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Foucault e Schmitt a confronto ed entrambi alla luce dell’incombente regime di guerra

In “Foucault critico di Schmitt. Genealogia e guerra” (ed. Rubbettino, Soveria Mannelli 2024, € 20) Valentina Antoniol, ricercatrice in Filosofia politica presso l’Università di Bari, studia sulla base dei testi e dei materiali preparatori editi e inediti analogie e differenze tra Foucault e Schmitt (al di là dell’assenza di un confronto esplicito), evidenziando due diverse prese d’atto della crisi della sovranità

Con Foucault critico di Schmitt Valentina Antoniol compie una doppia  operazione felicemente spericolata: periodizzare il tema della guerra nella produzione foucaultiana e raffrontarla con le considerazione sullo stesso oggetto di Carl Schmitt, rilevando analogie e contrasti – operazione non inedita ma neppure frequente e supportata da uno studio attento della selva di manoscritti e appunti inediti di Michel Foucault, i Fonds omonimi, soprattutto in preparazione del corso su «Bisogna difendere la società» del 1975-1976 (cfr. pp. 210 ss.). Tenendo conto, per di più, della notoria reticenza del pensatore francese a citare le sue fonti, pari soltanto alla straordinaria capacità della sua controparte tedesca a confondere le piste, in parte per un connaturato occasionalismo, in parte per le sue inclinazioni dadaiste.

Il modello polemocritico

Sul primo versante, V. Antoniol ricostruisce il sorgere (cap. 1) e il completo dispiegamento (cap. 2) di quello che chiama lo schema polemocritico (il termine è di M. Senellart) o anche l’ipotesi di Nietzsche (in effetti di Eraclito, il polemos padre di tutte le cose) ovvero la definizione della guerra civile (o “generale”, differenziata dalla “guerra guerreggiata” inter-statale) come modo di esercizio del potere e suo strumento strategico di azionamento nell’antagonismo di due forze per l’egemonia, cui succederà uno spostamento di accenti verso uno schema governamentale e biopolitico che complessifica il primo schema senza abbandonarlo. Si introduce così una genealogia della difesa sociale e dell’emergere del nemico interno, con le sue conseguenze tanatopolitiche e di razzismo di stato, ma anche di uno smarcamento da una logica antagonistica a favore di una prospettiva agonistica, della prevalenza della norma e della normalizzazione sulla meccanica sovrana della legge.  

È su questo terreno che si apre un campo comune su cui si gioca l’assonanza e la dissonanza tematica con Schmitt (capitoli 3 e 4), per cui del pari il riferimento alla guerra attraversa tutte le fasi del suo tutt’altro che uniforme percorso – dal conservatorismo cattolico al decisionismo all’istituzionalismo. Occasionalismo, certo, che di Schmitt è di volta in volta l’imbarazzante fardello (quando critica anticipatamente il “nemico assoluto” delle guerre statunitensi al terrore per giustificarsi nelle procedure di denazificazione), comico (quando scrive un capolavoro come il Römischer Katholizismus per impetrare dalla Sacra Rota lo scioglimento del primo matrimonio), lirico–melvilliano quando evoca le balene o Benito Cereno. Né da meno era Foucault, se iscriviamo tutti gli scritti polemocritici nella coda maoista e anti-althusseriana del ‘68 (”sollevarsi è giusto”) e quelli più tardi nell’interesse per il neoliberalismo.

Fino al 1976 è centrale in Foucault il motivo della continuità del conflitto per cui ogni spazio e tempo è incessantemente attraversato dalla guerra, secondo un impianto di indagine micro- e non macrofisico, dalle relazioni di potere più che dai grandi apparati di potere, senza divisioni di campo fra interno ed esterno (senza quindi una specifica dimensione internazionale). Lo Stato non vi ha un ruolo, neppure interno, come neutralizzatore di un conflitto che tende perpetuamente a riproporsi e come instauratore di un ordine che invece è sempre scosso e rimesso in discussione. Siamo all’opposto della linea inaugurata da Hobbes e di cui Schmitt sarà, a suo modo, l’ultimo esponente.

