ITALIA
Fra armi e fossile, la ripresa italiana al sapore di “greenwashing”
Le Relazioni passate in Parlamento in questi giorni indicano il settore delle armi come destinatario dei fondi europei per la ripresa post-pandemica. Una decisione del tutto “inaccettabile”, secondo la Rete Italiana per la Pace e il Disarmo
Mentre l’Italia sprofonda in una nuova “zona rossa”, c’è chi comunque continua a muoversi, incontrarsi, affaccendato in attività di convincimento e pressione. Non solo lavoratori e lavoratrici dei settori essenziali (che nel frattempo scioperano e protestano): rappresentanti, lobbisti e persone “vicine” alle grandi multinazionali dell’energia e del mondo degli armamenti fin dal primo lockdown non hanno infatti cessato di esercitare la propria influenza verso le istituzioni sia europee che nazionali.
Il risultato? Una parte dei fondi del Recovery Plan potrebbe essere destinata a «rinnovare capacità e sistemi d’arma a disposizione dello strumento militare». È quanto scritto nelle Relazioni definite dalle Commissioni parlamentari competenti e votate in questi giorni a Camera e Senato, sulla base delle quali verrà appunto stabilito come orientare i finanziamenti erogati dall’Unione Europea per la ripresa del paese.
Secondo la Rete Italiana Pace e Disarmo, si tratta di una decisione “inaccettabile”. «Non solo contraddice le finalità del Piano europeo per la ripresa – si legge dal comunicato pubblicato giovedì dall’associazione – ma accantonando le proposte delle organizzazioni della società civile (e del mondo del lavoro) considera il settore militare, già ampiamente finanziato, come fattore di ripresa per il Paese». Non è solo una questione di fondi e dei modi in cui verranno allocati, dunque, ma un problema di visione più complessiva di quali siano per il governo le priorità del paese.
Stando a quanto scritto nelle Relazioni, infatti, per l’esecutivo Draghi occorre «sostenere l’ammodernamento e il rinnovamento dello strumento militare» così come è necessario «promuovere una visione organica del settore della Difesa».
Locuzioni e dichiarazioni di intenti che entrano nei documenti ufficiali con un “deciso cambio di passo” rispetto al Conte Bis, che prevedeva l’inserimento del comparto militare nelle spese dedicate alla ripresa solo attraverso aspetti secondari (come il rafforzamento della sanità militare): il tutto dopo che a fine febbraio si sono svolte audizioni informali di rappresentanti di rappresentanti dell’industria militare (Aiad, Anpam e Leonardo Spa, azienda da cui “proviene” il neoministro Cingolani).
(commons.wikimedia.org)
Le richieste che arrivano dalla società civile, intanto, permangono inascoltate. Il documento 12 proposte di Pace e Disarmo per il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, elaborato lo scorso febbraio da Ripd come contributo al processo di formazione del programma “Next Generation Italia” e contente progetti che provano a orientare il rilancio del paese «ai principi e ai valori della pace, della cooperazione, della solidarietà, al rispetto dei diritti umani», non è stato preso in considerazione da nessun rappresentante istituzionale.
Al contrario, i benefici che il settore degli armamenti può ricevere dai fondi europei andrebbero ad aggiungersi a finanziamenti già cospicui: oltre ai 27 miliardi del Fondo pluriennale per il periodo 2017 -2034, il ministero della Difesa secondo la bozza della legge di bilancio 2021 incassa un aumento di fondi rispetto al 2020 di circa 1,6 miliardi di euro, passando da 22,94 a 24,54 miliardi (lo ricorda Luca Liverani su “Avvenire”).
Insomma, sintetizza sul quotidiano “Domani” il presidente del Movimento Nonviolento e direttore della rivista “Azione nonviolenta” Mao Valpiana: «C’è molto malumore, oggi, nell’associazionismo pacifista e nonviolento, per questo tentativo di “appropriazione indebita” di fondi che, secondo quanto scritto nella stessa introduzione del Pnrr dovrebbe prefigurare un futuro di pace e di riconciliazione con la natura […]. Anziché aumentare e migliorare il sistema di difesa civile e di prevenzione dei conflitti, si preferisce rafforzare il potere della dittatura delle armi. D’altra parte siamo un paese che è autosufficiente nella produzione dei sistemi militari necessari alla Difesa armata, ma siamo totalmente dipendenti dall’estero per la tecnologia e le apparecchiature medico-sanitarie».
Difficile non pensare – sebbene le recenti polemiche possano essere imprecise – all’aiuto fornito al nostro paese dai medici cubani all’inizio della pandemia e allo scarso riconoscimento che viene loro tributato presso il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite (stigmatizzato anche dalla sindaca di Crema, paese in cui operò la brigata Henry Reeve).
In atto c’è dunque un «tentativo di greenwashing» da parte dell’industria militare, come lo definisce ancora la Ripd, che fa il paio con altre operazioni di pulizia di immagine e influenza lobbistica: è sempre di questi giorni la pubblicazione di una nuova bozza del “Taxonomy Delegated Act”, misura che dovrebbe definire i criteri con cui l’Unione Europea andrà a catalogare le attività ritenute sostenibili in termini climatici e che possono dunque essere finanziate e incentivate come tali.
Nella versione circolata a Bruxelles, tra le attività “sostenibili” rientrano anche il gas e il nucleare, nonché il cosiddetto idrogeno “grigio o blu” che poco ha a che fare con l’idrogeno prodotto mediante processi rinnovabili.
Secondo una lettera che 226 scienziati e rappresentanti di diverse associazioni e organismi che si occupano di tematiche ecologiche hanno indirizzato alla Presidenta della Commissione Europea Ursula von der Leyen, si tratta di «una resa totale nei confronti della lobby del gas, tanto più pericolosa perché nel momento in cui altri paesi del mondo stanno mettendo a punto i loro sistemi concorrenti di classificazione degli investimenti sostenibili, abbassare l’ambizione europea significa creare un precedente che rischia di trascinare al ribasso tutto gli altri».
(foto: Francesco Brusa)
Anche in questo caso, è difficile non sottolineare come un tale cambio di prospettiva arrivi in seguito a un’intensa attività di pressione, influenza e persuasione messa in campo da numerose aziende e strutture che investono nel fossile: un’attività che dallo scoppio della pandemia non solo ha proseguito ma è anzi aumentata proprio in previsione dei fondi che sarebbero stati destinati alla ripresa post-emergenziale.
Lo racconta bene l’inchiesta del collettivo Re:Common Covid-19 e la lobby dell’industria fossile: «L’industria dei combustibili fossili sta sfruttando la pandemia di Covid-19 per consolidare il proprio potere, accaparrarsi denaro pubblico destinato alla ripresa e promuovere false soluzioni alla crisi climatica, che non fanno altro che aggravare».
Lo denunciano da tempo, con proteste e azioni dirette, gli attivisti e le attiviste dei movimenti Fridays For Future ed Extinction Rebellion. Proprio il primo di aprile si è svolta in numerose città della penisola la “giornata di ribellione alla finanza fossile”, organizzata dal collettivo di origine inglese: a Roma, decine di persone si sono riunite presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze per contestare l’intreccio, torbido, fra interessi economici delle aziende e decisioni politiche del governo.
Un’attivista, dal microfono, ha letto le parole dei Versetti quasi ecologici di Giorgio Caproni:
«Non uccidete il mare,
la libellula, il vento.
[…] chi per profitto vile
fulmina un pesce, un fiume,
non fatelo cavaliere
del lavoro. L’amore finisce dove finisce l’erba
e l’acqua muore».
Immagine di copertina da commons.wikimedia.org