approfondimenti

credits Ilaria Turini

EUROPA

Francia. Il Principe del caos

Nell’ambito della crisi diffusa delle democrazie occidentali stavolta tocca alla Francia. Macron brucia un Primo ministro dietro l’altro e comincia a pensare a una trasformazione ancor più autoritaria della Costituzione della V Repubblica

Poco prima delle 20 e 30 di mercoledì scorso, la presidentessa del Parlamento Yaël Braun-Pivet (Renaissance) ha dichiarato chiusa la legislatura del governo di Michel Barnier. Prima volta dopo il 5 ottobre 1962, quando a dare le dimissioni fu Georges Pompidou. 331 i voti per una mozione che ne richiede invece appena 288: è il risultato dell’appoggio del partito di Marine Le Pen, dichiarato nei giorni precedenti, alla mozione presentata dal Nouveau Front populaire (NFP). Le Pen e il suo partito non si sono però risparmiati dal votare, solo due giorni prima, la cosiddetta loi de finances de fin de gestion, una nuova categoria di legge finanziaria introdotta nel 2023 con lo scopo di apportare degli aggiustamenti budgetari in vista della chiusura del bilancio.

Austerity e champagne

Questa legge è particolarmente indicativa della politica di Macron: da un lato, ha abrogato 5 miliardi e 600 milioni di euro in crediti già votati; dall’altro, ne ha elargiti 4,2 di cui la maggior parte hanno rinfoltito il portafoglio degli Interni, con poco più di un miliardo e mezzo per coprire la sicurezza dei Giochi olimpici e paraolimpici. Più un altro miliardo e 100mila euro per la repressione in Nuova Caledonia. Una vera e propria economia di guerra alla popolazione denunciata già lo scorso 14 ottobre da David Guiraud (France insoumise, LFI): «se la popolazione comprendesse perfettamente il nostro sistema budgetario, farebbe la rivoluzione domattina». Il suo bilancio dell’economia dello Stato è chiaro: «non siamo mai stati così ricchi». Dal 2017 al 2024, le casse dello Stato francese sono passate da 285 a 323 miliardi, mentre una chiusura a 357 miliardi è prevista per il 2027.

La violenza dei tagli trasversali in tutti i settori del pubblico, il piano di privatizzazione dei trasporti pubblici, la riforma delle pensioni, vere e proprie politiche di austerity, non rispondono a un deficit di bilancio. Sono piuttosto il contraltare dell’introduzione di quella che il deputato LFI ha definito l’«Iva sociale», proposta d’altronde da Sarkozy. Essa si inserisce in un’impennata del contributo dell’Iva alle casse statali, il cui volume è stato aumentato dall’inflazione da 160 a 217 miliardi tra il 2017 e il 2024. Praticamente il doppio del budget del ministero della Difesa. Dati da capogiro che, addizionati ai precedenti, avrebbero portato a un aumento delle spese sociali dello Stato, se non fosse che l’Iva è stata utilizzata per sopperire all’alleggerimento del peso fiscale sulle grandi fortune.

Una di queste è la CVAE, imposta su un valore aggiunto delle imprese superiore ai 500mila euro annui e con aliquote tra lo 0,094 e lo 0,28% per le cifre d’affari… superiori ai 50 milioni di euro annui. Alleggerita di anno in anno, sarà abolita nel 2027. Assieme alla tassa di abitazione (soppressa nel 2023), la CVAE generava i flussi principali per le casse degli enti locali. Stessa sorte è toccata alla Sécurité sociale, il sistema di previdenza sociale sancito dalla Costituente nel 1945, con un dirottamento totale dei prelievi dell’Iva pari a 120 miliardi di euro. Il totale del conto per i regali ai padroni: più del doppio del budget del ministero della Difesa pagato con la tassa più infame che ci sia.

Accanto all’Iva sociale e alla distruzione della progressività fiscale, la politica economica di Macron si traduce in una strategia di vera e propria sottomissione dell’autonomia degli enti locali e della previdenza sociale al comando verticale dello Stato (tradotto: dell’esecutivo) per mezzo della gestione budgetaria. Basta immaginare cosa possa significare per le politiche territoriali di welfare, di inclusione e di accoglienza avere un esecutivo o ancora una Presidenza della Repubblica in mano all’estrema destra… La legge finanziaria è la continuazione delle guerre del Capitale (guerra di classe, guerra di soggettività, di razza e di genere) continuata con altri mezzi.

