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Futuro Fantastico. Santarcangelo dei teatri 2020
Un “Futuro fantastico” è quello che si sono immaginati Daniela Nicolò ed Enrico Casagrande dei Motus per la cinquantesima edizione di Santarcangelo dei teatri, il cui primo atto si è concluso ieri, ma continuerà fino all’estate del 2021. Per un teatro che decostruisca le soggettività dominate da pregiudizi e stereotipi sessisti, razzisti, omofobi, di classe e che liberi la percezione del non conosciuto e la potenza comune di azione
È un titolo ambivalente: futuro fantastico. Splende di notte in una scritta di dieci metri sul neon piantato nel prato del parco Baden Powell a Santarcangelo. La sua luce blu rifrange tra i rami dei larici e dei pioppi. L’ombra elettrica si allunga sull’erba mentre si alza un’umidità temibile da cui ci proteggiamo alzando le mascherine nere. «Questo uso dei neon è stato inventato da Mario Merz ed è stato ripreso da Claire Fontaine» racconta Serena Soccio mentre camminiamo verso il bosco.
Il “futuro fantastico” è stato scelto da Daniela Nicolò e Enrico Casagrande dei Motus e direttori artistici del cinquantesimo festival di Santarcangelo dei teatri. Un miracolo organizzato nonostante la pandemia. Penso sia un’espressione sarcastica. Lo è se consideriamo il Covid 19 solo un segnale di quello che il capitalismo dei disastri ci sta preparando.
Le catastrofi non sono gli angeli della geostoria che annunciano l’avvento della Distruzione. Sono il prodotto dell’agro-business – sostengono Mike Davis in The monster at our door o Rob Wallace in Big Farms Make Big Flu – ha distrutto gli equilibri ecosistemici della Cina meridionale. E così accade altrove. Finché non saranno cambiate alla radice queste condizioni, tutto il mondo è a rischio di pandemie devastanti. Le multinazionali esternalizzano i costi della prevenzione e della cura ai danni di miliardi di persone. Sono crimini di sistema contro l’umanità. E i governi non pensano minimamente alle cause, ma solo agli effetti. Ci mancherebbe altro.
Davvero fantastico, questo futuro.
Fantasticare il futuro
Futuro fantastico ha un altro significato: avere una fantasia, creare un’immagine, fare apparire un futuro. Un futuro non legato alla teologia della Fine per cui siamo destinati all’Estinzione. Da quando è stata accettata l’idea che il capitalismo è insuperabile persino l’idea del futuro è stata cancellata. Già il fatto di prefigurarlo, è un atto sovversivo.
Sfoglio il catalogo del festival e leggo la frase di Margaret Atwood: «Ogni giorno è la fine del mondo, per qualcuno». Non la fine di tutto il mondo, ma quella degli oppressi, degli sfruttati, dei dominati.
Fantasticare il futuro è attrezzarsi e «sopravvivere su un pianeta infetto».
In cosa consiste, materialmente, l’atto di immaginare il futuro?
«Allearsi, con-divenire, intessere forme altre di parentale, inventare nuovi assemblaggi multispecie: essere nella simpoiesi, ovvero in configurazioni aperte all’alterità e all’infinita varietà di tutte le creature terrestri» (Donna Haraway).
È la risposta al discorso prevalente sull’antropocene che ha naturalizzato la catastrofe e ha neutralizzato la politica in un’ontologia al cui centro permane la prospettiva dell’antropocentrismo.
Punto di vista
Cerco di osservare gli spettacoli, quelli che sono riuscito a vedere, a partire da un punto di vista che porta con sé un’etica politica. Per me è stata la scoperta del Festival.
Per punto di vista non intendo la messa in scena di una teoria. Al contrario, la teoria nasce con la prassi. È un metodo. Emerge da un teatro che è sempre partecipativo.
Lo fa il collettivo Zimmerfrei che ha costruito lo spettacolo “Family Affair” con sette famiglie santarcangiolesi. Lo stesso lavoro è replicabile ovunque. Piccoli nuclei e grandi famiglie, coppie libere da figli, genitori single, famiglie e fratellanze d’elezione, famiglie arcobaleno, gruppi di convivenza e cespugli familiari di ogni tipo. La famiglia è un nucleo ricombinante di affetti, spesso disfunzionale. È un ripensamento dell’imperativo con la quale viene sempre confusa: la sua non è una necessità, è una scelta. L’obiettivo non è la riproduzione della vita da mettere al lavoro, ma la coabitazione nella vita e sulla terra. Ripensare la convivenza non come espressione dell’obbligo e della violenza, ma come atto politico che affronta le contraddizioni dell’essere-insieme.
