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MONDO
Fra il vecchio e il nuovo: Bukele vince le elezioni nel Salvador e consolida la dittatura
Militarizzazione, sospensione dei diritti, torture: Bukele domenica 4 febbraio ha vinto le elezioni e si è dichiarato presidente prima ancora che si concludessero le operazioni di scrutinio, sfoggiando un risultato storico: l’85% dei voti a favore e un minimo di 58 seggi su 60 in parlamento
Arresti di massa, sospensione dei diritti, torture, sparizioni forzate, isolamenti e omicidi extragiudiziali. Video in alta qualità di milgiaia di persone tatuate e incatenate l’una all’altra che si affrettano a entrare nella “carcere più grande delle Americhe”. Pulizia sociale, militarizzazione, violenza; novità, normalità, sicurezza e rassicurazione.
Bukele è tutto questo e domenica 4 febbraio ha vinto le elezioni; si è dichiarato presidente prima ancora che si concludessero le operazioni di scrutinio, sfoggiando un risultato storico: l’85% dei voti a favore e un minimo di 58 seggi su 60 in parlamento per il suo partito Nuevas Ideas, stanto ai dati a sua disposizione. Nessuna sorpresa, tutto piuttosto scontato, pure l’ampio margine percentuale che riflette la sua grande popolarità e al contempo lo stato agonizzante dell’opposizione.
Ma quel che interessa di Bukele, in realtà, sta a monte ed è l’intero apparato statale da lui creato negli ultimi anni, un meccanismo che sembra funzionare alla perfezione generando consensi e risultati concreti, basandosi su due ingranaggi che per ora sembrano impeccabili: la strategia comunicativa e la “mano dura”. Un binomio contenuto nel suo stesso personaggio, perfino nell’aspetto e nell’autodefinizione: “il dittatore più cool del pianeta”. Un modo di far politica, il suo, in grado di nascondere le contraddizioni ed eludere la legge, di confondere e convincere, costruitosi sulla base di un’apparente “guerra alle pandillas e alla criminalità”, e spacciato come una ventata d’aria fresca.
È propio lì, nel rapporto fra il vecchio e il nuovo, dove converge l’interesse del “modello Bukele” e la chiave della sua interpretazione, tanto per chi lo guarda da lontano e si interroga su come praticare oggi l’antifascismo in senso ampio e trasversale, come per chi lo vive e lo subisce dall’interno.
Ne parliamo dunque con David Morales, avvocato e coordinatore dell’area di giustizia di transizione dell’organizzazione salvadoregna Cristosal, attiva da 20 anni nell’accompagnamento giuridico e sociale alle vittime della violenza di Stato. Dai massacri di Mozoto e Calabozo negli anni ’80 perpetrati dai militari, passando per le vittime della violenza delle pandillas e del totale abbandono statale, arrivando oggi alle migliaia di persone incarcerate senza alcun processo, in isolamento e sotto tortura, Cristosal dispone di un’esperienza e una documentazione decennale che le ha permesso di denunciare pubblicamente le atrocità del regime, sfidando i rischi che ciò comporta e permettendo di far luce su quanto accade nel presente.
A queste elezioni Bukele si è presentato per la seconda volta, nonostante il sistema elettorale del Salvador non contempli questa possibilità. Ci può spiegare come ciò sia avvenuto?
È necessario fare un passo indietro. Il Salvador ha vissuto dittature militari nel secolo XX e pure una guerra civile (1980-1992), la quale sebbene fu provocata da cause strutturali, trovò nei brogli elettorali il detonante. Ma a partire dal 1992, anno degli Accordi di Pace, si realizzarono riforme in modo da poter contare su un sistema elettorale più o meno trasparente.
Bukele è stato eletto democraticamente per la prima volta nel 2019, dopo aver condotto una campagna elettorale all’insegna della lotta alla corruzione, della difesa dei diritti democratici e delle libertà civili. Ma una volta eletto, e ancor più una volta che il suo partito, Nuevas Ideas, ha conquistato la maggioranza assoluta nel parlamento nel 2021, Bukele ha fatto di tutto per smantellare la democrazia e lo Stato di diritto che il Salvador aveva costruito a partire dagli stessi Accordi di Pace.
Il colpo di Stato, perché di questo si tratta, si è articolato su più fasi e livelli: la destituzione del Corte costituzionale e la nomina di giudici leali al presidente, la modifica della composizione della Corte suprema de Justicia – l’entità giuridica più alta nel Salvador – la sottomissione del Pubblico ministero al potere presidenziale.
