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Football hooliganism. Calcio e violenza operaia

L’opera del sociologo inglese John Clarke, “Football Hoolinganism”, per la prima volta pubblicata per i tipi di Derive Approdi, verrà discussa oggi, giovedì 28 febbraio, al Sally Brown alle 18.30 con il traduttore e curatore Luca Benevenga, Giuseppe Ranieri e Marco Petroni

Il 1985 fu indubbiamente un anno che il football d’Oltremanica visse molto pericolosamente. A Bradford, l’11 maggio, 56 tifosi persero la vita tra le fiamme che divamparono sulle gradinate dello stadio Valley Parade. Soltanto 18 giorni dopo, la tragedia dell’Heysel sconvolse in Eurovisione milioni di telespettatori: 39 vittime, prevalentemente italiane. C’è un terzo episodio, accaduto poco prima degli altri, il 13 marzo, che pur non avendo fatto registrare vittime, ma decine di feriti, verrà ricordato come il peggior episodio di hooliganismo in Inghilterra. In occasione del sesto turno della FA Cup tra Luton Town Fc e Millwall Fc, i tifosi della squadra ospite si riversarono in massa nella cittadina a nord di Londra dando vita ad una giornata di scontri, devastazioni e ripetute invasioni di campo. Il bilancio finale fu di 81 feriti; 31 erano agenti. Nei giorni successivi David Evans, presidente del Luton Town e parlamentare conservatore decise di vietare dall’inizio della stagione successiva la trasferta a Luton ai tifosi ospiti e di introdurre una tessera di membership del club (Tessera del tifoso) per essere ammessi ai match. Il governo di Margaret Thatcher, nel frattempo, istituì un “gabinetto” per combattere l’hooliganismo nel calcio. Erano solo le prime schermaglie di una vera e propria guerra che il governo e le istituzioni calcistiche inglesi portarono avanti a colpi di provvedimenti legislativi atti a porre fine a quello che, agli occhi dell’opinione pubblica e non solo, era diventato un problema politico e sociale.

In Gran Bretagna gli hooligans fecero la loro comparsa in coincidenza dell’epoca della “ribellione giovanile” e della nascita delle controculture degli anni Sessanta, ben prima di quel fatidico 1985, manifestandosi come una sorta di prolungamento del tradizionale schema comportamentale della “working class”. Da allora hanno costantemente cercato la rissa e creato scompiglio, non solo nel Regno Unito ma in tutta Europa al seguito dei loro club e della nazionale. Qualcuno li ha fortemente odiati, altri li hanno copiati. Hanno subito una repressione durissima attraverso provvedimenti che sono diventati un modello in molti altri paesi. Hanno cambiato look, hanno perso la loro specifica connotazione sociale, hanno modificato le modalità di azione e di scontro, eppure oggi gli hooligans sono vivi e vegeti.

Una sorta di “linea ufficiale” ha cercato di descrivere l’hooliganismo come qualcosa di insensato e che ha poco a che fare col vedere una partita di calcio in uno stadio. Una cantilena ripetuta allo sfinimento da politici, giornalisti e opinionisti di ogni sorta, per lunghi decenni. Nonostante il gran parlare, però, raramente il fenomeno è stato affrontato in maniera seria e rigorosa. Quasi sempre, invece, il teppismo calcistico è stato analizzato e dibattuto al di fuori del contesto in cui si è manifestato, producendo una serie di generalizzazioni e luoghi comuni che hanno dato vita alle più disparate interpretazioni moralistiche e sensazionalistiche, con l’intento di ingigantirne la portata e di realizzare la cosiddetta “profezia auto-avverantesi”, secondo la quale «se gli uomini definiscono certe situazioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze». (R.Merton)

 

 

Non è certo il caso dell’analisi di John Clarke, sociologo inglese, tra i primi ad occuparsi delle radici dell’hooliganismo. Il suo contributo: Footbal Hooliganism and the Skinhead (1973) e Football and working class fans: Tradition and Change  (1987) è oggi tradotto e pubblicato, per la prima volta in Italia dall’editore romano Derive Approdi, nel volume Football hooliganism. Calcio e violenza operaia. Il testo, tradotto e curato da Luca Benvenga, è accompagnato da una introduzione, dello stesso curatore, che ha il merito di dipanare la complicata matassa di teorie sociologiche sull’argomento fornendo una panoramica di quelli che sono i vari approcci degli studiosi in merito al problema, e da una prefazione di Andrea Ferrari che contribuisce ulteriormente a delineare lo sfondo della questione, proponendo una riflessione sulla cosiddetta “Generazione X”.

Nella ricerca di Clarke c’è un grosso spartiacque costituito dal processo di “borghesificazione” del calcio. È questo il concetto chiave che permette di cogliere la trasformazione subita dalla figura del supporter. Il punto di volta, che ha interessato il football nel periodo del dopoguerra, all’incirca negli anni ‘50, va inserito all’interno del più generale cambiamento che ha investito le strutture sociali inglesi e che coincide con gli anni del boom economico, della società dei consumi di massa e con quella che alcuni storici definiscono “l’età dell’oro”.

