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Il fiato corto delle politiche monetarie di fronte alla recessione globale: intervista a Christian Marazzi

L’ombra della recessione torna a minacciare l’economia globale: spuntate le armi con cui si è affrontata la crisi poco più di dieci anni fa, il dibattito attorno a nuove misure economiche può forse aprire inediti terreni di rivendicazione per le lotte sociali

Dopo poco più di dieci anni dalla crisi globale ritorna l’ombra della recessione. Se di nuova crisi, forse, si potrà parlare, non potrà che avere, ovviamente, altre caratteristiche. Sul piano dei mercati finanziari diversi indicatori sembrano annunciarla. Alcuni osservatori sembrano preoccuparsi dell’inversione della curva dei rendimenti tra titoli a breve e a medio lungo-periodo: un dato che segnala le aspettative negative degli operatori finanziari sul futuro dell’economia. Cosa ne pensi e cosa sta accadendo nei mercati finanziari?

La questione della recessione, della sua previsione, pone alcuni interrogativi che vanno al nocciolo di quanto sta accadendo. Teniamo conto che di forte rischio di recessione si parla già dalla fine dell’anno scorso. Si è concluso il 2018 con questo interrogativo: come andrà il futuro dell’economia? Soprattutto perché, a seguito dell’aumento dei tassi della FED, c’erano stati disordini nei mercati finanziari.

Anche per quanto riguarda la questione dell’inversione della curva dei rendimenti – che certamente, dal punto di vista storico, è un segnale premonitore dell’inizio di una recessione – non è in assoluto una novità, perché già mesi fa si andava in quella direzione. Il problema, casomai, è che adesso l’inversione delle curve dei rendimenti riguarda gli USA, mentre prima riguardava i paesi europei.

Più in generale, anche la possibilità stessa di fare previsioni lascia un po’ perplessi. Bisogna tener conto che l’economia americana da 122 mesi è in fase espansiva e credo che sia di nuovo corretto parlare di una sorta di “grande moderazione” – come quella che si era imposta prima del 2008.

Cosa vuol dire tutto questo? Che le fasi espansive sono più lunghe e che minore è la frequenza delle recessioni. Però, quando queste avvengono, sono  molto violente. Dunque, se ci sarà una recessione  nei prossimi mesi, sarà devastante.

 

Ci sembra che tu dica che quello che stiamo sperimentando è una modifica dei cicli brevi dell’economia. L’alternanza tra fasi espansive e fasi di contrazione è strutturalmente cambiata. Per quali ragioni a tuo avviso?

Sul perché le fasi espansive sono così lunghe rispetto alle recessioni, dopo la crisi del 2008, le spiegazioni sono diverse. In primo luogo, c’è una gestione delle scorte più efficiente rispetto al passato, poiché siamo in un regime basato sul just in time, con minori rischi di sovra-accumulo. Non dobbiamo dimenticare, neppure, che c’è stato un grande aumento del settore dei servizi in questi anni. Ad esempio, leggevo giorni fa del calo significativo della produzione del settore manifatturiero americano: nel passato, questo sarebbe stato la premonizione di un rallentamento, se non un’inversione della crescita dell’economia reale. Oggi, però, il manifatturiero in America conta per l’8% sul totale dell’economia. Basta che si fermi questo comparto per produrre un impatto generalizzato sulla crescita? Non ne sono così convinto. Altro discorso è per la Germania, dove se il settore automobilistico sta perdendo colpi, a causa di questa guerra commerciale dei dazi e della Brexit, le conseguenze possono essere molto più significative, rispetto a quanto avviene nell’economia statunitense.

A questi elementi dobbiamo aggiungere che in questi ultimi anni è consistentemente cambiata la politica monetaria: la reattività (in termini di politica dei tassi) delle banche centrali è abbastanza stupefacente. In pochissimo tempo, si è passati dal prevedere o addirittura tentare di aumentare i tassi di interesse, ad una riduzione degli stessi, tornando nuovamente su un territorio di Quantitative Easing. Questo ovviamente attenua molto – è una sorta di fine tuning dei banchieri centrali –   l’inizio della recessione.

Tutto questo, just in time, peso dell’economia dei servizi e politiche monetarie, tendono a posticipare il rischio di recessione. Aggiungete, poi, che Trump non può permettersi, in questa congiuntura, di arrivare alle elezioni con una recessione in corso, dunque faranno di tutto per evitarlo.