Tutto questo processo, che è assolutamente anticostituzionale, spiega come si sia arrivati alla candidatura di Bukele per il secondo mandato presidenziale. Nel Salvador il periodo presidenziale è di 5 anni e non è prevista la rielezione consecutiva: la stessa Costituzione in vari articoli molto chiari vieta questa possibilità. Ciò nonostante, con manovre politiche e giuridiche molto dubbie, Bukele ha potuto cambiare le regole del gioco e ottenere l’avallo della Camera costituzionale della Corte suprema.
E poi, ovviamente, c’è la questione dello Stato di eccezione, in vigore da marzo 2022. Per la prima volta dall’era delle dittature militari e della guerra civile, si è votato in uno Stato di eccezione, basato fondamentalmente sulla militarizzazione delle comunità urbane e rurali, oltre che delle sedi elettorali.
Parliamo dello Stato di eccezione: di che cosa si tratta e che cosa implica?
Il regime di eccezione è una situazione che il governo può decretare per un tempo limitato, che nel Salvador corrisponde a 30 giorni e che può essere eccezionalmente prolungato di altri 30. È pensato per far fronte a situazioni straordinarie come catastrofi naturali, pandemie, violenza sociale generalizzata, ma non, come invece è stato usato da Bukele, per far fronte all’aumento del tasso di omicidi dovuto alla violenza comune o delle pandillas. In questo caso, lo Stato ha il dovere di affrontare tale problema sociale attraverso la creazione di una politica di sicurezza interna, che per avere successo dovrebbe fondarsi sulla prevenzione anziché unicamente sulla repressione.
Lo Stato di eccezione non è una politica di sicurezza, bensì una strategia anticostituzionale e che viola i diritti umani. Si tratta fondamentalmente di una limitazione generalizzata dei diritti stabiliti dalla Costituzione. Bukele si è spinto oltre, con la riforma del Codice di procedura penale e la modifica di altre leggi, costruendo una struttura giuridica ad hoc, nominado giudici “di eccezione” (senza volto né identità pubblica) e dando la libertà a militari e polizia di arrestare migliaia di persone a cui non è garantito alcun giusto processo. Tutto ciò non potrebbe avvenire se non in uno Stato di eccezione prolungato allo Stato di diritto, ossia in una dittatura.
Eppure, nonostante queste manovre anticostituzionali, Bukele gode dell’appoggio della maggioranza della popolazione, come dimostra il voto del 4 febbraio.
Bukele è un populista in tutto e per tutto, e come ogni populista attraverso discorsi demagocici ha saputo vendere l’idea di un cambiamento. Oltre a ciò, ha creato un sistema mediatico e di propaganda moderno ed efficace, basato sul marketing politico e sulle reti sociali; un sistema mediatico che appoggia, giustifica e promuove l’apparato di violenza che si è sviluppato.
Però certamente tutto questo non avrebbe avuto un tale successo se non fosse stato per la guerra dichiarata alle pandillas, le quali durante molti anni hanno esercitato una violenza estrema e hanno di fatto tenuto in ostaggio ampi settori della popolazione – soprattutto quelli impoveriti – generando ferite profonde nel tessuto sociale; una violenza che ovviamente ha trovato campo fertile nel sistema di disuguaglianza e ingiustizia sociale presente nel Salvador, così come nell’abbandono statale in termini di servizi e politiche pubbliche.
La questione delle pandillas non è nuova e nemmeno lo è il discorso demagogico a tal riguardo da parte dei governi: tutti, da quello di Francisco Flores a quelli del Frente Farabundo Martí para la Liberación Nacional – FMLN, hanno adottato una politica di tolleranza zero e “mano dura”, quel che l’accademia riconosce come “populismo punitivo”. Queste politiche, o meglio questi discorsi, hanno sempre riscosso successo e appoggio da parte della popolazione, pur non offrendo risultati efficaci né sostenibili.
Bukele si inserisce a pieno in questa tradizione e ne fa una bandiera, uno strumento di propaganda basato sui numeri di un’apparente riduzione del tasso di omicidi a legittimazione della svolta autoritaria e della militarizzazione del paese. E ciò ha un impatto importante sull’opinione pubblica a suo favore, nonostante recentemente il portale indipendente El Faro abbia rivelato l’esistenza di negoziati e accordi fra Bukele e i capi delle pandillas, dimostrando quindi che l’attuale situazione non è altro che uno “stato di pace mafiosa”.