Delle ipotesi

La voragine aperta dalla sfiducia e dalle dimissioni del governo Barnier troverà una prima pezza nei prossimi giorni. Che aspetto avrà nessuno può dirlo con certezza. È comunque difficile immaginare che sia migliore del buco. Proviamo però a fare delle ipotesi sulla composizione del governo e sulla tenuta del Nouveau Front populaire. Il perimetro di emergenza del nuovo governo è sancito dall’articolo 12 della Costituzione del 1958, lo stesso che ha permesso a Macron di aprire questa crisi politica con la dissoluzione estiva dell’Assemblea nazionale: «il Presidente non può procedere a una nuova dissoluzione nell’anno che segue le elezioni [avvenute dopo la dissoluzione]» Il rimpasto è d’obbligo; arrivare alla maggioranza è arduo (288 seggi). Da cui quattro scenari possibili, con diversi gradi di verosimiglianza.

La strategia di LFI, come spiega il filosofo Patrice Maniglier, potrebbe consistere nel «forzare la destra macronista a gettare la maschera, cioè allearsi con RN» Una coalizione RN-LR con appoggio da parte della destra macronista (Horizons) si fermerebbe a 67 seggi dalla maggioranza. L’appoggio esterno del partito di Macron (Ensemble) potrebbe comunque far passare alcune leggi e difendere il governo dalla sfiducia. Una tale operazione sarebbe disegnata su misura dal presidente repubblicano del Senato, Gérard Larcher, sull’asse attorno ai ministri dimissionari Bruno Retailleau (ministero degli Interni) e Sébastien Lecornu (ministero della Difesa).

Un’altra ipotesi è un governo di campo largo, già agitato da diversi proclami, soprattutto del centro macronista. Sarebbe uno sbarramento anti-insoumis, a cui sono state invitate le forze politiche che vanno dai Repubblicani al Partito Socialista, e costituirebbe in effetti il solo governo di maggioranza possibile. I tentennamenti dei socialisti e le dichiarazioni del segretario Olivier Faure non dànno segni chiari. Le loro aperture sembrano più una strategia di riposizionamento all’interno del Nouveau Front populaire che una vera e propria dichiarazione di intenzioni: «Abbiamo ricordato [al Presidente] che pretendiamo un Primo ministro di sinistra e che non parteciperemo mai a un governo guidato dalla destra».

A parti invertite, dagli scranni del Partito Repubblicano la musica è la stessa, tra chi accusa il PS di connivenza con LFI e chi accetterebbe una coalizione a condizione di non avere un Primo ministro di (centro-)sinistra. Aggiungiamoci l’allergia antisocialista di Macron e la situazione diventa complicata. Ma la storia recente del Partito Socialista mostra che tutto è possibile. È quello che lascia pensare Manuel Bompard, deputato e coordinatore degli Insoumis: «per non lasciare la direzione del partito [socialista] a François Hollande, Olivier Faure riprende la linea di François Hollande».

L’ipotesi “governo di Bercy” (dal nome del municipio che alberga il ministero delle Finanze) non è da sottovalutare, perché garantirebbe una continuità in seno all’area macronista. Alla fine – non c’è alcun fine: Macron punta solo a mantenere il potere. A guidarlo potrebbe essere l’attuale governatore della Banca di Francia, François Villeroy de Galhau.

Nella prospettiva di un governo guidato da un macronista, due ipotesi si oppongono al momento e potrebbero trovare una sintesi nei prossimi giorni. Una riguarda François Bayrou, ex-ministro della giustizia dimesso per scandali giudiziari, le cui dichiarazioni lasciano presagire il rispetto dell’asse istituzionale che saprà garantire: «il fine di queste elezioni [di luglio] non era di designare un vincitore, ma di scartare gli indesiderati». L’altra ipotesi macronista si sta costruendo invece attorno all’exPrimo ministro Gabriel Attal e al repubblicano Laurent Wauquiez, che sembrano fare da contraltare all’asse Retailleau-Lecornu. Questo nuovo asse opporrebbe una polarizzazione macronista dei repubblicani all’accelerata della loro lepenizzazione caldeggiata dai due ministri repubblicani uscenti.

Al di là dell’ipotesi della coalizione anti-LFI, tutti gli scenari differiscono come un valzer di sedie a cui giocano l’area macronista, i repubblicani e il Rassemblement national. Non è detto che nessuno di loro cada o si scontri nei balletti che seguiranno questi giorni. E che il Nouveau Front populaire non colga un’occasione per inserirsi, anche se è veramente difficile collocarlo altrove che all’opposizione almeno fino alle prossime elezioni. Rimane la fragilità del NFP, accentuata dall’identità socialista di “partito di governo” che, nella situazione di minoranza in cui si ritrova, si traduce in un ostinato settarismo.

La levata di scudi non c’è stata solo dalle parti degli Insoumis, ma anche dei Verdi che hanno gridato al tradimento. Unica forza ricevuta da Macron, la delegazione socialista guidata da Faure ha espresso la necessità di consultazioni aperte a tutte le forze della sua coalizione, a cui il Presidente della Repubblica ha acconsentito. Lunedì saranno accolte le delegazioni dei Verdi e del PCF, mentre LFI rifiuta il dialogo: «o il nostro paese vive al ritmo di un governo che cade ogni due mesi, oppure il presidente della Repubblica prende atto del caos che lui stesso ha creato». «Il nuovo Presidente” – ha dichiarato Bombard (LFI) – «potrà nominare un Primo ministro, proporre dei referendum e poi nuove legislative qualche mese più tardi». Il caso è però chiuso: il Principe ha negato con forza una tale possibilità.