Il giurista di Plettenberg entra qui in tacito dialogo con Foucault, con una significativa differenza: Solo con la “guerra civile mondiale” (Weltbürgerkrieg), conseguente alla rottura dell’ordinamento di Vestphalia e al declino dello ius publicum Europaeum con la pretesa di abolire la guerra invece di limitarla, cadono le distinzioni fra guerra e pace, interno ed esterno, nemico pubblico e criminale da estirpare.

Proprio in questa massima vicinanza al pensiero post-polemocritico di Foucault esplode però la divergenza: se, per entrambi, si tratta di passare dalla prospettiva di “vincitori” a quella dei “vinti” relativizzando le ragioni dei primi, per ii francese si tratta di «elaborare una storia di vinti», per il tedesco l’obiettivo è di «recuperare le glorie dell’era hobbesiana, nel momento in cui ne viene intravista la fine e dunque la sconfitta. In poche parole […] scrive, rivendicandola, una storia “da” vinto, ma anche da ex-vincitore» (p. 223). Il profeta dei grandi spazi e del nomos della terra deve constatare amaramente che il dominio dl mare e dell’aria è passato in altre mani e lui si trova nella posizione vittimaria che aveva teoricamente riservato ai nemici della Germania. Vi si colloca con abilità – sia staccandosi dalla riva con Terra e mare sia riattivando la dimensione tellurica del Politico (quasi) senza stato nella Teoria del Partigiano –, lascia  accortamente filtrare quanto del proprio passato potesse denazificarlo: l’affinità con Benjamin, che Taubes si bevve, i rapporti con l’allievo Leo Strauss (nel frattempo divenuto maestro del conservatorismo  statunitense), la lontananza spirituale dal regime, di cui era buon  emblema il tenere appeso nella sua villa di Dahlem un ritratto dell’ebreo, marittimo e britannicamente imperiale Disraeli al posto di quello di Hitler. Ma non poteva uscire dal cerchio magico leviatanico della tradizione dell’Uno sovrano che dà forma al popolo. IL partigiano schmittiano, per quanto “irregolare”, è ancora una funzione di resistenza ad altri popoli o stati invasori, quindi l’alterità definisce pur sempre un’identità, mentre il soggetto partigiano di Foucault fonda e mantiene una molteplicità – binario vs duale.

Due tradizioni

Ma veniamo a due aporie – che del resto rinviano a una impasse comune a molta letteratura in materia. La prima ha nome Machiavelli, un autore citato fuggevolmente e frainteso in Foucault (che lo assimila in sostanza a Hobbes e ne fa una voce precorritrice della sovranità), appropriato con enfasi vittimistica da Schmitt («Plettenberg è la mia San Casciano»), ma in realtà da lui remoto quanto Nietzsche. È invece Spinoza, amato da Foucault e inviso a Schmitt, a richiamarlo positivamente: l’acutissimus Florentinus, lettore accanito di Lucrezio, insieme agli atomisti Democrito ed Epicuro.

In Machiavelli la sovranità non è negata, è proprio assente, ogni comunità è segnata da due “umori” che la spaccano naturalisticamente: i Grandi, che vogliono comandare e opprimere il popolo, e il popolo che da loro non vuole essere oppresso e comandato. Una repubblica riuscita fu quella romana, grazie non all’armonia ma alle “dissensioni” fra Senato e plebe che tengono aperta la dialettica politica e sospingono a scaricare le tensioni interne nell’espansione territoriale. Il conflitto a Roma è salvaguardia di libertà e produttivo di istituzioni (per es. il tribunato) e anche nella logica complessivamente autodistruttiva dei tumulti fiorentini l’abortita sommossa dei Ciompi è oggetto di una straordinaria narrazione (nel terzo Libro delle Istorie fiorentine) dove si traccia un controdiritto delle “plebe infima” insorgente (con annesso temporaneo dualismo di potere), si smaschera la natura bellica e rapace della legittimità dei vincitori sedimentata in leggi e precetti morali e si ipotizza la trasformazione dell’azione individuale sovversiva in illegalità di massa. I Ciompi che si sollevano sono «una sciolta moltitudine» – proprio la dissoluta multitudo esecrata nel De cive hobbesiano, che non ha nessuna intenzione di farsi Uno, di farsi “popolo”, corpo docile del Sovrano, ma vuole arraffare «la roba» dei ricchi e per di più rivendica l’onore dell’eguaglianza e della non soggezione al comando dei potenti.