Uno spettacolo nasce dalle relazioni tra i residenti in un territorio dove avviene la messa in scena. È un lavoro di inchiesta, di etnografia partecipata, di autonarrazione e di creazione e montaggio. Questa sintesi può dare voce e corpo alle 58 nazionalità presenti nei dintorni di questa cittadina, impiegate molto spesso nel lavoro agricolo, nelle condizioni che possiamo immaginare.
Anche la mia esperienza partecipa alla definizione del punto di vista. Nel teatro che sono riuscito a vedere a Santarcangelo non ho percepito la volontà degli artisti di fare guarire lo spettatore dalle illusioni che lo rendono un subalterno. Al contrario sono stati questi artisti a mettersi in gioco al fine di aprire un campo percettivo nel quale invitare gli spettatori a sperimentare la traduzione in pensiero e in azione di ciò che si vive senza conoscere, di ciò che si conosce senza sapere, di ciò che si sa ma non si agisce.
La politica in pratica
A quale politica pensano coloro che fanno questo teatro?
La prima risposta è stata: il reddito di base. È il modo per non essere ricattati, è la possibilità di dire NO, di scegliere di non trasformare il tempo di vita nel lavoro di chi cerca un lavoro precario. È un’esigenza fondamentale per chi vive nell’intermittenza della vita e del lavoro, come i lavorat* dello spettacolo. Da sempre.
La stessa esigenza è di tutti coloro che non riescono a vivere di lavoro.
Il riferimento al reddito di base, emerso già nel movimento dei lavorat* dello spettacolo nei mesi della quarantena e in quelli della falsa “ripartenza” dopo il 15 giugno, è arrivato al termine dell’assemblea organizzata dal collettivo “il Campo Innocente”. L’assemblea a cui hanno partecipato un centinaio di persone è stata condotta con una sensibilità che mi ha sorpreso. È stata una lezione di metodo. Per un’ora e mezza infatti i partecipanti, in gran parte lavorat* dello spettacolo, sono stati invitati a formulare domande sul loro lavoro e sulla propria esistenza.
Nell’arte, nel teatro, nella performance, come nel postfordismo, vita e lavoro sono intrecciati mentre le distinzioni tra produzione e riproduzione, tra occupazione e disoccupazione, sono diventate più sfumate e si sono ricombinate in nuovi aggregati produttivi. Anche in questo mondo è ricorrente la domanda: qual è il mio valore? E poi c’è il conflitto con il mondo fuori di cui si denunciano corruttele, nepotismi, la non meritocrazia. Sono i problemi dell’imprenditore di se stesso, colui che mette al lavoro le sue competenze sul mercato e investe sul suo “capitale umano”: sociale, relazionale, culturale.
Sono i problemi di una forza lavoro che ha inghiottito il principio del suo autosfruttamento: il capitale.
Questione politica: rovesciare l’alienazione in una prospettiva di liberazione a partire dalle concretissime urgenze della forza lavoro.
La risposta emersa dall’assemblea è importante. L’imprenditore di se stesso non va negato, va conosciuto e oltrepassato. Per questo va continuata l’auto-inchiesta proposta dal collettivo Art workers Italia. È uno degli strumenti per decostruire e superare il corporativismo di chi non ha una corporazione in un paese corporativo. I diritti sul lavoro, e quelli nella società, oggi non si istituiscono creando una nuova tribù professionale. Si creano sulla base dei diritti sociali e una riforma universalistica del Welfare, indipendentemente dalla nazionalità, dai ruoli, dalle corporazioni. È un’intuizione politica. Ricorrente in molti ambienti, anche lontani dal mondo dello spettacolo. Politica è unirli e trovare la forma adatta a farla diventare il problema di questo secolo.
Quattro spettacoli
Racconto quattro spettacoli che mi sembrano condividere un punto di vista. Quello del lavoro sulla soggettività a partire sulla decostruzione di pregiudizi e stereotipi sessisti, razzisti, omofobi, di classe. Il tentativo comune è liberare la percezione del non conosciuto, del virtuale pur sempre attuale, di una potenza comune di azione. Spettacoli che mi sembrano essere il risultato di un’azione politica molecolare precedente allo stesso spettacolo, la stessa svolta in questi anni dai movimenti in tutto il mondo.
Sono tracce, non manifesti teorici. Tracce di un lavoro politico: trasformazione dei rapporti di potere in cui siamo inseriti; decostruzione degli stereotipi e dei poteri in cui sono incastrate le relazioni.
È un lavoro ricorrente tanto nei femminismi intersezionali, quanto nell’ecologia politica e nei nuovi marxismi dove si cerca di definire il lavoro alla luce dei rapporti sessuali e razzializzati, si interpreta il sessismo e il razzismo come espressioni della violenza sociale dello stesso potere, si rompono le gerarchie esistenti coniugando i conflitti in una ‘classe’ oggetto di molteplici oppressioni e soggetto di possibili resistenze. Considerare queste dimensioni in un comune orizzonte politico significa prospettare un ‘divenire co-rivoluzionario’ tra soggetti differenti.