Prima di allora, attraverso il proprio modo di guardare il football e di sostenere la propria squadra, le classi lavoratrici avevano “colonizzato” e fatta propria questa forma di intrattenimento, nonostante il controllo formale non sia mai stato nelle loro mani.  Lo stadio e la partita, tuttavia, rappresentavano un evento sociale, un’esperienza fisica e collettiva. Gli operai-tifosi riaffermavano i valori di una classe e il senso di territorialità in una logica di “presa” simbolica di uno spazio. L’eccitazione, le urla, gli spintoni, il “casino”, i cori, i successi e gli insuccessi facevano del tifoso una figura non neutrale, ma al contrario assolutamente attiva nell’ambito dell’evento calcistico.

Con la “borghesificazione”, che va intesa come l’allineamento del settore calcistico ai crescenti livelli di consumo nel campo dell’intrattenimento, in coincidenza di un drastico calo di spettatori, il tifoso ha dovuto necessariamente trasformarsi in un consumatore e in un “fruitore disincantato e razionale” per poter permettere agli addetti ai lavori di confezionare un “prodotto” consumabile dalla classe media e dalle famiglie. Scrive Clarke: «Per il nuovo spettatore, il calcio è un divertimento offerto – qualcosa che sta al di fuori, piuttosto che un fatto interno alla relazione tra ciò che accade sul campo e la folla».  Se prima della guerra, dunque, il tifoso tradizionale ricopriva un ruolo assolutamente attivo, ora è ridotto a passività.

È su questa frattura che entra in scena l’hooliganismo. Una nuova generazione di tifosi, che ha conservato ed esteso le tradizioni del tifo collettivo di fronte alle trasformazioni imposte per attrarre nuovi consumatori, ha risposto continuando a mantenere attiva la partecipazione durante le partite e diventando essa stessa spettacolo. Come? Creando un parallelismo tra le Ends (le curve) e il campo, ricreando un “universo equivalente” nel quale oltre ai gol e ai punti conquistati dai calciatori in campo conta la supremazia sulla curva avversaria attraverso cori, slogan e insulti. La violenza, come sottolinea anche il sociologo Peter Marsh, «è una parte relativamente esigua dell’attività sugli spalti e per come si presenta è anche racchiusa da una serie di rituali e codici comuni tra gruppi di tifosi rivali».

 

 

Per completare il quadro e capire perché un consistente numero di teenager visse un rapporto così intenso con il football occorre però inserire l’ultimo tassello che l’autore tratta in un apposito paragrafo, ovvero l’avvento degli Skinheads. Apparsi nell’East End londinese sul finire degli anni ‘60, essi rappresentarono il tentativo di «ricostruire i tradizionali valori della working class» che in quegli anni le trasformazioni sociali ed economiche stavano letteralmente distruggendo. I cambiamenti urbanistici, con la conseguente scomparsa dei luoghi di socializzazione, portarono gli Skinheads ad aggregarsi nel più tradizionale luogo di ritrovo del sabato pomeriggio: il campo di calcio.

Football hooliganism di John Clarke è indubbiamente un libro prezioso nonostante sia stato scritto più di 40 anni fa.

All’interno dei fenomeni che hanno caratterizzato l’evoluzione del calcio e del tifo, dalle origini di fine ottocento ad oggi, l’autore riesce ad osservare il punto di rottura che ha necessariamente trasformato la figura del tifoso.

Se è vero che la gestione di questa forma di intrattenimento è (quasi) sempre stata in mani borghesi, è altrettanto innegabile che essa sia stata monopolizzata dalla classe operaia e che i cambiamenti del dopoguerra abbiano colpito al cuore il modo di essere dell’operaio/tifoso e il suo modo di stare dentro uno stadio mutandolo in uno spettatore/consumatore, sottraendogli la prerogativa più evidente: il protagonismo. La reazione o la resistenza a questi processi non vanno lette con la lente della inutile nostalgia di un indefinito passato idilliaco o messe a tacere con un anacronistico: il calcio è sempre stato strumento di potere e oppio dei popoli. C’è il rischio, così, di considerare il calcio di oggi alla stregua di quello di fine ottocento, cioè sempre uguale a se stesso, senza cogliere l’evoluzione del capitalismo, a cui è invece strettamente connesso. Del resto, come ampiamente dibattuto nel testo, l’apparizione nei sobborghi delle metropoli inglesi delle sottoculture giovanili, in particolare quella skinhead, non va scissa dai processi sociali su vasta scala che hanno di fatto portato al «declino e alla distruzione della comunità (operaia) d’origine», sotto i colpi della modernizzazione e della società dei consumi. Allargando il raggio di osservazione, su spazio e tempo, l’hooliganismo (insieme ai suoi derivati), è solo una delle reazioni, seppur la più radicale, ai processi di commercializzazione del football. In tempi relativamente recenti, altre forme di opposizione, come le associazioni dei tifosi, i supporters trust, l’azionariato popolare e il calcio popolare hanno costantemente agito, con enormi difficoltà e con differenti modalità, sostenendo l’idea di protagonismo e antagonismo del tifoso. Con buona pace, verrebbe da dire, di chi continua a ripeterci di occuparci di altro.