Di quale guerra parliamo?

L’altra aporia, che è tale specificamente per una militante di lungo corso come Valentina, concerne la figura della guerra. Giustamente evocata nella sua immanente presenza sin dalla prefazione, ma poi, attraverso l’indagine sullo schema polemocritico di Foucault, tutta incentrato sulla “guerra generale” piuttosto che sulla “guerra guerreggiata”. Non sta qui un limite dello stesso Foucault, pensatore di un’epoca di pace post-II Guerra mondiale che si annunciava illimitata e segnata dal prevalere del conflitto intra-nazionale e che agevolmente scivola, dopo «Bisogna difendere la società», nell’agonismo neoliberale e nella governamentalità biopolitica?

Il rapido affermarsi attuale di un regime di guerra con eserciti, battaglie, versamento di sangue rosso, missili e droni deforma tutte le politiche interne statali dirottando le spese dal welfare agli armamenti, dal keynesismo sociale a quello militare, individua il nemico interno nel pacifismo e nei movimenti che richiedono un aumento della spesa sociale, bollando i dissenzienti come “traditori” in senso arcaico patriottico, e non più traditori di classe o di razza.

La governamentalità neoliberale sembra giunta a un capolinea, come forza che è stata captata e sussunta all’interno di un’altra forza egemonica, quella mai del tutto scomparsa o invisibilizzata della guerra in senso stretto. Il rosso pianeta Marte è tornato all’orizzonte, come periodicamente accade, ed esercita una forza di attrazione che modifica tutti gli elementi in gioco, riqualifica in termini elementari ogni agonismo e ogni gestione del dominio e dell’obbedienza. Il razzismo di stato foucaultiano e l’inimicizia assoluta schmittiana si rivolgono ora contro il pacifista e contro chiunque difenda lo stato sociale contro le sottrazioni al bilancio a favore delle spese belliche. L’Uno sovrano si ricostituisce secondo canali divergenti e impiega strumenti eterogenei e a volte confliggenti: i valori liberal-occidentali, riverniciatura del “mondo libero” della guerra fredda, l’idea astorica di Occidente, con tutti i suoi attributi suprematisti e coloniali e le presunte radici giudaico-cristiane (ma non ortodosse e neppure troppo cattoliche, al momento), il mai defunto sciovinismo delle grandi nazioni, il grottesco sovranismo degli stati minori – fra cui purtroppo sta scivolando l’Italia meloniana. Come far valere la resistenza e la rivolta in tale assetto di disciplinamento bellicoso dei corpi e delle menti, della neo-austerità economica e del regresso democratico è un capitolo tutto nuovo da scrivere, anche utilizzando gli strumenti foucaultiani. Il paradosso è che, quando la guerra guerreggiata torna sul proscenio e assorbe e riorienta i conflitti ordinari di cui si tessono diritto e potere azzerando entrambe le letture simmetriche del motto clausewitziano sul rapporto fra guerre e politica, si perde la dimensione compatta e distinta della guerra, si frantuma – rispetto alle due grandi conflagrazioni novecentesche – in una guerra mondiale a pezzi, che non ha un inizio definito e un fronte continuativo e neppure si chiude con un accordo o resa. Una guerra sui generis, con momenti di genocidio e fasi costituenti, con battute d’arresto e ristrutturazioni locali del mercato globale. Cosa prosegue cosa (la politica o la guerra)? e di quali “altri” mezzi si parla?

In copertina un fotogramma del dibattito tra Michel Foucault e Noam Chomsky tenutosi all’Università della tecnologia di Eindhoven nei Paesi Bassi il 22 ottobre 1971 e trasmesso in televisione il 28 novembre 1971