È chiaro che tutti i governi hanno sempre dialogato con le pandillas, e di fatto la tendenza alla riduzione degli omicidi è una costante a partire dal 2016, risultato di patti simili a quelli sottoscritti da Bukele. Anche in questo caso, lui non fa nulla di nuovo, ma lo fa in modo più teatrale e profondo, procedendo ad arresti di massa, inasprendo le pene e i trattamenti, ma di fatto lasciando nella completa impunità i dirigenti delle pandillas.
Bukele ha fatto arrestare oltre 70’000 pandilleros, ma secondo una ricerca di Insight Crime altre decine di migliaia si manterrebbero in libertà. Chi sono, dunque, le milgiaia di persone che si trovano in carcere?
Ripeto quel che ho detto prima: Bukele non ha nessun tipo di “politica di sicurezza”, non ha nessuna intenzione di risolvere le cause strutturali della violenza né di offrire un accompagnamento giuridico e sociale alle vittime. La questione delle pandillas e della violenza è strumentale al suo discorso perché gli consente di mobilitare il suo sistema mediatico, estendere continuamente lo Stato di eccezione e concentrare sempre più potere.
Rispetto ai numeri, certo, non coincidono: se ci fossero 70’000 pandilleros nelle carceri, non dovrebbero più essercene fuori, stando alle cifre dei presunti integranti di queste formazioni. Eppure è stato dimostrato che rimangono 40’000 pandilleros liberi e armati. Quindi è evidente che le persone arrestate, nella maggior parte, non sono pandilleros, o non direttamente. E queste persone stanno vivendo l’inferno della tortura, delle morti in carcere, della privazione di qualsiasi diritto.
È difficile dire chi siano, perché sono decine di migliaia e perché sono state arrestate arbitrariamente e senza alcun processo. Vengono arrestate persone tatuate – anche se i loro tatuaggi non rimandano ad alcuna appartenenza alle pandillas – persone che precedentemente erano parte di una pandilla ma che poi hanno seguito un percorso di reinserimento sociale, persone che hanno commesso delitti minori o che hanno in qualche modo la fedina penale sporca, persone che a loro volta sono state vittime della violenza delle pandillas, e che ora vengono accusate di farne parte.
In generale, a essere colpita dalla repressione è la popolazione povera, o meglio impoverita, vittima storica della violenza e dell’abbandono statale, così come delle pandillas.
Inoltre, certamente, la violenza dello Stato si dirige contro oppositori politici, movimenti sociali, intere comunità storicamente organizzate e resistenti. E pure contro organizzazioni che denunciano i crimini dello Stato e promuovono o difendono i diritti umani, come Cristosal, che costantemente è vittima di minacce e criminalizzazione.
Mano dura, autoritarismo, dittatura, non rispetto delle norme giuridiche costituzionali e internazionali: quale rischio rappresenta il “modello Bukele” per il Salvador ma anche per altri Paesi?
È un rischio molto grande sia internamente che esternamente, ma voglio precisare che questo regime non ha niente di nuovo e nemmeno si può definire come un “modello”: si tratta di uno slogan che ha grande successo mediatico ma che non sta facendo altro che riprodurre pratiche autoritarie già viste storicamente nel Salvador e altrove. Fondare e mantenere il potere sull’apparato militare, militarizzare i territori e la società, opprimere quest’ultima con meccanismi di controllo sociale, non rispettare il sistema giuridico ed anzi modificarlo arbitrariamente, usare i mezzi di informazione come propaganda di regime: tutto questo è qualcosa che si è già visto e rivisto nelle dittature militari latinoamericane. E che purtroppo oggi si sta ripresentando nel Salvador, con l’aggravante di godere di un successo mediatico nazionale e internazionale, suscitando l’interesse dell’estrema destra di molti Paesi e invece la poca attenzione da parte della comunità internazionale, la stessa attenzione che recentemente ha permesso di sventare il colpo di Stato in Guatemala.
D’altra parte, vorrei concludere precisando che il popolo salvadoregno ha una tradizione di lotte sociali e politiche importanti alle spalle; è un popolo che ha vissuto la guerra civile e la repressione, ma che ha saputo anche trovare il modo di organizzarsi e di resistere. Per quanto ora appaia completamente sommerso da Bukele e dalla situazione attuale, non ho dubbi che di fronte a una crescente pressione dittatoriale, saprà prendere coscienza e organizzare lotte popolari per generare un cambiamento.
Immagine di copertina di Us Aid