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Fare gol non serve a niente
“Fare gol non serve a niente” (add editore 2024) di Luca Pisapia ci parla di genesi, storia e nuove frontiere del (neo)calcio professionistico maschile. Lo presentano oggi, venerdì 20 dicembre, a L/IVRE (Esc, alle 19,30) Ciccarelli, Natella e Santoro – presente l’autore
Leggendo voracemente Fare gol non serve a niente – Il pallone nella rete della finanza (add editore, 185 pp.), ultima fatica del giornalista e scrittore Luca Pisapia, ci rendiamo conto che il libro mette nel mirino due platee, opposte e simmetriche: nella prima troviamo gli appassionati di calcio ipnotizzati dalla nostalgia per un mondo mai esistito, i gruppi ultras spesso distratti da scalate societarie, spaccio internazionale e spedizioni neofascisti, gli addetti ai lavori che ignorano Il Capitale e i giornalisti sportivi trasformati in ufficio stampa dei club; nella seconda, si muove il management dei fondi speculativi – mascherati da impresari tifosi –, l’impero dell’infotainment e i padroni delle burocrazie calcistiche. Lo diciamo in premessa a entrambe le curve: conosciamo la trappola e puzza di reazione.
È un libro rivolto, innanzitutto, a quelli che rimpiangono il “calcio antico”, gli stadi scoperti, i capitani-bandiera, la messa collettiva domenicale delle 15, l’immancabile “panino con frittata”. Insomma, tutta quella retorica posticcia che ammanta le litanie subalterne contro il “calcio moderno”, con poca memoria e un pelo sullo stomaco senza pari.
Ricordiamo, per i più distratti, che proprio nei mitologici anni Settanta scoppia lo scandalo del doping in mezza serie A, mentre la camorra prepara la mangiatoia del calcio scommesse e i padri-padroni del pallone legittimano le loro imprese petrolifere, industriali o del mattone comprando campioni a peso d’oro, tra fondi neri e corruzione diffusa (per info e dettagli, Nel fango del Dio Pallone, del compianto Carlo Petrini).
Ma di questa matrice maleodorante, nei meandri della retromania calcistica, non c’è mai traccia. Chiariamo: il calcio è da sempre “sangue e merda”, per genesi e sviluppo. Un corpo a corpo permanente tra cultura popolare e valorizzazione capitalistica, lavoro vivo in maglietta e calzoncini ed estrazione di plusvalore diretto e indiretto, unificazione dei mercati (prima del professionismo e poi della infosfera) e tendenza al monopolio. Ma ci sono stati dei momenti storici in cui questa tendenza si è mostrata come arco di possibilità, un crinale dove antico e nuovo si mescolavano senza approdi certi.
Fino al 1980, in Italia non è possibile vedere partite di campionati esteri. È l’emittente locale Teleroma 56, vicina al Partito radicale, che rompe il tabù grazie alla felice intuizione del giornalista Michele Platino, che decide di acquistare i diritti dei campionati internazionali a prezzi stracciati.
Nasce Football Please, contenitore pionieristico del calcio inglese e non solo, che apre un varco che in una manciata di anni si trasformerà nel nuovo Eldorado del calcio globale.
In questi anni il ciclo di valorizzazione si fonda soprattutto sulla vendita dei biglietti e sulle prime sponsorizzazioni, un po’ di merchandising, l’acquisto e la vendita degli atleti.
L’accesso allo stadio è ancora a bassa soglia, i settori popolari sono un laboratorio culturale e sociale figlio delle tensioni trasformative che animano il mondo fuori dagli spalti. Le società di calcio detengono ancora il “cartellino” dei giocatori, possono decidere la loro vita e morte sportiva, i magnati e le grandi famiglie industriali mettono la loro firma sulle vittorie e sulle sconfitte degli undici in campo.
La nascita delle pay tv, con l’esplosione della torta dei diritti televisivi, e la sentenza Bosman (che trasforma i calciatori dell’Unione Europe in liberi professionisti) segnano il cambio di paradigma.
A partire dai padri del pallone, gli inglesi, che inventano la Premier League, trattano direttamente i diritti tv, spianano i vecchi impianti, trasformando gli stadi in teatri di consumo, sorvegliati e militarizzati, in cui di fatto scompaiono i settori popolari.
Il lavoro di Pisapia rappresenta un salto di qualità nella ricostruzione storica e nell’analisi economico-sociale: dagli esordi in terra inglese e nelle colonie, passando per la industrializzazione fordista del “calcio-massa”, fino alla finanziarizzazione che segna l’avvento, ancora in corso, del “neocalcio”, concetto chiave elaborato nel 2003 da Guido Liguori e Antonio Smargiasse (Calcio e neocalcio. Geopolitica e prospettive del football in Italia).
