne bianche e da questo si deve partire per parlare di un libro che con forza ci chiede, o forse ci esige, di posizionarci. Lo esige spesso in modo crudo, come uno schiaffo in faccia che aiuta a svegliarci, a vedere, a non poter fare a meno di vedere.
La sociologa statunitense Ruth Frankenberg, bianca anche lei, decrive la scoperta della propria bianchezza come lo sbattere contro un vetro: contro qualcosa di trasparente, che non si vede – perché il soggetto dominante è sempre trasparante, è soggetto puro non oggettivabile, sguardo che non può essere guardato – eppure è incredibilmente reale, materiale, fisico (White Women, Race Matters: The Social Construction of Whiteness, Routledge, New York 1993).
Sentiamo questo leggendo Future. Sentiamo emergere la materialità del nostro corpo e la parzialità della nostra storia: un corpo e una storia che sembrano dirci che questi racconti, in qualche modo, parlano anche di noi, eppure non sono nostri. Anzi, ci fanno, talvolta, confrontare con la scomoda sensazione di sentirci, nostro malgrado, dalla parte sbagliata della barricata. Sembrano dirci, insomma, che il J’accuse di cui parla Igiaba Scego nell’introduzione del libro, è un po’ rivolto anche a noi.
Come la tradizione internazionale degli studi di black consciousness ha brillantemante spiegato, il nostro corpo e la percezione sociale di esso definiscono le condizioni della nostra esperienza: ci aprono possibilità e ce ne chiudono altre; ci fanno sentire a casa in alcuni spazi e non in altri. E se sei nera (e donna) in un paese come l’Italia, gli spazi esclusi sono molti: in primo luogo quelli del “sapere”, un sapere che è foucaultianamente, potere.
Essere afrodiscendente (e donna) in un paese razzista e segragato, com’è indubbiamente il nostro, significa, infatti, essere un corpo considerato sprovvisto di sapere. Corpo passivo, corpo-vittima, corpo che è solo corpo, continuamente ricacciato in una materialità senza scampo, la materialità degli oggetti, delle cose, di ciò che è in quanto subisce e mai in quanto agisce. Un corpo privato della sua capacità di interpretarsi e interpretare il mondo che lo circonda; un corpo che non è soggetto e, di conseguenza, non puó essere attore politico.
«Noi tre siamo l’eterna emergenza: siamo minoranza, nello specifico una minoranza di neri africani o di negri di merda. Se fossimo una minoranza di tailandesi, sinti, rumeni, indiani, rom, turchi o cubani, sarebbe diverso, ma non diversissimo. Saremmo comunque minoranza. Il popolo degli alieni. Questo però, è quello che si pensa di noi. E quello che pensiamo e diciamo di noi stessi, anche se facciamo fatica a farci sentire, non ha nulla a che fare o vedere con ciò che si dice di noi»(p. 101).Così scrive Leaticia Ouedraogo, nel racconto intitolato Nassan Tenga.
Essere un soggetto cosiddetto “razzializzato”, in Italia come altrove, significa doversi continuamente legittimare in quanto corpo portatore di un punto di vista, di un sapere. Significa doversi affermare in quanto soggetto della propria narrazione e della narrazione del mondo che ci circonda, leggitim* interprete del paese in cui si vive e di cui si fa parte, anche se questo fare parte non è mai completamente riconosciuto.
In questo senso scrivere una raccolta di racconti di donne afroitaliane è un atto intrinsecamente politico, poiché è un appropriarsi di una dimensione di soggetto da parte di chi è continuamente oggettificat*. Quando scriviamo, infatti, lo facciamo sempre come soggetti, è il nostro punto di vista che manifestiamo, il nostro posizionamento che mettiamo in campo.
Grada Kilomba, intelletuale nera portoghese, scrive:
«Quando scrivo non sono l’“Altra”, sono l’io. Non sono l’oggetto, ma il soggetto. Divento colei che descrive e non colei che è descritta. Divento l’autrice e l’autorità della mia propria storia. Divento il contrario assoluto di ciò che il il progetto coloniale ha predeterminato. Divento me» (dal testo della performance While I write)
Questa operazione è amplificata dalla dimensione collettiva di Future, non una voce ma un mosaico di voci, non un soggetto ma una complessità di soggetti, che riescono a a farsi sentire attraverso la forza che scaturisce dalla loro esperienza, ma anche dalla collettivizzazione di tale esperienza.
Leggendo i bellissimi racconti che compongono la raccolta, l’impressione che si ha è di avere il privilegio di accedere finalmente a una riflessione che non nasce ora. Si ha l’impressione di trovarsi di fronte a un movimento maturo e sedimentanto, a un dibattito letterario e politico che esiste da tempo, ma che noi (chi scrive), per qualche motivo, ignoravamo.