La polarizzazione del Nouveau Front Populaire tra LFI e Ps ha cominciato a dare i suoi frutti. Abituati ad associare il settarismo a una forma di estremismo, ci ritroviamo a constatare qualcosa come un settarismo di governo: pur di partecipare al prossimo governo, il Ps è restato isolato, accompagnato da qualche seggio dei Comunisti. E se veramente riuscirà ad accedere al governo, sarà solo d affrontare i nuovi partner temporanei che continuano a rimproverargli le alleanze elettorali con gli Insoumis. Questi ultimi, invece, sono riusciti a ottenere dai Verdi almeno un rifiuto, martedì mattina, di far parte di un governo di coalizione. Una censura “automatica” al governo che verrà, soprattutto se una parte del NFP ne farà parte, potrebbe essere una mossa tattica di LFI per contare quel che resta del cartello elettorale.

Transizione

La sensazione è di essere in una fase di transizione. Mélénchon batte da anni sul ferro della transizione alla Sesta Repubblica. Macron pure, anche se a fasi alterne e per tramite del suo primo ex-Primo ministro Edouard Philippe (Horizons), adesso alla testa della destra macronista. Quest’ultimo ha di nuovo fatto riferimento a una Costituente negli ultimi giorni, prima e dopo la mozione di sfiducia. In diretta tv su BFM, Philippe ha parlato apertamente dell’urgenza di un nuovo momento-de Gaulle: «la V repubblica è stata creata per creare un esecutivo potente, una stabilità, una visione a lungo termine, una capacità di agire e di riformare». È un programma neoliberale di riconfigurazione istituzionale in nome di una verticalizzazione dello Stato attorno all’esecutivo. Questo è già iscritto nell’attuale Costituzione, che prevede l’uso del comma 3 dell’articolo 49, ma almeno è controbilanciato dalla possibilità, da parte dell’opposizione, di presentare una mozione di sfiducia. E di ottenerla una volta ogni 62 anni. Troppe mozioni di sfiducia per un potere bulimico. Insomma: la Sesta Repubblica macronista significherebbe un esecutivo ormai al di sopra del legislativo e del giudiziario senza contro-bilanciamento parlamentare.

È quello che traspare dal discorso del presidente di Horizons candidato per le Presidenziali del 2027, che negli ultimi anni non si è risparmiato neanche dei riferimenti espliciti e nostalgici alla monarchia. Del resto, ha continuato, «bisognerà accettare di cambiare profondamente la mentalità alla quale sia abituati e a volte eccessivamente affezionati». Per esempio, la mentalità democratica e questa fastidiosa divisione dei poteri. Si tratta di uno scoglio abbastanza fastidioso per il programma neoliberale di Macron, che gli è costato una crisi politica permanente, ereditata dalla Presidenza Hollande, con ben sei governi in sette anni. Otto, potremmo aggiungere a partire dal prossimo.

L’uscita dalla V Repubblica è quindi il vero oggetto di contesa, dal basso o dall’alto. Per Macron e i suoi significa: completare la sottomissione della società allo Stato, sempre più militarizzato e accentrato attorno allo strapotere dell’esecutivo sui poteri legislativo e giudiziario, per completare l’altra sottomissione, quella dell’esecutivo alla macchina da guerra capitalista. In altri termini, significherebbe indicizzare la costituzione formale della nuova Repubblica sulla costituzione politica del mercato.

La condizione per cop0letare l’opera è una sussunzione materiale e totale dell’esecutivo nella persona del Presidente. La prossima tappa sarà a gennaio, quando il Consiglio costituzionale rinnovato si riunirà per decidere se aumentare i turno presidenziali da due a tre. Delle dimissioni anticipate del Principe, e la sua vittoria, potrebbero prolungare la monarchia macronista fino al 2032, quindici anni di potere. La sfida attuale del NFP, in caso di tenuta, o di una nuova maggioranza di sinistra, sarà proprio la VI Repubblica, sociale, democratica e popolare proposta da LFI. L’alternativa, di cui abbiamo abbozzato approssimativamente i lineamenti, sarebbe una V Repubblica “motorizzata” (anzi, in buon tedesco, motorisierte), dove il motore sono i gabinetti di consiglio. Gli scandali sull’ingerenza delle società di consulenza (caso McKinsey) sta lì a ricordarcelo. Potrebbero smettere di essere degli scandali e diventare il paradigma “normale” della Repubblica francese.

Foto di copertina di Ilaria Turini

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