 

Queste politiche monetarie “non convenzionali”, fortemente espansive, ad un tempo sembrano agire da stabilizzatore dell’economia, dall’altro, facendoci aiutare da Minsky, sembrerebbe essere ancora una volta in una fase segnata da una “stabilità de-stabilizzante”, con nuove contraddizioni pronte ad esplodere…

Abbiamo avuto politiche monetarie fortemente espansive, che hanno contribuito ad abbassare i rendimenti sui titoli pubblici. Abbiamo avuto tassi di inflazione praticamente sotto l’1% su scala mondiale, tranne che per alcuni paesi emergenti. Abbiamo avuto una volatilità di tipo politico, che si è riflessa sulle scelte degli investitori, che ha incentivato gli investimenti nei buoni del tesoro e, quindi, ha contribuito ulteriormente ad abbassare i rendimenti. Tutte queste cose, insieme, creano una situazione del tutto nuova. Siamo in un regime di tassi negativi: sono 13 mila miliardi, se non erro, i debiti sovrani mondiali con rendimenti negativi. Una cifra spaventosa, che ovviamente non fa altro che spingere per mantenere questo regime di politica monetaria espansiva.

Ad esempio, mi sembra, che da parte degli operatori finanziari ci sia una ricerca di investimenti in attivi nei paesi emergenti, che offrono rendimenti maggiori proprio perché i rischi sono più alti. Uno dei grandi problemi per i grandi gestori di fondi pensioni in questa fase è, ad esempio, riuscire a capire quali scelte compiere all’interno di questo regime segnato da rendimenti negativi. Sono chiamati a fare investimenti di lungo periodo per poter gestire l’erogazione di rendite (pensioni integrative ndr); ma in un regime con queste caratteristiche non è facile effettuare le loro scelte di portafoglio.

Questi sono nodi che vanno accumulandosi; problemi che vengono tenuti sotto al tappeto grazie alle politiche monetarie espansive.

 

 

Secondo alcune interpretazioni, le politiche monetarie espansive, sarebbero all’origine di una “bolla sui titoli di stato”, che a sua volta avrebbe favorito una sorta di traslazione dalla nozione di “trappola della liquidità” ad una “trappola del banchiere centrale”, intesa come l’impossibilità da parte delle banche centrali di uscire da programmi monetari espansivi. Cosa ne pensi?

Quella della “bolla sui titoli di stato” è, effettivamente, uno dei rischi più grossi, che potrebbe rappresentare per alcuni versi la novità rispetto alla precedente bolla dei sub prime del 2008.

Fin qui, abbiamo parlato di rendimenti negativi dei titoli pubblici, ossia di una situazione in cui a fronte di tassi di interesse reali negativi, i prezzi nominali dei titoli sono ovviamente aumentati. Se, in conseguenza di un accumulo di contraddizioni, questa “bolla” dovesse scoppiare, si genererebbe una perdita nei bilanci di molte imprese e, soprattutto, delle banche, che hanno in pancia una elevatissima quantità di buoni del tesoro.

Nella storia novecentesca del capitalismo abbiamo avuto tre forme prevalenti di indebitamento: il debito internazionale nei rapporti nord-sud, il debito pubblico della fase del keynesismo, come leva di crescita nel II dopoguerra, e poi, a partire dagli Ottanta, abbiamo conosciuto quella specie di “keynesismo finanziario”, ovvero di privatizzazione dei debiti, che ci ha condotto fino alla crisi del 2008.

Cosa potrebbe darsi oggi? Proprio una sorta di “privatizzazione del debito pubblico”, con le conseguenze di rischi di bolla, che paradossalmente, però, chiamerebbe ancora in causa presumibilmente altre politiche monetarie espansive, con il rischio di “trappola” a cui si faceva riferimento. È anche per queste ragioni che c’è forte allarmismo.

 

Un forte allarmismo che evidentemente investe l’imminente passaggio di consegne, interno alla BCE, tra Mario Draghi e Christine Lagarde…

Il passaggio tra Draghi e la Lagarde è molto più di un passaggio tra persona a persona. Non ho dubbi sul fatto che la Lagarde continuerà le politiche espansive di Draghi. Il punto non è quello. D’altro canto, la Lagarde l’ha detto chiaramente, anche ultimamente rivolgendosi al parlamento europeo (4 settembre 2019 ndr): stati membri, attivatevi sul piano delle politiche fiscali.

In realtà, l’impressione è che si abbia a che fare con la crisi del “doppio binario”, cioè con la caratteristica risposta che abbiamo visto a seguito della crisi del 2008: da una parte, le politiche di austerità, dall’altra, le politiche monetarie espansive. Dove, però, queste ultime non hanno affatto risolto i problemi aperti dalle politiche austeritarie.

