PRECARIETÀ

Foodora: la mobilitazione dei riders arriva in tribunale

Iniziata nell’autunno del 2016, la mobilitazione dei fattorini torinesi di Foodora ha già ottenuto importanti vittorie e innescato un ciclo di lotte nel settore. Dopo le dure reazioni e intimidazioni dell’azienda, ora la battaglia di alcuni ex-dipendenti arriverà in tribunale, il prossimo 11 aprile

Le mobilitazioni dei fattorini di Foodora, esplose a Torino nell’autunno del 2016, segnarono l’alba di un ciclo transazionale di lotte nel settore del food-delivery, capaci di denunciare le profonde contraddizioni dell’intero sistema della Gig Economy, sospeso tra tecnologie avanzate di organizzazione del lavoro attraverso le piattaforme digitali e condizioni neo-feudali dei lavoratori (paghe a cottimo, assenza delle garanzie minime, arroganza dell’azienda). Quelle lotte hanno saputo catturare l’attenzione mediatica e sviluppare un’indignazione diffusa rispetto allo sfruttamento esasperato a cui i riders sono sottoposti.

A parziali ma importanti vittorie ottenute (in particolare, la paga oraria ha progressivamente sostituito quella a cottimo, pur attestandosi su cifre troppo basse per essere considerate dignitose), seguì una dura reazione da parte dell’azienda, che non rinnovò il contratto ai lavoratori più esposti nelle mobilitazioni e diede avvio a un’attenta gestione del personale e della sua composizione sociale, tesa a neutralizzare un possibile riaccendersi delle iniziative rivolte contro di essa. Oggi quella lotta è arrivata in tribunale, grazie alla perseveranza di quei lavoratori che, seppur licenziati, hanno voluto portare sino in fondo la loro promessa: riscattare le condizioni di sfruttamento acuto a cui i fattorini devono sottostare e conquistare diritti, tutele e contratti regolari nell’ambito del food-delivery.

Già nell’aprile del 2016, durante la prima assemblea autoconvocata, più della metà dei lavoratori stesero una lista di rivendicazioni minime (l’equiparazione del compenso tra Torino e altre città, la convenzione con ciclofficine, l’aumento della paga nei giorni festivi e il rimborso per le spese telefoniche). L’azienda chiuse sin da subito l’apertura di ogni tavolo di trattativa, comminando sanzioni disciplinari (sospensione dai turni) ai lavoratori coinvolti, chiudendo la chat aziendale da cui i lavoratori potevano accedere ai contatti dei colleghi e, d’altra parte, insistendo su un aumento immediato delle assunzioni, con cui fu favorita la concorrenza interna tra i lavoratori e arginato il dissenso interno verso la dirigenza della piattaforma.

I “foodorini” torinesi risposero con un autunno di grandi mobilitazioni, dove si intrecciarono forme di sciopero tradizionali (rifiuto degli ordini e interruzione collettiva delle consegne) a forme invece innovative di sciopero metropolitano e sociale, che puntavano a colpire radicalmente l’immagine pubblica dell’azienda e ad accumulare forza attraverso la partecipazione diretta della cittadinanza solidale.

Guadagnato consenso e protagonismo nel dibattito pubblico, il collettivo dei riders in lotta decise di ricorrere alle vie legali per portare fino a fondo la propria battaglia e attaccare, anche dal punto di vista giuslavorista, le effettive modalità di svolgimento del rapporto di lavoro basate sull’algoritmo, che, trasfigurando un rapporto di subordinazione e di comando in “collaborazione autonoma”, aggira i codici del diritto del lavoro in materia di diritti e di tutele dei lavoratori e di garanzia della privacy.

La prestazione lavorativa dei fattorini del food-delivery riproduce tutte le caratteristiche tipiche del lavoro subordinato. Sono infatti tenuti a rispettare i tempi e i luoghi di lavoro decisi dall’azienda e comunicati attraverso la app; quando ricevono un ordine di consegna, devono dirigersi prima verso il ristorante a ritirarlo e poi verso l’indirizzo del consumatore, senza alcun limite all’estensione metropolitana in cui lo spostamento può essere richiesto. I turni, per i quali ciascun fattorino dà la propria disponibilità, sono accettati o rifiutati dell’azienda, che ne dà poi comunicazione ai lavoratori con la discrezione di aumentare o ridurre l’orario della fascia lavorativa a seconda delle proprie esigenze; anche i luoghi di partenza sono predefiniti dall’azienda. A ben vedere, ogni fase del processo lavorativo del rider – dal blocco di partenza, all’ordine ricevuto, alla consegna da svolgere e dunque la conseguente distanza da percorrere tra punto di partenza, ristorante e destinatario – è sottoposto al comando dell’azienda-piattaforma e non concede alcun margine di autonomia al lavoratore.

La paga indegna in questo settore lavorativo (che sia a cottimo o paga oraria fissa) è stata costantemente giustificata, in questi anni, con la retorica che quello del rider sia soltanto un “riempitivo”, un “lavoretto”, un modo per arrotondare. Lo ripetono in continuazione i direttori di Foodora, così come anche i loro avvocati difensori. Tutto al contrario, l’organizzazione dei turni impone una disponibilità costante da parte del lavoratore, costretto a contendersi l’assegnazione dei turni con i suoi colleghi, e trovandosi così in difficoltà a programmare e svolgere serenamente altre attività durante la settimana.