Se è vero che non si può essere sempre aggiornate su tutto, è anche vero che per due militanti, femministe e dottorande in studi postcoloniali, questa sensazione di ignoranza è motivo di interrogazione.
Da quanto tempo queste voci così potenti e così intrinsencamente politiche (nel miglior senso del termine) erano qui? Per quanto tempo, e perché non le abbiamo notate?
Si potrebbe dire «meglio tardi che mai». Allo stesso tempo queste domande ci impongono di interrogarci sui meccanismi di silenziamento delle voci dei soggetti subalternizzati e su quanto noi, subalternizzate a nostra volta secondo alcuni assi (in primo luogo, quello del genere), abbiamo, più o meno consapevolemente, contribuito a questo silenziamento.
Parlando della sua esperienza di donna nera nei movimenti femministi statunitensi degli 60 e 70, bell hooks scrive:
«Frequentemente, donne istruite che avevano frequentato l’Università (anche quelle che venivano da background poveri e della working class) erano svalutate perchè considerate mere imitatrici. La nostra presenza nelle attività dei movimenti non contava, dal momento che le donne bianche erano convinte che la “reale nerezza” significasse parlare i gerghi della gente nera povera, non istruita, di strada e molti altri stereotipi. Se osavamo criticare il movimento o assumerci la responsabilità di “riformare” il femminismo e introdurre nuove idee, le nostre voci venivano spente, ignorate, silenziate». (bell hooks, Feminist Theory: From Margin to Centre, Routledge, New York 1984).
Ci si aspettano tante cose dalle donne cosiddette “razzializzate”: ci si aspetta, in primo luogo, di avere a che fare con soggetti deboli, in gran parte sprovvisti del potere di autonarrarsi, con cui è difficile parlare “da pari a pari”. E invece le donne di Future sono tutt’altro.
Spesso si parte, inoltre, dall’assunto di una piena sovrapposizione tra soggetti migranti e soggetti razializzati. Alcune donne di Future, invece, sono nate e/o cresciute in Italia, ma non hanno la cittadinanza. Altre hanno la cittadinanza italiana, eppure sono condannate ad essere perennemente straniere.
«Nazionalità capoverdiana, data di arrivo 21/05/1984. Quella in realtà era la sua data di nascita, ma in fondo nascere è un po’ come arrivare. E così, come si arriva ce ne si può sempre andare». Così scrive Alesa Herero nel racconto Eppure c’era odore di pioggia. (p. 153)
Molte volte, anche all’interno dei movimenti, facciamo fatica ad abbandonare alcune idee preconcette su ciò che una lotta antirazzista dovrebbe essere. Nel migliore dei casi la immaginiamo come un processo volto a includere persone razzializzate dentro le nostre pratiche politiche. Nel peggiore, manteniamo un atteggiamento assistenzialistico, che non guarda a questi soggetti come interlocutori paritari.
Sfogliando le pagine di questo libro, non viviamo forse la sensazione di familiarità e disagio, pensando a quante volte ci saremo silenziosamente incrociate nelle nostre città, nei nostri percorsi politici, nelle nostre storie collettive e individuali? Eppure, a essere silenziose non sono mai state le voci di queste donne: erano piuttosto oggetto sistematico di un silenziamento, storico e politico, perché esse incarnavano perfettamente i soggetti per eccellenza “imprevisti” – non previsti dal progetto del nazionalismo italiano.
I soggetti “imprevisti” dalla nazione
«La nazione, guardandoci per la prima volta negli occhi, non ci ha riconosciuti come roba sua», scrive Igiaba Scego.
Ma quale Nazione? La Nazione di chi?
«A volte penso che l’Italia in fondo sia un’astrazione. Incollata male dai Savoia e Cavour. Riempita di retorica. E con il peccato originale di un Nord che ha depredato il Sud. E non paghe, le élite risorgimentali e postrisorgimentali hanno pure descritto questo Sud come irredimìbile, da civilizzare, insomma usando lo stesso lessico e le stesse pratiche che poi saranno messe in atto nelle colonie (…) L’Italia è stata più fotografata dal suo Barocco che dal suo Rinascimento e in fondo in questo noi ci sentiamo italiane perché il caos primordiale che il Barocco sintetizza cosí bene è anche il nostro caos primordiale. Apparteniamo a quel caos e non all’Italia costruita dalla retorica postunitaria (Igiaba Scego, p. 16)».
L’Italia la cui identità è fondata nella mitologia del Risorgimento, certo, ma che solo ottoanni dopo la proclamazione della sua unitàgiàiniziava l’esperienza coloniale in Africa, incisa nel DNA della Nazione tanto quanto le camicie rosse.
