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Per farla finita con le vertebre. Antispecismo viscido e forme di convivenza interspecie tra le rovine del pianeta
“Divenire invertebrato. Dalla Grande Scimmia all’antispecismo viscido” (Ombre Corte, 2020) è l’antologia di saggi a cura di Massimo Filippi e Enrico Monacelli che cartografa un mondo in crisi. Il libro ci regala un percorso possibile fuori-dentro-fuori la filosofia per uscire definitivamente da ogni residuo antropocentrista e iniziare a pensare e vivere diversamente i rapporti tra specie, corpi e materie
Un corpo senza vertebre è una struttura senza sostegno, un ambiente viscido composto da soglie e aperture. È, soprattutto, una tecnologia di movimenti possibili, negati a chi è sorretto da un’architettura interna cablata sulle solide regole della geometria. Essere invertebrato significa muoversi strisciando, vedere le cose e l’ambiente circostante con la superficie della pelle o comunicare un messaggio articolato tramite un tocco. Significa fare esperienza del mondo e relazionarsi all’interno di esso in una maniera ecologica e priva di gerarchie, tramite un corpo scivoloso ed espandibile che non inizia e non finisce nei suoi limiti fisici, ma piuttosto li fa sede prediletta di conoscenza e relazione.
Divenire invertebrato. Dalla Grande Scimmia all’antispecismo viscido è un testo che sosta all’interno di questi confini, posizionandosi nel panorama delle teorie antispeciste con una prospettiva post-antropocentrista oggi più che mai necessaria. Mentre, come spiegano Filippi e Monacelli nell’introduzione, la produzione teorica maggioritaria conserva ancora le soggettività non-umane all’interno di una realtà costruita che chiamiamo Natura o le assimila tramite un discorso umanista che perpetua però lo stesso pensiero di eccezionalismo umano, il pensiero che anima questo bestiario di saggi si articola a partire dai corpi intesi non come realtà ontologiche ma indagati come assemblaggi in movimento. È la materia corpo, qui, a immaginare ed elaborare nuovi modi di relazionarsi, fondati sul contagio e sull’innesto, sulla frammentarietà e sulla moltitudine, con il resto del vivente. Dove le teorie critiche che pensano e fondano l’Altro trovano un limite, immaginare alternative partendo dalla materialità dei corpi significa sentire e integrare la loro alienità interna e costitutiva, proprio perché operanti su una linea differente di saperi: quelli della sensazione e della percezione. Così non esiste un corpo unico, né personale né collettivo, ma casomai forme di coabitazione (non necessariamente pacifiche) mai fissate, ma soggette a continue riarticolazioni, modulazioni e assestamenti.
L’antologia, edita da Ombre Corte, è una mappa preziosa per orientarsi nel fragile territorio naturalculturale spesso osservato e indagato da una produzione critica che cerca incessantemente di ridefinire, reinterpretare e re-istituire il rapporto binario Uomo/Animale, Umano/Non-umano e oggi anche corpo-umano/corpo-virus e le singole soggettività che lo compongono, fallendo, più che negli intenti, nella modalità di ricerca, incapace di superare un pensiero cartesiano che vede ancora gli organismi e le materie come realtà ed esistenze staccate, distanti, non connesse e di fatto profondamente ineguali. Divenire invertebrato propone invece la viscidezza come modus operandi; non abbiamo bisogno di nuovi modi di guardare e leggere l’altro da noi, ma di abbattere definitivamente questo concetto e questa funzione, aprendoci alla fluidità e molteplicità di un’alterità «con-in-tra noi» (Filippi, Monacelli).
