cult
SPORT
Free Solo e i conquistatori dell’inutile
Nel documentario “Free Solo” del National Geographic, la storica scalata senza protezioni della montagna El Capitan da parte dell’arrampicatore Alex Honnold. Un’impresa frutto di una storia collettiva che cambierà gli orizzonti del climbing
Lunedì sera siamo stati alla seconda presentazione romana di “Free Solo” , il documentario di National Geographic girato da Elizabeth Chai Vasarhelyi e Jimmy Chin che racconta la monumentale scalata (senza corde e sicure di alcun tipo) del climber Alex Honnold su El Cap.
Davanti al cinema in Piazza della Repubblica sono centinaia le persone in attesa di entrare in sala per assistere alla proiezione di un documentario che passerà alla storia così come l’impresa che racconta. Nel mondo si parla già di “FreeSolo Mania” poiché tutte le proiezioni organizzate in Europa, comprese quelle italiane, sono sold-out da settimane: numeri non comuni per un documentario su uno sport outdoor ma complice del successo, che ha portato i due registi a vincere premi sia ai Bafta che agli Oscar, c’è il periodo d’oro dell’arrampicata che entrerà per la prima volta a far parte delle discipline olimpiche proprio ai giochi di Tokyo 2020.
Già il trailer del film vale la pena guardarlo dieci volte per la bellezza delle immagini dello Yosemite Park, il tempio dell’arrampicata mondiale la cui storia è raccolta in un altro documentario capolavoro della Senders Film “Valley Uprising”, e perché si percepisce subito che siamo di fronte all’impresa delle imprese; il salto che Alex Honnold fa compiere all’attuale generazione di climbers sarà difficilmente colmabile nel breve e medio periodo.
El Capitain è la parete più importante del complesso dello Yosemite in California; un monolite di granito da sempre considerato il Santo Graal dell’arrampicata già da quando Warren Harding lo scalò per la prima volta mettendoci mesi e piantando centinaia di chiodi nella roccia per potersi tirare su. La prima ad aprire la possibilità di farlo in arrampicata libera (differente dal free solo perché qui l’arrampicatore ha una corda di sicurezza a protezione dalle cadute) è stata una donna eccezionale e unica componente femminile del gruppo degli “Stone Masters”, la tribù di climbers che da metà anni settanta popolarono la Yosemite Valley diventando una delle leggende dell’arrampicata mondiale: Lynn Hill nel 1993 scala per la prima volta e in poche ore El Cap facendo qualcosa fino a quel momento ritenuto impossibile.
Tra i nomi legati indissolubilmente alla storia di El Cap c’è quello di Tommy Caldwell, la cui vita e imprese sono raccontate in altro bellissimo docufilm della North Face & Senders Film dal titolo “The Dawn Wall” dove scorrono le immagini della vita non proprio facile del climber, tra un drammatico rapimento in Kirghizistan e la perdita del dito indice cosa che non gli impedirà di diventare “Mister El Cap” per il numero di vie aperte su El Cap e per la scalata leggendaria sulla via più difficile sulla quale ha lavorato anni: la Dawn Wall. Sarà proprio lui ad accompagnare Honnold lunga tutta la fase di allenamento svelandogli i segreti della Freeride e non nascondendo mai ad Alex il suo scetticismo e la sua preoccupazione pur rimanendo al suo fianco.
In Free Solo i registi riescono a mostrare come l’impresa di Alex Honnold sia frutto di una storia collettiva di tanti climbers che hanno aggiunto, generazione dopo generazione, sfide e traguardi sempre nuovi beffandosi di ciò che tutti ritenevano impossibile. La storia di Alex Honnold, un bambino solo e timido con un padre con la sindrome di Aspergher che lo lascerà troppo presto, si intreccia con la storia della valle di Yosemite abitata da questi climbers contro corrente che qualcuno ha giustamente definito “conquistatori dell’inutile” ricordando che l’arrampicata è una attività stupendamente fine a se stessa.
Il rischio di questo documentario era quello di fare un racconto alla Superman, muscoli e sprezzo del pericolo, il climber che ride in faccia alla morte.
Invece è esattamente il contrario: la storia d’amore tra Alex e Sanni restituisce umanità e leggerezza alla grandezza dell’impresa e questo è sicuramente uno dei meriti dei due registi; Alex e Sanni sono buffi, strappano tanti sorrisi e risate durante il film soprattutto per la goffaggine di Alex nel costruire relazioni sentimentali durature avendo scelto di vivere in un furgone per poter arrampicare muovendosi liberamente. Nel film ammetterà di aver imparato ad abbracciare le persone all’eta di dodici anni e di essere diventato anche piuttosto bravo. Difficile convivere con una scelta come quella di praticare “free solo” sulle big wall americane, perché un conto è la consapevolezza che la morte è sempre dietro l’angolo un’altro è mettercela di proposito dietro quell’angolo.
La scalata è qualcosa di indimenticabile. Esci dal cinema stanco perché è impossibile non immedesimarsi nello sforzo e non contrarre i muscoli durante alcuni frame del film. Alex cammina letteralmente nel vuoto quando affronta alcuni dei passaggi più duri.
Una maglietta, una sacchetta di magnesite e un paio di scarpe da arrampicata. Tutto l’equipaggio è questo. Alex percorre i circa 900 metri della parete in 3 ore e 56 minuti sotto gli occhi della troupe del National Geographic che durante i pitch (i passaggi in cui è divisa la scalata) più pericolosi distolgono lo sguardo dalle telecamere per paura di vedere il loro amico cadere.
La Freerider in particolare è così difficile che negli ultimi anni era già una notizia quando qualcuno riusciva a scalarla con le necessarie attrezzature (chiodi, imbragature, corde). Mark Synnott di Nat Geo l’ha definita «un’odissea di zig-zag che mette alla prova ogni abilità fisica di un arrampicatore: forza delle dita, delle braccia, dei piedi, dell’addome, e anche flessibilità e resistenza».
In un traverso, un movimento in orizzontale sulla parete, Alex si tiene sfruttando la forza dei pollici e inventandosi un strana mossa di karate che gli permette di tenersi in pressione sulla roccia e non cadere.
Già in molti si interrogano sulle conseguenze di questa impresa e del successo planetario che sta suscitando. Come cambierà il mondo dell’arrampicata dopo questo evento e dopo che si sono accesi così tanti riflettori?
Su molti siti, blog e social il dibattito imperversa tra le paure di una eccessiva spettacolarizzazione della pratica dell’arrampicata e la perdita del necessario rispetto, della necessaria attenzione e preparazione che questo sport (per molti di più: una filosofia di vita, una meditazione in movimento) richiede.
Vedremo, nel frattempo le nuove generazioni di climbers, oltre ad avere in Alex Honnold un esempio di amore e dedizione totale al climbing, hanno un nuovo orizzonte per continuare a camminare e ad arrampicare.