Un’Italia la cui omogeneità razziale e la cui bianchezza costituiscono una ossessione costante nell’intera storia del Paese, più che un dato di fatto.
Con il peccato originale e l’accumulazione originaria di un Sud considerato alternativamente piùAfrica o piùEuropa, come ci ricorda Igiaba, ma anche con una complessiva ambigua appartenenza alla “razza mediterranea” – quella che veniva codificata dalla scienza frenologica come “metàariana, metàcamitica”. Come scrive Tatiana Petrovich Njegosh (Gli italiani sono bianchi? Per una storia culturale della linea del colore in Italia, Ombre Corte 2012), una ambiguità razziale che negli Stati Uniti, di fronte alla massiva migrazione di working class italiane agli inizi del ‘900, venne prontamente risolta appellandosi auna semplice regola, chiamata One drop rule: se «una sola goccia di sangue»nero era sufficiente per definire un individuo come non bianco, ciò valeva anche per una intera nazione, considerata, appunto, il risultato dell’incrocio tra Europa e Africa. Seppur a volte “passabili” come bianchi dal punto di vista fenotipico, era impossibile che “i mediterranei” non avessero almeno una goccia di sangue camitico: presto detto, gli italiani non erano bianchi.
Queste indicazioni di contesto non ci devono portare a costruire una presunta equivalenza tra lo statuto storico e contemporaneo dell’essere italiani – o, ancora più nello specifico, meridionali – e la condizione contemporanea dei e delle Black italians: al contrario, ciò che ci interessa sottolineare è come esista una parte strutturante della Storia e dell’identità nazionale italiana – un parte sempre taciuta e nascosta – completamente costruita intorno all’ossessione per lo “sbiancamento” degli e delle italiane (vedi Bianco e Nero. Storia dell’identità razziale degli italiani di G. Giuliani e C. Lombardi Diop, Ombre Corte 2013): una necessità compulsiva di qualificarsi come bianch*, che accompagna l’intera storia nazionale.
Ed è una ossessione che si gioca, violentemente, sui corpi delle donne, sia nere che bianche, seppure in maniera e misura differente: l’affermazione e la manutenzione della bianchezza passa strettamente per la capacità dello Stato di controllare l’accesso razzializzato alla cittadinanza mediante il controllo della riproduzione.
Non è un caso se durante il colonialismo in Africa l’Italia si è preoccupata, ben più di altri imperi coloniali, di promulgare specifiche leggi che impedissero il riconoscimento dei figli nati dalle unioni – e, naturalmente, anche e soprattutto dagli stupri – tra uomini bianchi e donne nere: ad esempio la legge sul meticciato, la prima vera legge razziale italiana, promulgata prima di quelle antisemite; o lo stesso Madamato, che istituzionalizzava una forma di relazione sessuale e servile tra uomini italiani e donne africane tale da non essere completamente fuori dalle categorie di legittimazione morale cattoliche, ma che al tempo stesso permettesse allo Stato di mantenere il controllo sui frutti di tali unioni. La presenza di un “meticciato postcoloniale” – categoria a ogni modo problematica e criticabile – era assolutamente da scongiurarsi in un Paese che stava continuamente giocando la sua partita per la bianchezza.
E come viviamo, oggi, come donne e femministe in Italia le conseguenze dirette e contemporanee di questa narrativa nazionalista? In primo luogo, mediante una retorica – assai ben funzionante – costruita dai media e da esponenti politici di varie appartenenze intorno all’idea che orde di donne africane migranti vogliano attraversare il Mediterraneo solo per far nascere i propri figli su suolo italiano, per poi pretendere il diritto alla cittadinanza: come ha scritto Angelica Pesarini, una delle autrici di Future, la propaganda intorno all’idea che l’Italia non debba diventare «la sala parto dell’Africa».
Dall’altro lato, mediante una martellante propaganda per spingere le donne italiane – ovvero, bianche– a riprodursi compulsivamente: dall’attacco al diritto all’aborto fino al tristemente celebre “Fertility Day” (Ricordate il poster che recitava «Le buone abitudini da mantenere», davanti a due coppie ariane, e «i cattivi “compagni” da evitare»a descrizione di una foto con varie persone razzializzate? Non era una gaffe, era un messaggio letterale: la buona abitudine da mantenere è la bianchezza della razza italiana). Dietro questa guerra al diritto di autoderminazione delle donne sulle proprie scelte riproduttive esiste, anche, questa specifica articolazione di figure di razza e genere su cui l’illusione del nazionalismo si fonda: controllare i corpi delle donne significa anche portare avanti il controllo di un futuro razziale della nazione omogeneo e bianco, contro la minaccia della fertilitàdelle donne non bianche, che “scurirebbero” la popolazione italiana con i propri figli.
