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“Sunset” di László Nemes

Atteso come uno dei registi più interessanti in concorso, László Nemes divide nettamente il pubblico con la sua opera seconda dal titolo “Sunset”. Un’esperienza cinematografica difficile che si attraversa come un sogno-lucido tra il lusso e le inquietudini di fine Impero, una sorta di premonizione di ciò che condurrà alla guerra, alla tirannia, alla catastrofe.

Ha diviso tutti in maniera netta, Sunset, uno dei film più attesi del concorso, forse il più atteso in assoluto, perché il regista László Nemes, con il suo primo film, Il figlio di Saul, era piombato direttamente nella selezione principale del festival di Cannes, si era aggiudicato il Gran Premio della giuria e, mesi dopo, si era portato a casa Golden Globe e l’Oscar come miglior film straniero. Di Saul colpiva, in particolare, lo stile e il modo in cui esso riusciva a potenziare la forza dell’orrore buttandolo sistematicamente fuori campo: l’inferno di Auschwitz-Birkenau esplorato con semisoggettive dove il protagonista Géza Röhrig era sempre di nuca o più raramente in primo piano, quasi a saturare il fotogramma, lunghi piani sequenza, battute sussurrate da fuori, la sensazione vivida di trovarsi dentro un incubo.

Correndo il rischio che solo al secondo film il suo modo di fare cinema possa diventare già maniera, Nemes ripropone lo stesso impianto estetico, con l’unica differenza dell’ampiezza del fotogramma, qui riproposto in 16:9. A essere seguita per i 146 minuti di durata dell’opera è Irisz Leiter (interpretata da una perfetta, inespressiva Juli Jakab), una giovane donna che nel 1913 giunge a Budapest da Trieste determinata a lavorare nella famosa Cappelleria Leiter, fondata dai suoi genitori, morti in un incendio quando lei aveva due anni. Ora il negozio è diretto da Oszkár Brill (Vlad Ivanov), uomo d’affari senza scrupoli dietro la cui gestione, apertamente orientata al compiacimento dell’aristocrazia viennese, si celano dei segreti inquietanti. A Budapest, inoltre, la donna apprende dell’esistenza di un misterioso fratello, che si sarebbe macchiato dell’omicidio di un conte anni prima e che sarebbe ora alla guida di una sorta di gruppo rivoluzionario.

 

 

Sunset è un’esperienza cinematografica difficile da raccontare: si attraversa come un incubo, un sogno-lucido in cui si resta con lo sguardo incollato a un personaggio, Irisz, che sembra persistere in una condizione catatonica sospesa tra il sonno e la veglia. Il film è ambientato un passo prima della caduta dell’Impero, un anno prima dello scoppio del conflitto mondiale che porterà al crollo rovinoso del cosmopolita impero austro-ungarico ed è efficacissimo nel trasmettere (più che raccontare) il clima di mistero, inquietudine e attesa che si coglie nell’aria e anticipa la rovina. Difficile distinguere tra ciò che è reale o immaginario nel percorso nervoso e imprevedibile della donna, che oscilla tra l’attrazione per i bassifondi, la ricerca del fratello, e il richiamo delle sue radici familiari, nell’opulenza della cappelleria che porta il suo nome. Intorno a lei, personaggi che sembrano morti-viventi, o più precisamente dei sonnambuli incapaci di vedere davvero ciò che sta accadendo attorno a loro.  Dietro alla figura di Oszkár Brill, dietro all’eleganza e al lusso, si intuisce qualcosa di oscuro, una sorta di premonizione di ciò che condurrà alla guerra, alla tirannia, alla catastrofe.

Tra rimandi a Conrad (L’agente segreto), a Eliot (La terra desolata) e al Doppio sogno di Schnitzler, Nemes compone una forma narrativa destrutturata, priva di variazioni di ritmo, che procede verso un finale tanto enigmatico quanto potente, che esplicita il filo drammatico che conduce al dramma del primo conflitto mondiale e suggerisce una chiave di lettura (fratello e sorella sono in realtà la stessa persona?) che conferisce ancora più fascino a quest’opera straordinaria.