Black Dick
Il monologo Black dick di Alessandro Berti è una decostruzione della mitologia bianca del “cazzo nero”. Berti dimostra come questo totem e i relativi tabù siano stati l’esito di una costruzione politica, così come la “blackness” del maschio americano è stata costruita in funzione del predominio dei bianchi. Parte dall’analisi critica di alcune categorie del porno: “interracial” ad esempio.
L’analisi affonda le radici nell’autobiografia di Malcolm X o in quella di Eldridge Cleaver, già numero due della Pantere Nere. quest’ultimo è un personaggio esemplare di questa vicenda: da militante per la giustizia ha finito per assecondare una deriva mistica. Prima è diventato un conservatore reaganiano, poi ha fondato una setta dedicate al culto dello sperma. Nel mezzo ha creato un’azienda di moda per intimi che ha promosso solo un prodotto: un sospensorio per avvolgere l’oggetto totemico che domina l’immaginario. Berti cita la femminista bell hooks che critica l’interiorizzazione dello stereotipo bianco da parte del maschio nero.
La performance ha anche un valore di contestazione del punto di vista dell’autore che mette in gioco la sua “bianchezza” e, dunque, la sua posizione di dominante e critica la politica dell’appropriazione culturale dei saperi critici dei “neri” fatta dai “bianchi”. Berti termina il suo spettacolo con un invito a creare alleanze, in termini internazionalistici non in quelli inter-comunitaristi.
Alessandro Berti “Black Dick” (foto di Daniela Neri)
Sorry, but I feel slightly disidentified
Questa politica della disidentificazione, ovvero della decostruzione degli stereotipi sessuali e della sperimentazione attiva del determinabile non ancora determinato in una esistenza l’ho vista sviluppata dal punto di vista più appropriato, quello della danzatrice olandese, nata da genitori del Suriname, Cherish Menzo. Lo spettacolo di Benjamin Kahn intitolato Sorry, but I feel slightly disidentified (Scusate, ma mi sento leggermente disidentificata) non è firmato con la sua protagonista.
Cherish si è presentata in scena vestita prima con le sembianze di una donna orientale. Il volto coperto da una calzamaglia nera, massima identità con lo stereotipo. Poi si è svestita e ha incarnato lo stereotipo del nero obbligato a ballare per il divertimento dei padroni bianchi. E ancora ha oltrepassato gli stereotipi sessuali stabiliti dall’immaginario maschile che divide il corpo della donna in pezzi. Infine è iniziato il suo processo di liberazione che ha impegnato Cherish fino allo spasimo del suo corpo minuto e statuario.
La liberazione da tutte le identità imposta dai bianchi, e autoimposta dai dominati, qui è stata messa in scena nell’aspetto più traumatico. E termina con una composizione letta alla fine, dal sapore programmatico: «Volo/come le streghe/Erbe sulla mia scopa è un’infusione dalla natura e la strofino contro la mia figa (…)/ Questo è il mio pugno al vostro ordine/Questo è il mio pugno alla vostra nazione/Questo è il mio pugno al vostro sistema».
Nel progetto della trilogia in cui rientra lo spettacolo si sostiene che la disidentificazione riguarda anche «Noi giovani, noi neri, noi bianchi, noi bianchi, noi donne, noi proletari, noi animali, noi omosessuali, noi umani». Serve cioè a sottrarsi alle identificazioni maggioritarie per accedere a una potenza comune. Riguarda tutti, non solo quelle che oggi sono definite “minoranze”.
Tiresias
Nella stessa costellazione del pensiero mi sembra si possa inserire Tiresias, la nuova regia di Giorgina Pi tratta dal poema di Kate Tempest. È un monologo di Gabriele Portoghese, interprete straordinario alle prese con un testo labirintico, pieno di sfumature e registri compositi. La sua è una dimostrazione di virtuosismo.
L’idea dello spettacolo è rappresentare la vita di Tiresia dal suo inizio, e non dalla sua vecchiaia infinita dove da cieco ha incontrato in un crocicchio Edipo a cui profetizzato il suo terribile destino. Sono in pochi a sapere che il mito ha parlato di un Tiresia che è stato sia uomo che donna, dopo avere ucciso un serpente femmina e, dopo sette anni, uno maschio. Ciò gli ha permesso di sperimentare i piaceri sia dell’uomo che della donna.