Attraversando i territori della filosofia classica fino ad addentrarsi nelle teorie di impronta neomaterialistica più selvagge, gli autori e le autrici dei saggi creano ambienti autosufficienti in cui provano ad attraversare e ri-significare questa parola (Altro) proprio come farebbe un organismo invertebrato, privo di scheletro e capace perciò di muoversi in maniera vischiosa tra le cose e gli oggetti così come tra le pieghe dei discorsi, delle tecniche, delle teorie, della scrittura. A essere invertebrata è infatti per prima la struttura del testo, che non segue un modo comune di fare e indagare le cose, ma introduce il lettore alla teoria dell’antispecismo viscido attraverso la biologia e il manifesto letterario (Miéville), la fisica quantistica (Barad) e gli studi di genere (Hayward, Jami Weinstein), il femminismo speculativo (Konior, Granata) e le biotecnologie (Thacker), evidenziando così l’intreccio generativo di saperi e di questioni che questa teoria è in grado di generare cre/attivamente. L’antispecismo viscido non è infatti composto da un unico sguardo su un solo oggetto, ma da una moltitudine di prospettive che diffrangono e cambiano il punto osservato, rimettendo in discussione, ancora una volta, cosa sia e di cosa si componga l’essere animale e l'”essere-animale”. Lo fa, come apostrofa Dal Lago nella prefazione e come in un certo modo chiude il cerchio Van Engen nell’ultimo saggio, non dalla prospettiva dell’animale vertebrato, quello che ci somiglia e che appare nei manifesti contro lo sfruttamento e lo sterminio degli animali allevati, ma dall’animale mostruoso, dal corpo portatore di una differenza radicale. Ciò che è mostruoso è ciò che differisce rispetto un’ipotetica norma, è ciò che è senza una forma perché può mutarla, ciò che moltiplica le parti o le omette. È mostro qualcosa che attrae e contemporaneamente fa ritrarre, e forse proprio per questa sua tendenza molteplice e pervasiva viene preso in considerazione nell’antispecismo viscido; per la sua capacità di non aderire agli schemi corporei di una dittatura dell’Io ma di aprirsi, chiudersi, frastagliarsi, e così farsi anche portatore eletto di paure, di crisi, di sentori e di possibilità. Indagare l’animalità per l’antispecismo viscido è di fatto indagare sulla mostruosità con-in-tra le cose, sull’essere alieno e scomposto che non attinge a regole e non si inserisce nelle caselle socioculturali ma si muove, si rigenera, si reinventa continuamente in nuove forme, indossa una volta le antenne e l’altra la coda senza volersi né potersi necessariamente definire mai attraverso una o l’altra.
Come Lynn Margulis – biologa molecolare più volte citata nel testo – spiega nella teoria dell’endosimbiosi, conviviviamo con miliardi di batteri che a loro volta convivono con noi. Corpi composti e assemblaggi molecolari producono corpi che parrebbero individuali ma sono in realtà articolazioni e composizioni. È per questo motivo che la materia non va considerata come un’essenza ma va osservata come una pratica; il corpo è un continuo scambio di informazioni e un instaurarsi di negoziazioni tra i soggetti che lo abitano (cellule e batteri) per poter attuare le attività che permettano la conservazione o, a suo tempo, il disfacimento. Non-umano e umano – ma è da chiedersi forse dove stia il confine, a questo punto, tra i due – istituiscono una relazione di parentela più stretta e più interconnessa di quanto gli animal studies sembrino averci descritto fino a oggi e di come la filosofia ce la abbia riportata per gran parte della sua storia. Non ha senso, dunque, nemmeno gerarchizzare il pensiero se è solo da un’intersezione di pratiche di quest’ultimo che si genera la vita e che la realtà materiale e immateriale esiste.
L’originalità di questo assemblaggio di teorie, scritture e sguardi sta a mio giudizio proprio nella capacità di restare coeso pur mantenendo una complessità eterogenea di ricerche e di testimonianze attive. Si tratta di una forma di coabitazione come quella che avviene tra e nei corpi e negli ecosistemi, nelle città e nell’umidità del sottosuolo, corpo invertebrato che penetra e contamina quello che incontra e con cui si relaziona essa stessa.
Divenire invertebrato non si pone le ennesime domande su animale e animalità ma si chiede come fare, di queste e altre domande, motore di azione, di resistenza e di sconquassamento durante la necessaria discesa nel mondo fisico del promiscuo, del viscido, dell’abissale, nell’humus invertebrato che siamo-con innumerevoli altre soggettività agenti.