Non contenta di retribuzioni da fame, l’azienda non si fa carico di alcuna tutela circa le condizioni di salute e di sicurezza del rider, giustificandosi attraverso lo statuto autonomo del suo lavoro, che scarica sul lavoratore ogni responsabilità assicurativa e anti-infortunistica. Eppure, i riders sono esposti, nel loro tempo di lavoro, a uno sforzo fisico sfibrante, ai pericoli continui del traffico stradale e a condizioni climatiche e atmosferiche spesso avverse durante l’anno. Le piattaforme, come detto, non garantiscono alcun controllo della salute dei fattorini, alcuna verifica della loro conoscenza del codice stradale, alcuna formazione specifica per la sicurezza sulla strada. Manco a dirlo, non è svolto nessun controllo sull’affidabilità delle bicilette utilizzate, che sono di proprietà del lavoratore e di cui l’azienda si disinteressa completamente. Quando, come purtroppo talvolta accade, il fattorino subisce un incidente, un infortunio, uno stress fisico eccessivo o un danno alla bicicletta, la piattaforma è estranea a tutto ciò, si limiterà a sostituire quel rider con un altro per i successivi turni.

In terzo luogo, la violazione della privacy personale risulta un ulteriore elemento profondamente iniquo nel rapporto di lavoro che lega la piattaforma ai suoi “collaboratori”. L’applicazione attraverso cui è organizzata Foodora richiede l’accesso, infatti, ad alcune informazioni personali depositate nella memoria del cellulare, dalla casella mail sino alla propria posizione. La geolocalizzazione è continuativa durante tutta la durata dell’attività ed è attentamente tracciata dalla piattaforma per valutare la affidabilità e la velocità del lavoratore, costituendo nei fatti uno strumento tanto di sorveglianza, quanto di valutazione e di classificazione dell’efficienza dei lavoratori. La consapevolezza di essere sotto costante osservazione cronometrica spinge il lavoratore a comportamenti spesso pericolosi sulla strada, che ne minacciano la sicurezza, al fine di migliorare i propri parametri d’efficienza ed essere riconfermati nei turni successivi. Se i tratti d’autonomia del lavoratore del food-delivery sono circoscritti alla libertà di segnarsi in questo o quel turno, i meccanismi di controllo e competizione interna per l’assegnazione dei turni sono in realtà così pervasivi da rovesciare quell’autonomia in dispositivo di costrizione continua sulla forza-lavoro.

La portata dell’intero ciclo di lotte all’interno del food-delivery, ivi compreso il suo prossimo e decisivo passaggio in tribunale, è, senza eccessi, storica. Si tratta del primo processo, in Italia, alle piattaforme della Gig Economy, che, concedendo iniziali tratti d’autonomia ai suoi lavoratori e mascherando il loro comando tipicamente padronale dietro il funzionamento di un algoritmo, riconfigurano segmenti tipicamente subordinati del lavoro in finte collaborazioni autonome prive di garanzie salariali, tutele, coperture e, ca va sans dire, rappresentanza sindacale. A essere accusata in questo processo non è soltanto Foodora, né soltanto le altre piattaforme del food-delivery che, dopo la ribalta mediatica delle lotte all’interno di Foodora, si sono proposte sul mercato in alternativa a essa, proponendo condizioni di retribuzione e di lavoro leggermente migliori, per poi cancellare pian piano quelle concessioni minime e ripristinare condizioni feudali di lavoro (tra gli altri, è il caso di Deliveroo, che, concessa in un primo momento la paga oraria in alternativa al cottimo di Foodora, ha ora avviato una conversione al cottimo di tutti i contratti dei suoi riders).

Le lotte all’interno di Foodora e delle altre piattaforme hanno avuto, negli ultimi due anni, la grande di forza di attaccare una tendenza generale e crescente delle nuove forme di sfruttamento del lavoro, vale a dire, la trasformazione del lavoro salariato tradizionale in lavoro autonomo on demand, retribuito soltanto per le prestazioni effettivamente elargite (sia una consegna o un qualsiasi altro servizio) e privato dei diritti e delle tutele conquistate storicamente sul terreno del lavoro subordinazione. Le rivendicazioni che, oggi, 6 ex-dipendenti di Foodora portano in un’aula di tribunale sono le rivendicazioni di un’intera generazione che intravede, di fronte a sé, un futuro di “autonomia coatta”, sottopagata, sfruttata, fasulla. La sentenza di questo processo riguarderà tutti i settori della Gig Economy e le condizioni di lavoro, presenti e future, di tutte e tutti noi.

Mobilitiamoci tutti insieme in occasione di questo processo dalla portata così generale. L’appuntamento è, dunque, per mercoledì 11 aprile di fronte al Tribunale di Torino, alle ore 9, per assistere collettivamente all’udienza in aula e affermare concretamente che in gioco in questa causa, sono i diritti sul posto di lavoro di tutti.