Mentre le politiche fiscali restrittive miravano a ridurre il debito pubblico, si è avuto, nella realtà, una situazione di “stagnazione secolare”, come ha affermato Lawrence Henry Summers già a partire dal 2013. Le politiche monetarie espansive, invece, non hanno generato quel potere di acquisto che è necessario per uscire da una situazione di “stagnazione secolare”. Semmai, hanno accresciuto il debito, sia pubblico che privato, fino al punto che siamo con dei rendimenti negativi o vicini allo zero.

La politica monetaria espansiva ha comunque dato i suoi frutti, evitando il collasso dell’euro. Su questo non ci piove. Draghi sarà ricordato come quello che ha slavato l’euro, ma, d’altra parte, la situazione resta quella della “stagnazione secolare”. Sia perché i salari non sono aumentati, sia perché le politiche austeritarie hanno ridotto la spesa pubblica senza ridurre il debito.

La Lagarde punta a sollecitare gli stati membri a fare uno sforzo, in primis la Germania. La Germania è il paese che meno ha investito negli ultimi anni nel settore pubblico o nelle infrastrutture. Inoltre, non mi sembra che una timida ripresa dei salari in certi settori, come nel manifatturiero tedesco, sia sufficiente a compensare l’inattività sotto il profilo degli investimenti pubblici. Se non reinventi un welfare state, che crea domanda, non esci dai limiti delle politiche monetarie espansive.

 

 

Alcuni economisti hanno evidenziato quanto le politiche monetarie espansive abbiamo finito per accrescere le diseguaglianze, favorendo una redistribuzione verso l’alto. Come possiamo affrontare questo aspetto?

Intanto, non vedo un problema di diseguaglianze solo in senso aggregato. Uno degli effetti che è importante segnalare, è che le politiche monetarie espansive hanno creato una frattura generazionale, oltre che di classe.

In questi anni quelli che avevano un po’ di risparmio – i baby boomers ad esempio – ci hanno guadagnato, mentre a perderci sono state le coorti più giovani, fino ai millennials. Hanno perso coloro che hanno subito gli effetti del QE, in termini di aumento degli affitti, oltre che attraverso l’instabilità reddituale, salariale, ecc.

Tutto ciò introduce una contraddizione generazionale di cui bisogna tener conto. Anche perché ci aiuterebbe a capire alcuni fenomeni di tipo politico che passano sotto il nome di populismo. Qui c’è qualcosa di profondo che è successo in questi anni e che, però, si tende a sottovalutare.

 

Da una parte, gli effetti distributivi a cui facevamo riferimento, dall’altra, il problema che questa enorme liquidità creata dalle banche centrali “non percola” nell’economia reale. Sembra un problema che adesso, a modo loro, iniziano a porsi anche gli economisti del New consensus

C’è un dato che in particolare mi stupisce, avendo sostenuto in passato questa misura: c’è come un ritorno di proposte, da parte di ex banchieri centrali, intorno all’idea dell’helicopter money, o se preferite, del QE for the people. Questa versione, se volete un po’ populista, del neoliberismo di Friedman. L’idea di base è quella di una distribuzione della liquidità direttamente ai cittadini europei. Penso, che questa idea presto ritornerà a circolare con forza e alcuni segnali sono già evidenti.

È un’idea che andrebbe forzata, portata oltre i propri limiti, oltre i confini in cui è stata pensata. Perché è qualcosa che ci riconduce all’idea di un reddito di base europeo, inteso come una variabile monetaria aggiuntiva, quale motore della crescita per l’uscita dalla “stagnazione secolare”. Non quella forma di “reddito di sudditanza” che è stato introdotto in Italia. Perché l’obiettivo di una tale misura non può, non deve essere raggruppare le prestazioni sociali esistenti, nei termini di una imposta negativa.

Si tratta, semmai, di pensare ad una misura di reddito primario aggiuntivo, ma dall’interno delle politiche di QE. Inoltre significa, evidentemente, parlare del capitalismo odierno, dove l’area della gratuità è cresciuta enormemente. Pensate ai big data o in generale al capitalismo delle piattaforme. L’area della gratuità si sta espandendo in modo vertiginoso. Anche questa questione dell’imposizione fiscale sulle imprese della Silicon Valley, ad esempio, va piegata sul terreno di un plus valore di vita, o di una plus vita sempre in attesa di riconoscimento. Qui, ci stanno sottraendo pezzi di vita che si mettono a lavoro nella produzione di dati. Tenere sullo sfondo la questione dell’uscita dalla gratuità diventa sempre più importante. Nella gratuità c’è una pluralità di soggetti: si va dal plusvalore assoluto, per i salariati con l’aumento della richiesta di lavoro oltre i limiti contrattuali, si passa per il crowd work, si arriva, di sicuro, alle donne che hanno una lunga esperienza di lavoro di cura gratuito. Questo ci consentirebbe di parlare nuovamente di reddito di cittadinanza in termini non astratti, senza cioè fare astrazione dai soggetti che questo reddito dovrebbero riceverlo.