Un lungo viaggio nel cuore della finanziarizzazione del pallone, che sancisce la definitiva emancipazione del rapporto tra risultati sportivi e ricavi economici. L’esempio più illuminante è quello del “mercato del debito”, degli investimenti in perdita in società sull’orlo del fallimento, del reticolo di scatole cinesi che disegnano l’ubiquità finanziaria del grande capitale: la mano destra, attraverso la faccia buona del management “salva” una società indebitata per poi intascare gli anticipi dei diritti tv; la mano sinistra, nelle vesti di un fondo speculativo, intasca gli interessi sui soldi prestati alla stessa società che doveva salvarsi. Due facce della stessa medaglia, per un’unica missione: dispiegare un dispositivo flessibile di rendita finanziaria ed estrazione di plusvalore.
In questo vortice si staglia la moltiplicazione di competizioni, tornei, esibizioni, sia di club che delle nazionali, in una folle corsa che satura i mercati delle manifestazioni sportive. Una sorta di “oversporting” che invade la vita quotidiana degli appassionati, trasformati in utenti e consumatori, in perenne fruizione e dipendenza da eventi.
Proprio in queste ore si stanno svolgendo i sorteggi per l’ultima invenzione, quel Mondiale per Club FIFA, che si disputerà negli Stati Uniti dal 15 giugno al 13 luglio 2025: 32 squadre da ogni angolo del mondo, divise in 8 gironi da 4. Per l’Italia parteciperanno due squadre, Inter e Juventus.
Il punto critico del libro, che apre domande e questioni ineludibili, nasce proprio da qui: questo modello vorace di produzione e consumo del pallone può incontrare qualche resistenza oppure siamo davanti a una struttura di dominio implacabile?
Qual è il ruolo del “lavoro vivo”, quei giocatori iper-professionisti divenuti “capitale umano” privilegiato nelle massime serie, mentre migliaia di colleghi delle serie inferiori non vedono luce?
La stessa domanda vale per i tifosi comuni e per la loro parte più radicale, gli ultras, che rendono il calcio ancora oggi un fenomeno sociale non completamente addomesticato: esiste ancora, per questo mondo, una prospettiva diversa oltre la padella del consumo compulsivo e la brace della retorica identitaria, spesso sovranista, “contro il calcio moderno”?
Negli ultimi 30 anni, il “modello inglese” si è imposto come tendenza generale, ma non sempre e non ovunque con la stessa intensità. In Germania, ad esempio, sul fronte dell’accessibilità agli eventi e sulla struttura delle società, i tifosi in forma associata hanno esercitato un ruolo di resistenza che ha inciso anche nelle politiche delle leghe. Non solo in alcuni club con una importante tradizione sociale, come l’Union Berlino o il St.Pauli di Amburgo (per approfondire, St. Pauli siamo noi, di Marco Petroni), ma anche in quelli più grandi, come il Borussia Dortmund o il Bayern Monaco, dove le tifoserie si sono trovate in prima linea contro il caro biglietti, la finanziarizzazione del calcio e i rigurgiti razzisti.
Nel 2021, l’annuncio della nascita della Superlega europea, promossa dall’élite dei campionati nazionali, ha visto una sorta di insurrezione da parte della stragrande maggioranza dei tifosi, a partire da quelli delle squadre più blasonate. Un segnale di rifiuto che ha prodotto un esito contraddittorio: la Superlega è stata accantonata (per il momento), ma la nuova Champions League sembra andare proprio in quella direzione.
La storia nata il 26 ottobre 1863 presso la Freemason’s Tavern di Great Queen Street, che ha attraversato continenti, guerre, dittature e rivoluzioni, trasformazioni produttive, sembra arrivata al capolinea.
Non sappiamo se, come e quando scoppierà la bolla speculativa globale di un prodotto che ha rotto tutti i confini in nome del profitto. Non sappiamo se la sua storia sociale, di partecipazione e di aggregazione di massa, sarà in grado di proseguire il corpo a corpo all’interno del modello vincente oppure proverà a tracciare nuove strade (a partire magari dalle tante esperienze di “calcio popolare”). Sappiamo solo che anche la prossima apocalisse andrà in onda in diretta tv e su tutti i device a nostra disposizione.
L’immagine di copertina e le immagini nell’articolo sono di foto di Marcello Geppetti / MGMC, che ringraziamo per la gentile concessione.
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