Come donne e femministe bianche, abbiamo bisogno di tenere presente anche questo aspetto nelle nostre battaglie: il modo in cui la nostra bianchezza determina socialmente il valore politico dei nostri corpi, in quanto soggetti “in grado” di fornire non solo figli, ma più propriamente figli bianchi alla nazione. Come militanti tutt*, forse dovremmo tenere più conto di queste genealogie e articolazioni quando pensiamo a battaglie come quella sullo Ius Culturae, che forse tanto – troppo – spesso abbiamo parzialmente snobbato, perché ci appariva troppo istituzionale rispetto alle nostre categorie e alla pur giustissima critica ai limiti della cittadinanza giuridica.
La lotta intersezionale comincia con un «grazie»
In conclusione, leggere un libro come Future ci obbliga a renderci conto che parlare di migrazioni e di questione razziale in Italia è molto più complesso e sfaccettato di quanto appaia in prima battuta e che i soggetti razzializzati sono tant* e divers*: non sono tutt* indocumentat* e neppure tutt* ner*. Tutt*, però, vivono la necessità di dover specificare il punto divista da cui parlano, sia esso un corpo, un’origine, un cognome. E questo punto di vista, se politicamente riappropriato, innesca di per sé processi rivoluzionari.
All’indomani del corteo di Non una di Meno, che ha ha riempito ancora una volta le strade di Roma, parlare di Future ha, per noi, un significato politico preciso.
È provare a interrogasi su cosa vuol dire, nella pratica, parlare di un movimento transfemminista intersezionale. È riprendere le riflessioni dell’ultima assemblea nazionale, avvenuta il 19 e 20 ottobre a Napoli, in cui ci proponevamo di sostituire il lessico dell’ “includere” con il lessico del “fare spazio”. Fare spazio ai soggetti subalternizzati secondo gli assi del genere, della razza, della sessualità, della (dis)abilità.
Come transfemministe ci spetta riconoscere quel disagio che ci viene dal sentirci, secondo alcuni assi, dalla parte del privilegio. Riconoscerlo eppure non fermarsi su questo. Accettare questo disagio come parte di un processo di decostruzione profonda, come lo è ogni movimento realmente espansivo. Considerarlo come prova che qualcosa comincia a cambiare. Come transfemministe ci spetta, senza dubbio, non aver paura delle maree.
Per quanto concerne le afroitaliane, crediamo che questo spazio se lo stiano già prendendo: a noi non resta che essere felici di poter assistere e, fin dove ci è concesso, partecipare, di questa rivoluzione. Non ci resta che accettare con gioia di farci sommergere da un’onda di cui non siamo le protagoniste ma che, nonostante questo, ci parla e ci investe pienamentamente.
Abbiamo deciso di scrivere in due per provare, insieme, a interrogarci su quale sia il nostro ruolo come lettrici di un libro come questo, senza che il protagonismo diventi, ancora una volta, quello che porta le luci della scena su di noi, invece che sulle autrici e le loro storie. Ci siamo risposte, con onestà, che per adesso, il nostro processo di ascolto e riparazione non puó che cominciare con la necessità di dire una parola: grazie.
Grazie, amiche, compagne – sperando che un giorno avremo costruito un futuro abbastanza diverso da poterci chiamare “sorelle” – per questo atto d’amore radicale e profondo.
Grazie per tutte le volte che ci concedete la possibilità e il privilegio – questo sì, da tenersi stretto – di ascoltare le vostre storie, di comprendere un pochino in più di una esperienza di vita che ci risulta onestamente lontanissima, perché ce la siamo sempre rappresentata con le categorie dell’alteritàe della dis-empatia. Grazie per la forza di quello che raccontate e grazie per aver messo in gioco la vostra vulnerabilità: «non è facile essere donne in un paese come l’Italia, intriso di sessismo», scrive ancora Igiaba Scego. Se c’è una cosa che come donne abbiamo imparato, è che, dentro la compulsiva spinta del mondo che ci impone di essere sempre più forti di tutto e tutti in cambio di legittimazione e credibilità, mostrarsi vulnerabili è un atto di profonda fiducia e amore per chi abbiamo davanti.
Sappiamo che questo libro è scritto da voi e per voi, straordinaria comunitàdi donne afroitaliane che si supportano e pensano insieme radicalmente. Ma grazie per averlo condiviso con noi.
Se con certezza non vi siete mai arrese, grazie per non esservi arrese con noi.