 

Torniamo un attimo al discorso che facevi sul futuro delle politiche fiscali dei paesi europei. Da un lato, le dichiarazioni di Christine Lagarde, a cui facevamo riferimento. Dall’altro, il programma della presidentessa della Commissione Europea, Ursula von der Leyen. Si tratta certamente di un dibattito interno al neoliberismo, ma ricorre un’insistenza sul ruolo degli investimenti pubblici, su un fantomatico new green deal, ecc… Come se fossimo in una sorta di “Interregno”, ancora al di qua, della creazione di un “nuovo motore della crescita” fondato sugli investimenti. Cosa ne pensi?

Insieme al QE for the people, il tema degli investimenti in questa fase è centrale. Credo, però, si debba riprendere il discorso su che tipo di investimenti. Sugli investimenti pubblici c’è una sorta di automatismo, un riflesso condizionato, che spinge verso le grandi opere. Davvero vogliamo investimenti di questo tipo?

Sono convinto che bisogna pensare, tenendo presente anche come è venuta configurandosi l’economia dei paesi a capitalismo avanzato, ad investimenti che insistono sui settori antropogenetici: il settore della cura, la cultura, la ricerca, l’educazione, la socialità, l’ambiente. Sono questi settori che dovrebbero essere destinatari di investimenti pubblici. Non certo le infrastrutture di fordiana memoria. Bisogna ritornare a dare parola al cognitariato e a tutti coloro che sono implicati in questi settori. Ci vuole, ovviamente, iniziativa politica, facendo riemergere i loro bisogni. Dar loro voce, in modo che sia una forma di richiamo e di pressione per i governi.

 

Ci sembra che quello che proponi, e su cui siamo d’accordo, è la progettazione di una iniziativa di mobilitazione che insista su questi “punti di rottura” interni al dibattito neoliberale….

Credo che dobbiamo ripensare a delle mobilitazioni alla luce di questa svolta. Qui siamo effettivamente ad una svolta, però le svolte non avvengono motu proprio. Ci sono sempre effetti di retroazione, di resistenza, per cui ci vogliono lotte e mobilitazioni che procurano uno schiarimento, che svelano un’intelligenza sugli investimenti che si vogliono fare. Rivendicare maggiore “cooperazione sociale” per uscire da questi anni di “stagnazione secolare”, che poi produce, come stiamo vedendo, un rischio di “populismo secolare”. Alla fine, gli effetti di queste politiche fiscali austeritarie sono di tipo reazionario: il rancore, l’odio per tutto ciò che viene additato come responsabile di questa situazione di impoverimento sociale.

Prima parlavamo del vertiginoso aumento delle diseguaglianze. Ridurle è sicuramente fondamentale, però non sarà così semplice. Proprio in questi giorni, curiosamente, il Financial Times sta calcolando i costi economici del programma del Labour Party. La domanda sottesa è: meglio la Brexit o i costi del programma del labour? Effettivamente, se ci pensate, uno dei primi punti del partito corbyniano è quello di spostare le shares dagli azionisti ai dipendenti delle grandi imprese, con un costo che raggiungerebbe livelli molto elevati. Noi siamo arrivati ad una tale drammaticità delle diseguaglianze, che qualsiasi politica volta a ridurle avrebbe dei costi altissimi. Non illudiamoci, quindi, che questo sarà attuato da un governo come quello appena insediato in Italia, o da un eventuale governo laburista inglese. Non pensiamo, cioè, che questo avvenga per così dire naturalmente. Tutti dicono che è logico redistribuire in questa fase, anche la destra lo sostiene, non c’è mica il primato della sinistra su questi temi. Non illudiamoci, però, che ciò possa avvenire se non con una grossa mobilitazione, con forme articolate di pressione sul terreno degli investimenti, del QE for the people, contro la gratuità, lottando per la libertà di movimento dei migranti. Ed è necessario che avvenga ad un livello che sia significativo, cioè quello europeo, perché ti voglio vedere a ridurre le diseguaglianze su un piano esclusivamente nazionale. In sostanza, serve un rilancio del quadro europeo delle lotte dentro questa ridefinizione di strategie monetarie, di tipo espansivo, collegate al rilancio degli investimenti.