Quando Zeus lo chiamò a sé per risolvere una diatriba che aveva avuto con Era, a seguito di un suo tradimento, gli chiese: qual è il piacere più grande, tra uomo e donna. “Quello della donna” rispose Tiresia. Ciò fece adirare Era perché Tiresia, senza saperlo, dava ragione a Zeus che sosteneva opportunisticamente una simile tesi per giustificare i suoi tradimenti. Era strappò gli occhi a Tiresia, ma Zeus gli diede il potere di vedere oltre il visibile. Il potere della profezia. L’idea dello spettacolo è rappresentare Tiresia come un adolescente che cresce, poi convive e si innamora, conosce il suo destino e rivela il segreto del piacere femminile che deve restare segreto per volontà degli dèi.
Se provassimo a portare più in là questa sapiente riattualizzazione del mito si può allora ipotizzare che il segreto rivelato da Tiresia oggi non fa infuriare solo gli dèi, ma coloro che non accettano l’autonomia del desiderio e del suo godimento.
La mappa del cuore di Lea Melandri
Anche La mappa del cuore che la compagnia bolognese Ateliersi ha tratto dall’omonimo libro di Lea Melandri compie un lavoro simile. L’idea di questo laboratorio è stupenda: Fiorenza Menni e Andrea Mochi Sismondi hanno ripreso le lettere che centinaia di adolescenti donne e anche uomini inviavano a Lea Melandri quando scriveva una rubrica per “Ragazza In” alla metà degli anni Ottanta. Lettere che hanno preso letteralmente dall’archivio che Lea custodisce nella sua casa a Milano.
Fiorenza e Andrea dicono di avere letto quelle corrispondenze allora. Entrambi ricordano le altezze vertiginose che raggiungevano le risposte di Lea, ma anche la profondità stupefacente raggiunta dalle lettere scritte dalle adolescenti.
Risultavano spesso enigmatiche quelle risposte della “psicologa”. Ma era proprio questo che attraeva nella rubrica. Lea scriveva in un linguaggio assoluto partendo dall’attualità, spesso modesta, dei problemi. Le ragazze si trovavano proiettate in un mondo accogliente e universale dove erano chiamate da una misteriosa voce ad emergere nella loro autonomia di donne.
Ascoltati oggi questi materiali diventano l’occasione di uno scavo negli stereotipi interiorizzati dalle donne sin dalla prima età adolescenziale. Si parlava soprattutto della nascita della sessualità, del rapporto con i genitori, dei primi amori. Tra questi spiccava quello per i Duran Duran, allora oggetti di culto in particolare delle adolescenti italiane nella singolare contrapposizione con gli Spandau Ballet.
L’idea dello spettacolo è mettere in scena quella che Lea che chiama il “sogno di amore”. Lo incarna Francesca Pizzo vestita di bianco, spalline enormi anni Ottanta, scarpe a punta, sguardo che traguarda la scena. Canta per tutta la durata della pièce i Duran Duran, riarrangiati da Vincenzo Scorza e Mauro Sommavilla.
Non mi sono mai sentito appartenere al mito di quel gruppo. Preferivo le tonalità gotiche, gli scenari cupi e battenti dei Joy Division o dei Bauhaus. Tutt’al più arrivavo ai Simple Minds, pensavo di vivere in Lullaby dei Cure. Ancora oggi sobbalzo quando ascolto I’m taking a ride with my best friend dei Depeche Mode. Allora mi vedevo correre a Belfast nelle domeniche di sangue cantate dagli U2 mentre Londra chiamava con i Clash.
Quando Lea mi ha mandato via whatsapp una clip dello spettacolo ho ascoltato Francesca che cantava i Duran Duran con quelle stesse tonalità. Ho sentito un richiamo potente. Guardando lo spettacolo poi ho capito la politica degli sguardi che è stata messa in scena. Francesca non guarda mai il pubblico, né Fiorenza né Andrea. Il sogno d’amore dei Duran Duran che interpreta non guarda mai, ma dev’essere guardato. Tranne alla fine quando, seduta in una poltrona in fondo al palco, per la prima e ultima volta Francesca guarda il pubblico. Poi la musica finisce. Subito è arrivato un colpo qui in platea. “Uao”, ho sentito dietro di me quando sono state spente le luci. L’amore ti ha guardato. Ed è finito perché si è fatto buio.
Rileggendo il libro di Lea ho capito che questa messa in scena può essere un’altra critica all’idea di amore come fusione assoluta, miracolosa, a cui si è addestrati dalla prima età. Lo stesso vale per l’opposto: l’amore come fantasma da nutrire obbligatoriamente ma che si traduce nella fredda logica dell’assenza. Un potere devastante. Quella liberazione passa dalla relazione dove mai l’autonomia è garantita, ma in cui può essere sperimentata.
È questo un futuro fantastico.
Nell’immagine di copertina Giacomo Cossio “ControNatura” (dalla pagina Facebook di Santarcangelo)