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“Per me fare film è sempre un fatto politico”

In occasione dell’uscita in Italia de “La vita invisibile di Eurídice Gusmão” abbiamo intervistato il regista brasiliano del film Karim Aïnouz: “Penso che fare un film “storico” abbia senso a patto che non diventi un’operazione nostalgica bensì orientata al presente. In questo caso, ritengo che molte delle battaglie combattute da queste donne in quegli anni, molti di quei sogni che sono stati realizzati o abbandonati, siano molto attuali”

Karim, il film è tratto dal romanzo omonimo, scritto da Marta Batalha (in Italia edito da Feltrinelli con il titolo Eurídice Gusmão che sognava la rivoluzione, ndr), ma l’impressione è che sia un’opera molto intima e personale.

Sì, si discosta leggermente dal romanzo, ma il DNA è quello. È il settimo film della mia carriera e credo che sia speciale perché ha forti elementi alla mia esperienza personale. È il motivo per cui ho amato così tanto il libro: ci sono molte cose in quel testo che io ho vissuto in prima persona.

Il motivo principale per cui ho deciso di portare sullo schermo questo libro è che cinque anni fa ho perso mia madre, una donna molto forte che ha avuto una vita estremamente dura. Oggi avrebbe 90 anni. Quando è morta ho pensato che quella generazione di donne ha vissuto dei tempi molto difficili, ha dovuto combattere contro convenzioni molto rigide per cercare di realizzare almeno una parte dei propri sogni, così quando ho letto il libro me ne sono innamorato perché era un ritratto molto intenso di quella generazione. Il cinema è strano, a volte alcuni film hanno qualcosa di magico. Quando ho finito questo film, mi sono accorto che senza volerlo ho messo nelle figure figure femminili della storia molti aspetti delle donne che hanno segnato la mia vita e credo che questo sia l’incantesimo di quest’opera. Riguarda la mia vita insomma, ma non è “sulla mia vita”: forse perché trattandosi di una bellissima storia, ha qualcosa di universale in cui tutti noi possiamo riconoscerci.

 

Il film è ambientato nel passato, negli anni ’50. In che modo questo film si relaziona al presente e parla del Brasile di oggi?

Penso che fare un film “storico” abbia senso a patto che non diventi un’operazione nostalgica bensì orientata al presente. In questo caso, ritengo che molte delle battaglie combattute da queste donne in quegli anni, molti di quei sogni che sono stati realizzati o abbandonati, siano molto attuali. Certo, ovviamente alcune cose sono cambiate, per certi versi il mondo ha fatto passi in avanti rispetto a quegli anni, ma molte di quelle lotte continuano. Questo aspetto tematico si è rafforzato durante le riprese, anche perché proprio in quel periodo la situazione politica in Brasile si è deteriorata, mentre le statistiche continuano a raccontare un paese in cui ogni 10 minuti c’è uno stupro; è ancora un paese libero, per certi versi, ma è anche un paese molto violento, in particolare per le donne. Per me era importante guardare da vicino gli aspetti che non sono cambiati poi così tanto nel corso dei decenni. Sono quelli su cui mi sono concentrato. Non so come sia per voi europei, ma per me fare film è sempre un fatto politico. Non esiste scelta. Qualsiasi film è un gesto politico. Con questo film ho voluto guardare al passato ma senza ingenuità, per parlare del presente.

 

 

Parlando del presente, Karim, non posso fare a meno di chiederti qualcosa dell’attuale presidente del tuo paese, che è un personaggio quantomeno controverso e che spesso ha fatto affermazioni sulle donne decisamente censurabili e imbarazzanti.

Hai fatto bene a non nominarlo nemmeno, non diciamo il suo nome, non lo merita. È una tragedia.

 

Però è stato eletto.

Il punto è questo, capisci? La vera tragedia è che molta gente crede davvero in lui; sono convinto che la grande sfida politica di questi tempi sia cercare di parlare con queste persone, con chi l’ha votato, milioni di persone che l’hanno scelto – perché, hai ragione, non è stato un golpe militare. Bisogna che ci domandiamo: come è stato possibile? Alcune scelte che ho fatto girando il mio film partono da questa considerazione: la politica e gli intellettuali hanno perso il contatto con la base, con quella parte di popolazione che ha affrontato problemi reali e poi ha votato personaggi come lui. Vedi, il dramma non è Trump. Il dramma è che abbiamo permesso che una parte così grande di persone possa credere in lui, e non possiamo liquidare la cosa dicendo che sono pazzi: qualcosa li ha spinti a farlo, forse perché sono stati ignorati per troppo tempo. Con questo film ho voluto fare un melodramma popolare che potesse intercettare anche queste persone, che avesse lo stesso DNA delle soap opera tanto diffuse nel mio paese, strutturato con quello stesso linguaggio, ma con un messaggio più profondo e universale. Penso che questa sia la strada.

 

Si tratta quindi di ritrovare un linguaggio meno aristocratico.

Esatto, e alcune forme d’arte possono farlo in modo più efficace, come la musica, come il cinema; dobbiamo trovare una via d’accesso a coloro che credono sinceramente che la soluzione ai loro problemi siano personaggi come questi. Quest’aspetto mi ha guidato durante la realizzazione del film, nella mia riflessione sulle donne, perché penso che la questione femminile sia politicamente centrale, oggi, e vada al di là del femminismo. Secondo me questi movimenti autoritari che stanno nascendo un po’ ovunque in Occidente.

 

Anche in Italia…

Sì, anche in Italia questi movimenti sono ancorati a un modello sociale patriarcale, a cui si aggrappano disperatamente per rimanere al potere; perciò affrontare la questione femminile significa andare alla radice del problema. Il mio film parla di questo, e penso che un film storico sia una buona soluzione perché permette di affrontare il problema da un’angolazione non troppo frontale ma più metaforica.

 

 

Prima hai usato la parola melodramma; a me è parsa evidente la volontà da parte tua di omaggiare alcuni grandi cineasti del passato, in particolare Douglas Sirk, non solo sul piano formale, ma anche per come hai utilizzato il genere per imbastire un discorso politico.

Certamente sì. Vedi, il melodramma funziona soprattutto se vuoi affrontare, anche in forma metaforica, le tensioni dei grandi cambiamenti sociali. Ad esempio, Douglas Sirk con i suoi film parla dei mutamenti della famiglia tradizionale, Fassbinder parla delle contraddizioni della Germania post bellica: è un genere molto politico e sottovalutato sotto questo aspetto. Poi, io amo Sirk. Sul piano formale, ti posso dire che la magia del suo cinema la comprendi se leggi le sue sceneggiature. Ti è mai capitato?

 

No, francamente no.

Bene, se ne leggi una a caso, ti accorgerai che sono quasi insulse, non funzionano; una volta ne ho usata una per un casting e le battute sembravano ridicole. Il suo cinema è tutto nella messinscena e questo mi affascina moltissimo. I suoi film molto spesso venivano trasmessi di pomeriggio alla televisione brasiliana, quando ero ragazzo, a volte guardavo i suoi film mentre facevo i compiti, e mi catturavano. Di questi film, ammiro soprattutto il coraggio, in particolare in un film, Lo specchio della vita, che era un remake di un film degli anni ’30. Sirk è l’ispirazione maggiore, ma anche Almodovar, in particolare i suoi primi film, che sono così punk, come Pepi, Luci, Bom. La cosa più interessante in lui è che ha preso il melodramma alla Sirk e l’ha reso “madrilegno”, molto spagnolo. Un’altra grande ispirazione per me è João Pedro Rodrigues, e ovviamente, come dicevo prima, anche Fassbinder.